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Autore: Heihei    21/07/2017    1 recensioni
Bethyl-AU
Quegli stupidi degli amici di Beth sono determinati a rendere il suo diciottesimo compleanno memorabile, peccato che le loro buffonate la faranno restare bloccata in un brutto quartiere di una città sconosciuta, attualmente pattugliato dall'Agente Shane Walsh. Minacciata sia dagli agenti che dai criminali, dovrà rassegnarsi alla compagnia di un gruppo di zotici, tra cui un certo redneck particolarmente scontroso.
**Questa storia NON mi appartiene, mi sono limitata a tradurla col consenso dell'autrice**
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon, Maggie Greeneunn, Merle Dixon
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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XIX. Fortuna / XX. Di nuovo a casa

 

“Hai mai pensato di entrare in polizia?”, gli chiese Rick, che sì, aveva smesso di bere, ma solo dopo esserci andato giù pesante.
A quanto pareva, avrebbe trascorso la notte in città, o almeno così suggeriva la chiave che continuava a strisciare sul bancone da quando avevano cominciato a parlare, chiaramente di una stanza di qualche motel.
“Non ho mai pensato di entrare in niente”, Daryl fu sorpreso da se stesso per quanto ormai la sua lingua farfugliante si fosse sciolta.
Comunque, non era del tutto vero, ma tutte le volte che aveva anche solo pensato di mantenersi con qualcosa di stabile, non erano stati altro che pensieri fugaci. Per non parlare del fatto che aveva passato così tanto tempo a evitare gli sbirri che sarebbe stato contro la sua stessa natura entrare a far parte della loro combriccola, a prescindere dal ruolo che gli avrebbero offerto.
“E’ per… il modo in cui hai cercato tuo fratello. Riesci a pensare come lui e come quegli altri uomini che mi hai detto di conoscere da tempo. Tu capisci le loro dinamiche come ogni bravo poliziotto dovrebbe fare”, spiegò Rick. Lo sguardo pensieroso e vitreo che i suoi occhi iniettati di sangue avevano mantenuto con rigore nelle ultime ore cominciò a svanire, riflettendo invece i suoi pensieri. “Non ho potuto fare a meno di dirtelo. Dovresti prendere questa cosa in considerazione.”
“Non è una di quelle cose a cui si pensa prima di arrivare alla mia età?”
Rick, semplicemente, fece le spallucce.
“Nah, scordatelo.” Daryl si diede uno schiaffetto sulla guancia e si raddrizzò. “Sei ubriaco, amico.”
“Sì”, confermò lui, “ma sto ancora bene. Secondo me è una cosa che potresti fare, se solo lo volessi.”
“Non lo voglio”, brontolò.
“E’ giusto, ma hai tutte le carte in regola.”
“Non ho trovato mio fratello”, gli ricordò.
“…A proposito, devi farmi un favore, e tienilo bene a mente”, Rick cominciò ad alzarsi lentamente dallo sgabello, come se si aspettasse di perdere l’equilibrio. “Mi farò sentire. Ti dirò tutto quello che scopro su tuo fratello, ma tu dovrai fare lo stesso con me.” Posò il suo biglietto da visita sul bancone, passandoglielo. “Non sono in condizioni di darti un passaggio, ti chiamo un taxi.”
Daryl afferrò il biglietto e se lo mise in tasca, sbuffando. “Hai visto dove siamo? Andrò a piedi.”
“Beh, sarà una lunga passeggiata”, disse Rick dubbioso.
“Andrò direttamente a casa, non alla fattoria. E’ più vicino.” Più o meno. “E poi, ho voglia di farmi una camminata, ho troppe cose nella testa.”
“Mmh”, l’Agente lasciò una mancia al barista e si rimise la giacca. “La figlia del fattore”, disse poi di punto in bianco, e non sembrava sul punto di fare una domanda. Sembrava aver capito che Daryl non aveva alcuna intenzione di parlarne. “Scusami se ti ho portato via da lei… sembrava una di quelle cose da non gettare nel dimenticatoio. Affrontala, vai fino in fondo.” Si fermò e, con un cipiglio, rifletté sulla scelta ambigua delle sue ultime parole.
“Dannazione!”, Daryl si portò i palmi a coprirsi gli occhi già chiusi, strofinandoli. Era troppo sbronzo per combattere qualsiasi tipo di pensiero proibito.
“Sai cosa intendo.”
“Non ne sono sicuro”, mugugnò mentre scendevano insieme dal marciapiede, pronti ad attraversare la strada deserta.
Il sole era tramontato e tutta la vita sembrava essersi spostata alle loro spalle, in quel bar. In strada non c’era nessuno, fatta eccezione per le cicale e le zanzare.
“Mi hai ascoltato per tutto il tempo mentre mi lagnavo per Lori...”, si fermò a guardarlo. La luce a neon lampeggiante dell’insegna di un motel di merda gli illuminava le spalle. “Ha sempre cercato di dirmi che io… che io non parlavo abbastanza. Che non condividevo. Mi piace pensare di aver imparato qualcosa da tutta questa storia, e credo che in fondo sia questo: devi parlare. E’ più importante ascoltare, certo, ma parlare significa farle capire che l’hai fatto quindi… è comunque importante. Parlale.”
Daryl si limitò a grugnire, come riflesso di una resistenza che dentro di lui stava prendendo il sopravvento. Il sorrisetto sul volto di Rick gli suggerì che aveva capito benissimo a cosa stava pensando.
“Ci vediamo”, disse.
Al posto di ricambiare il saluto, gli fece un cenno e i due, come era naturale che fosse, presero due strade diverse: Rick sparì nell’oscuro parcheggio del motel e Daryl s’incamminò in direzione della fattoria.
Parlare?
Per quelle due ore aveva cercato di capire cosa avesse spinto Rick a parlare della sua vita a un criminale. Anche se non poteva avere la certezza che Daryl lo fosse, quell’uomo era abbastanza intelligente da capirlo. Inizialmente aveva evitato di chiederglielo perché sembrava davvero a pezzi, ma dopo aveva cominciato a realizzare che avrebbe potuto anche essere una specie di tattica. Alcune persone sono più inclini a raccontare i propri segreti a persone che hanno fatto lo stesso con loro e, se quello era lo scopo di Rick, Daryl era orgoglioso di affermare che non l’aveva raggiunto. Ma mentre camminava, tagliando per i sentieri che più gli erano comodi, si convinse che in realtà Rick non aveva nessuno scopo. Proprio perché era un uomo intelligente, sapeva che quel genere di cose non funzionavano con Daryl; si era aperto sinceramente, e sinceramente stava cercando di aiutarlo.
...Parlare?
Forse avrebbe dovuto semplicemente andare, lasciare la fattoria e dimenticare la ragazzina, ma quell’opzione gli provocava dolore. Voleva starle vicino quel tanto che gli bastava, nonostante sapesse già che quel tanto non gli sarebbe bastato a lungo. Negli ultimi giorni, quando aveva provato a starle alla larga, anche solo limitandosi a guardarla, una vocina gli aveva costantemente ricordato che non era soddisfatto, che aveva bisogno di avvicinarsi di più, un po’ per volta.
Sapeva che Rick aveva ragione. C’erano un’infinità di parole in mezzo a tutti quegli sguardi e a tutte quelle volte che non era riuscito a non toccarla.
Parlare.
I pensieri che gli giravano per la testa lo rendevano nervoso in un modo che non gli piaceva affatto. Lei voleva farlo parlare, ci stava provando; lo riempiva di domande e pian piano si apriva la strada per entrare dentro di lui.
Ma cosa voleva che le dicesse? Qualsiasi cosa volesse da lui, era destinato a fare la cosa sbagliata.
Aveva provato a fare niente, ma non aveva funzionato.
Aveva provato a essere cattivo, ma lei aveva capito comunque.
Ora Rick gli diceva di parlare, ma non gli era sfuggito il fatto che si stesse riferendo a un modo specifico di farlo. Gli aveva consigliato di dirle la verità e cazzate varie sui sentimenti che solo a pensarci gli si contorcevano le budella.
Digrignò i denti. Era sicuro che, se non avesse smesso di giocarci, si sarebbe staccato via la lingua a morsi. Una parte di lui era incline a continuare a percorrere quella strada a vuoto, evitando di andare alla fattoria e affrontarla.
Andiamo, Dixon. Fai l’uomo, porca puttana!
Non era assolutamente pronto per una cosa del genere.

● ● ●


Per pensare così tanto a Daryl e a Merle, Beth si era dimenticata di fare quel genere di domande che in genere avrebbe fatto. Domande del tipo: “Maggie, dove stiamo andando?” oppure “Maggie, perché siamo vestite così?”.

Aveva dato per scontato che fosse una sorta di festa a cui la ditta era stata invitata per intero e non era stata per niente curiosa, almeno finché non si era ritrovata in un’enorme hall illuminata dalla luce del tramonto con circa un centinaio di persone in più di quante se ne aspettava.
“Dove siamo?”
Si lisciò i capelli che le ricadevano sulle spalle con le dita, desiderando di essere stata anche solo due minuti in più a cercare di rendersi presentabile.
Maggie, ovviamente, era incredibile. Soprattutto se si prendeva in considerazione il fatto che tecnicamente aveva preparato entrambe e che, grazie a Merle, l’aveva fatto in una situazione estremamente stressante. Si sistemò la gonna del vestito e, leggermente nervosa, cominciò a guardarsi intorno. Cosa che, al contrario, fece rilassare Beth.
“All’inaugurazione di una galleria d’arte. C’entra sicuramente qualche vecchio cliente e credo che sia un amico del capo, perché ci teneva particolarmente alla presenza di tutto lo studio, compresi i comuni paralegali.”
Il nervosismo le scivolò addosso e sorrise non appena vide un uomo in elegante completo grigio venire nella loro direzione.
“Maggie, sei desiderata al tavolo della roulette russa.” L’uomo indicò l’angolo più lontano della sala, dove un gruppo di persone sedeva intorno a un tavolo, ognuno con il proprio bicchiere.
Beth arricciò la fronte non appena notò l’allestimento di tutta la sala, popolata da una massa di corpi esuberanti e chiassosi: c’erano diversi tavoli da poker e black jack e, in fondo, un’enorme ruota della fortuna.
“Ok… che cos’è in realtà?”, Maggie inarcò un sopracciglio.
“Ognuno ha un bicchiere e tutti, tranne uno, contengono dei normalissimi cocktail. L’unico diverso infatti ha...”, non ebbe bisogno di continuare, poiché gli bastò indicare distrattamente il tavolo alle sue spalle.
Le ragazze seguirono il suo sguardo giusto in tempo per vedere una donna in lungo abito blu avvampare. Aveva il volto piegato in una smorfia e gli occhi in lacrime.
“Beh… le stanno già facendo il video”, continuò l’uomo.
Infatti, gli altri invitati avevano tirato fuori i telefoni e si erano avvicinati per riprendere quella donna che, quando le piccole convulsioni cessarono, scoppiò a ridere.
“Sì, ma non c’è proprio modo che io faccia una cosa del genere. La salsa piccante è fin troppo hardcore per me. Signor Samuels, lei è Beth, mia sorella e, stasera, mia accompagnatrice.”
“Ciao, piacere di conoscerti. Hai ventun anni?”
“Diciotto”, ammise Beth.
“Bene, allora devi cercare...”, si guardò intorno. “Ma dov’è andata?! Aspetta qui, dobbiamo farti il timbro.”
“Il tema è la fortuna”, spiegò Maggie quando l’uomo sparì dalla loro vista. “Perciò ci sono tutti i giochi d’azzardo. Andrea ha detto che ci sarà anche qualcuno a leggere i tarocchi. Divertente, no?”
Aspettarono fino al punto di arrivare a pensare che si fossero completamente dimenticati di loro, ma poi una ragazza le raggiunse e timbrò il palmo della mano di Beth con un’enorme X nera, in modo tale da segnalare che il bar non avrebbe potuto servirla.
Per i primi venti minuti o giù di lì, rimase attaccata a Maggie mentre si faceva strada tra gli ospiti. Ogni tanto si fermava a chiacchierare con avvocati e amici e Beth sorrideva cordialmente a tutti, continuando a chiedersi dove avessero nascosto il cibo. Avrebbe dovuto accettare la proposta di Merle e prendere un po’ della sua pizza, ma in quel momento non aveva pensato al suo stomaco.
Cominciò a sentirsi pian piano sempre più a suo agio e, gradualmente, si staccò da Maggie per avvicinarsi alle pareti. Quella galleria era un curioso mix di arte moderna, surrealista e tradizionale. Non riuscì a capire con quale criterio venissero associati tra loro i dipinti e non credeva di poterlo fare se continuava a restare in quella stanza. Forse le cose avrebbero acquistato più senso nella galleria vera e propria.
Maggie era immersa in una conversazione con due suoi colleghi e sembrava che avesse intenzione di fermarsi lì per un po’. Le toccò la spalla e le indicò l’altra stanza per farle capire in quale direzione sarebbe andata e, appena entrò nella stanza principale, poté finalmente riprendere a respirare. Era piena zeppa di opere d’arte e vi erano solo un paio di ospiti che sussurravano tra di loro accanto a un enorme quadro raffigurante innumerevoli spade da samurai dalle guaine decorate. Erano poste una sopra l’altra, dal pavimento fino a raggiungere il soffitto. Al centro della stanza, invece, c’era una piccola tenda fatta di un materiale che, alla vista, sembrava piuttosto pesante. Accanto ad essa c’era un cartello che indicava che era lì che venivano letto i tarocchi.
La tenda si aprì e ne uscì una donna con un sorriso imbarazzato sul volto. Beth esitò un momento prima di decidere che quello era il suo turno.
All’interno, inspirò un’aria densa e calda che sapeva d’incenso bruciato. Vi erano dei cuscini adagiati sul pavimento e, su uno di essi, sedeva una ragazza che doveva avere pochi anni in più a lei. Aveva i capelli biondi e lisci e due grandi occhi azzurri. Le sorrise e, con un cenno, le indicò un cuscino.
“Hai qualche preferenza?”, le chiese. Aveva un’aria rilassata e disinvolta che Beth non si aspettava.
“No… in realtà, non capisco niente di tarocchi”, rispose, ma dopo una scrollata di spalle, si ricordò di conoscere un mazzo. “Croce celtica?”
La ragazza annuì. “Tradizionale, mi piace. Avanti, mettiti comoda.”
Beth s’inginocchiò.
“Come ti chiami?”
“Beth Greene.”
“Io sono Amy.”
Le strinse la mano e cominciò a mischiare e a rimischiare il mazzo di carte sul tappeto. Dal collo penzolava una catenina con un ciondolo a forma di sirena.
Quando si assicurò che il mazzo era stato ben mischiato, Amy scoprì una carta dal centro. Era al contrario.
“Asso di coppe rovesciato.” Con un cipiglio, tracciò una linea immaginaria con il dito sulla coppa dorata disegnata sulla carta. “Sei stata più riservata del solito, ultimamente? Hai cercato di reprimere i tuoi sentimenti, i tuoi pensieri?”
“Credo di sì, ma le cose stanno cambiando.” Beth si agitò sul posto, improvvisamente a disagio. Non aveva mai creduto a quel genere di cose, era solo per divertimento, eppure non si sentiva a suo agio e aveva cominciato a chiedersi se quelle coincidenze avessero potuto aiutarla ad ammettere determinate cose su se stessa.
Amy scoprì altre carte.
“Cavaliere di spade incrociato. Le cose stanno cambiando grazie a qualcuno o a qualcosa.”
“Qualcuno”, ammise lei, sporgendosi per guardare meglio l’immagine del cavaliere.
“Una persona testarda, impulsiva, che preferisce agire. Ma ciò non significa che non sappia comunicare.”
Beth roteò gli occhi, incapace di trattenere un sorriso.
Amy, nel frattempo, passò alla carta successiva. “Otto di spade. Lui non è il motivo per cui ti sei trattenuta. Ti sei sentita sola, e ora ti senti in trappola.” Un’altra carta venne scoperta ancor prima che realizzasse quello che le era appena stato detto. “Il matto. Ti sei accorta che la tua infanzia è finita, hai già avuto i tuoi momenti di innocenza e libertà.”
Beth si ricordò del perché aveva sempre evitato quel genere di cose: quando sbagliavano erano del tutto inutili, ma quando avevano ragione erano davvero inquietanti.
Amy sembrava più preoccupata. Le sue sopracciglia si aggrottarono formando una piega sulla sua fronte. Poi, però, la sua espressione s’illuminò quando scoprì un’altra carta e tirò un profondo respiro di sollievo.
“Sacerdotessa. Hai fatto bene a gettarti il passato alle spalle, ora hai nuove abilità e puoi contare sul tuo intuito.”
La carta seguente, invece, mostrava un essere angelico che fronteggiava un uomo e una donna mano nella mano.
“Giudizio. Può significare un nuovo inizio, ma anche un’assoluzione.”
Beth si lasciò andare a una risata nervosa. “Stavi cominciando a spaventarmi.”
L’altra inarcò un sopracciglio. “Beh, non siamo ancora fuori dal bosco.”
La prossima carta raffigurava un uomo che sottometteva un leone.
“Sei forte e ostinata. A prescindere da cosa tu stia pensando di questa situazione che stai vivendo, tu hai il controllo.”
Di quello non era proprio chissà quanto convinta. Ritornando in sé, pensò che erano solo delle immagini stampate su dei pezzi di carta. Non potevano riflettere la realtà.
“Cinque di bastoni”, continuò. “Al di là della conflittualità, ci saranno molti ostacoli davanti a te.”
Amy indicò le ultime due carte da scoprire. “Una rappresenterà la tua speranza e l’altra la tua paura. Starà a te decidere quale rappresenterà cosa.”
Scoprì la prima carta. “Gli amanti.”
Confusa, Beth sbatté le palpebre più volte quando vide la coppia che si abbracciava sulla carta.
“Allora? Speranza o paura?”, chiese, anche se non sembrava aspettarsi di ricevere una risposta. Forse l’espressione sul volto di Beth le era bastata. “Adesso, il risultato di tutto questo è...”
Scoprì l’ultima carta ma, quella volta, non disse il nome. Non ce n’era bisogno, poteva capirlo anche da sola.
Era la morte.
“Non aver paura.” Amy scrollò una spalla con freddezza e ripose a ritroso tutte le carte, in modo che la prima a vedersi fosse l’immagine della figura con un teschio sulla faccia. “Significa solo cambiamento. Da qui in avanti, qualcosa di diverso sconvolgerà il tuo mondo.” Poi aggiunse, piuttosto inutilmente: “Ovviamente, può indicare anche la morte in senso letterale.”
“Significa che le cose non potranno mai tornare come prima, giusto?”, indovinò Beth.
“Esatto. Ma del resto è sempre così, no?”
Annuendo, si sentì un po’ più tranquilla. La prima cosa che aveva pensato quando aveva visto le carte era che avessero ragione, ma non doveva prenderle troppo sul serio.
“Allora… su cosa ho avuto ragione? Amo avere ragione”, Amy si morse il labbro impaziente, sembrando ancora più giovane.
“Ci sono state diverse… corrispondenze”, ammise Beth.
“Fantastico. C’è qualcun altro qui fuori?”, indicò l’apertura della tenda alle sue spalle.
Dopo aver dato una rapida occhiata, Beth scosse la testa.
“Bene. Andrò a prendere qualcosa da mangiare.” Amy richiuse le carte nel loro contenitore e lo ripose nella parte posteriore della tenda, accanto a una borsa ricoperta di perline e a una stampa di un’altra sirena.
Beth uscì per prima, seguita subito da lei.
“Non sei un avvocato, vero?”, le rivolse un’occhiata rapida.
“No”, disse, “sono venuta per mia sorella. Lavora allo studio legale.”
“Oh, forte. Anche la mia. Studio alla Georgia State, le carte sono solo un hobby, ma mi ha chiesto di leggerle agli ospiti di stasera. Sembra una bella festa.”
Il suo atteggiamento rilassato, allora, aveva acquistato un senso.
“Sai dove nascondono il cibo?”
“Non ne ho idea.”
“La seconda stanza da quella parte”, furono interrotte da una voce.
Si voltarono entrambe. Non avevano notato che ci fosse qualcun altro.
Era una donna slanciata ed elegante, indossava un lungo abito bianco e dava loro le spalle mentre osservava con attenzione il dipinto delle spalle. Con un braccio stava indicando la loro destra. La pelle era scura e luminosa, dello stesso colore profondo dei suoi dreads perfettamente curati e intrecciati sulla sua testa con un nodo.
“Grazie!”, disse Amy prima di scappare via.
La donna davanti al dipinto delle spade si voltò appena, ma a Beth fu sufficiente per intravedere un viso assolutamente impeccabile. Aveva un’aria sofisticata.
I suoi occhi guizzarono su di lei e le sorrise. “Sei qui per l’arte, per il cibo o per entrambi?”
A essere onesta, non sapeva perché Maggie l’aveva portata lì. Probabilmente, era per tenerla occupata.
“Sono semplicemente qui.”
Il sorriso della donna si allargò, mostrando dei denti bianchi e perfetti. Beth notò il suo sguardo spostarsi sulla sua mano sinistra, dove le avevano timbrato la X nera, e aprì la bocca per dire qualcosa, ma si bloccò quando un rigido rumore di tacchi le avvisò dell’entrata di una terza donna.
“Michonne, che piacere vederti qui.”
Andrea fece il suo ingresso con un vestito da cocktail, simile per colore e stile a quello di Maggie. Il rosso acceso rendeva i suoi capelli ancora più dorati.
“Pensavo di non riuscire a venire”, ammise la donna arricciando il naso. “La mia babysitter ha l’influenza, ma le figlie del tuo amico Samuels si sono offerte per darmi una mano. Sembrano brave ragazze.”

 

● ● ●
 

La festa sarebbe stata molto divertente se Beth non fosse stata così in ansia. Vista l’interruzione di Andrea, era tornata in sala e aveva cercato di chiacchierare con alcuni amici e colleghi di Maggie, incoraggiandoli a farsi leggere i tarocchi. Così, giusto per divertimento. Alla fine, era anche riuscita a trovare il cibo ed era stata a parlare con Amy per un bel po’. Quando le aveva letto il palmo della mano le aveva detto che le sue pieghe indicavano che era una ragazza profondamente sentimentale e destinata al successo. Era stato bello sentirselo dire, anche se non era vero.
Si tranquillizzò solo al calar del sole. Aveva capito che poteva parlare con Maggie, pregare, aspettare un segno divino e pensarci su quanto voleva, ma non poteva aspettarsi che questo cambiasse le cose, che la privasse di ciò che aveva bisogno di fare. Era contenta di esserci andata, di aver scoperto dove si trovava Merle e di aver preso coscienza di determinati sentimenti, ma il problema era sempre lo stesso: come Amy aveva intuito, doveva cambiare.
“Devo chiamare mamma e papà”, disse.
Erano di nuovo nell’auto di Maggie, dirette nel punto in cui aveva parcheggiato la sua Coupé. Sua sorella cominciò a voltarsi per guardarla mentre rallentava per fermarsi a un incrocio.
Beth aveva tenuto per tutto il tempo il finestrino abbassato per sentire il vento tra i capelli, che si fluttuavano formando spirali dorate sul suo viso. In quel momento, però, sospirò e lo rialzò.
“E’ così che deve andare. Se non glielo dico, non sarà mai reale.”
Osservò Maggie alla ricerca di un minimo di comprensione nel suo sguardo.
“Non credo sia una buona idea”, fece una smorfia. “Voglio dire, pensi che siano pronti per una cosa del genere?”
“Ho solo paura che lo caccino. E’ per questo. Non m’importa se si arrabbieranno. Avranno torto e credo che comunque presto o tardi se ne accorgeranno da soli”, sbuffò. “Non voglio che perda il lavoro. Pensavo di poter convincere mamma a parlare con Louise Bush o qualcun altro; magari potrebbe lavorare in qualche fattoria vicina.”
Quando pronunciò ad alta voce quelle parole, non le piacquero. Se già negli ultimi giorni aveva cercato di allontanarla, per lui sarebbe stato ancora più facile riuscirci se fosse stato mandato da un’altra parte, gettandosi alle spalle la disapprovazione della sua famiglia.
Come se le avesse letto nella mente, Maggie scosse la testa.
“Non puoi forzarlo e lo sai. Personalmente credo che lui sia pazzo di te, ma che abbia ancora dei dubbi a riguardo… e si vede. Non so, è una situazione abbastanza delicata e non devi correre troppo. Non hai bisogno di farlo. Rallenta e procedi a passo d’uomo, dagli un paio di settimane. Del resto, vi siete solo baciati. Pensa prima a vedere come si evolve la cosa.”
Aveva ragione. Beth lo sapeva, ma il pensiero di nascondersi e di mentire ancora ai suoi genitori la faceva stare male. Certe volte l’aveva fatta sentire peggio di quanto si aspettasse, più di come invece si sarebbe sentita se glielo avesse detto.
Quando notò che Maggie la stava ancora guardando preoccupata, si decise ad annuire.
“Ok, va bene. Aspetterò.”
Si fermarono accanto alla Coupé di Beth. L’unica auto rimasta nel parcheggio dello studio.
“Sicura che posso tenerlo?”, tirò l’orlo del vestito nero.
“Sta meglio a te che a me”, Maggie le sorrise.
“Va bene. Spero di rivederti presto. Non lasciare che Merle ti faccia impazzire troppo!”
Sua sorella grugnì in risposta, ma riuscì a vedere che nascondeva ancora il sorriso di prima.
Il ritorno a casa le permise di riflettere su tutti i motivi per cui Maggie aveva ragione e cercò di pensare a cosa fare. Nessuno si aspettava un suo ritorno, quindi non sarebbe tornata. Non a casa sua.
Era appena passata la mezzanotte quando parcheggiò su uno dei sentieri dal lato opposto della fattoria e chiuse la portiera. Arrivare al campo di Daryl con i tacchi che Maggie le aveva prestato sarebbe stato fin troppo difficile, così li lasciò in macchina e indossò nuovamente i suoi stivali da cowboy.
In poco tempo, trovò il punto in cui aveva nascosto il furgone, appena visibile dalla strada. Aveva avuto tutto il pomeriggio e la sera per pensarci, e sperò che gli fossero bastati.

 

● ● ●
 

Per le ultime miglia che lo distanziavano dalla fattoria, Daryl decise di procedere attraverso i sentieri accidentati del bosco dove, in teoria, la strada era più breve. Le gambe gli dolevano da quando aveva imboccato la strada per tornare al campo. Non sapeva di preciso quanto avesse camminato e, in fondo, non gli importava neanche più di tanto. Gestiva le sue ore di sonno settimanali scegliendo i turni notturni a inizio settimana e, anche quando non aveva quella scusa, non riusciva a dormire. La mattina seguente però avrebbe dovuto finire di costruire la recinzione e non poteva permettersi di avere i postumi della sbornia, che ormai sembravano inevitabili.
Una volta arrivato, s’inginocchiò davanti alla sua tenda, l’aprì e cominciò a strisciarci dentro, finché la sua mano non si posò inaspettatamente su una morbida gamba minuta.
Evidentemente, non era solo.
“Beth?!”
Era stata sdraiata nella sua tenda, rannicchiata e addormentata, o almeno quasi sul punto di farlo, fino a che lui inavvertitamente non l’aveva toccata. Si mise a sedere e, anche se nel buio era quasi impossibile riconoscere i suoi lineamenti graziosi, Daryl riuscì a percepire un sorriso nervoso.
“Hey Daryl. Sai, è più comoda di quanto avessi immaginato.”
“Che ci fai...”
Stava quasi per chiederle cosa ci facesse lì, quando si ricordò della sua mano ancora appoggiata alla sua pelle nuda e si fece scuotere da un’ondata di brividi. Voleva lasciarla andare, ma invece scivolò sul suo ginocchio, fino a toccare il soffice tessuto del vestito.
“Che ti sei messa?”
Cercò di sforzarsi per guardarla meglio, ma lei stessa si allontanò abbastanza da farsi vedere. Una spallina del vestito le era caduta sulla spalla, ma sembrava che non se ne fosse neanche accorta.
“Come mai sei tornato così tardi?”, gli afferrò i polsi e cominciò a tirarlo dentro la tenda.
Lui obbedì senza particolari pressioni o convincimenti. In quel momento cadere nelle sue mani sembrava più facile di qualsiasi altra cosa. Non c’era molto spazio nella tenda, il suo braccio si avvolse facilmente intorno alle sue spalle. Le dita indugiarono sul suo braccio e trattenne il fiato quando fu tentato di rimettere quella spallina al suo posto, perché allo stesso tempo avrebbe voluto lasciarla lì.
Alla fine, chiuse la mano a pugno e disse: “...Sono stato al bar con Rick per un po’.”
“Rick?”, si voltò verso di lui, la sua voce sembrava lievemente sollevata. “Lo chiami Rick adesso? Quindi è andata bene?”
“E’ tutto a posto”, deglutì. “Poi sono tornato a piedi.”
Beth afferrò la borse che aveva lasciato in un angolo della tenda e tirò fuori il cellulare, con la gonna del vestito un po’ troppo in alto sulle sue cosce. La luce fredda dello schermo illuminò la sua pelle morbida e invitante.
“Ma sono le due di notte!”
“E’ stata una lunga camminata.” Anche al buio, non riusciva a smettere di guardarla.
“…Io sono stata ad Atlanta.” Ripose il telefono nella borsa e si rimise a sedere raddrizzando la schiena, scivolando ancora più vicino a lui.
“Pfft, hai vinto.”
Beth ridacchiò, ma per una frazione di secondo.
Era in ansia.
Inizialmente non ci aveva fatto caso, forse perché era troppo impegnato a pensare alla sua vicinanza e al contempo a schiaffeggiarsi mentalmente. Era troppo bella, e gli sembrava incredibile.
La sentì armeggiare con qualcosa. Udì un click e un fiume di luce dorata dilagò nella tenda dalla sua piccola lanterna elettrica. Ora entrambi potevano guardarsi meglio.
Era visibilmente stanca, fatta eccezione per gli occhi, le cui pupille si erano dilatate così tanto da renderli quasi interamente neri, con l’azzurro chiaro che faceva loro solo da cornice. La sua pelle arrossì sotto il suo sguardo.
“Senti, Beth, io voglio parlare di… tutto questo”, si era sforzato di trovare un termine migliore per descrivere ciò di cui voleva parlare, ma quello fu tutto ciò che riuscì a dire. Gli venne la brillante idea di spiegarlo con un gesto, ma senza neanche volerlo o averlo pensato portò la mano ruvida sul suo viso, posando il pollice sulle sue labbra. La sentì irrigidirsi, il suo respiro farsi corto.
“...Ma sono veramente ubriaco in questo momento”, disse lentamente, a mo’ di spiegazione. Le punte delle dita scivolarono sulle sue guance.
“Quindi forse dovrei andare”, rispose lei, e una vampata di aria calda lo spinse a farsi più vicino, ma poi strinse gli occhi e fece cadere la mano. Perché, anche al buio, era così facile guardarla?
“Sì, dovresti andare”, disse con convinzione. “Ti accompagno, ci sono i lupi là fuori. Ci sono Dave e Tony di guardia, ma non credo di fidarmi di loro.”
“Capisco.”
Sembrava tranquilla, ma c’era un velo di pesantezza nella sua voce che gli fece pensare che forse l’idea di andarsene non le stava del tutto bene. Neanche lui lo voleva, ma non sapeva di potersi controllare in quello stato.
“Ma prima voglio che tu sappia che… Merle è con Maggie.”
“Hm?”
L’aveva sentita, ma non aveva del tutto compreso le sue parole. Forse era stato per i versi delle cicale.
“Aspetta, cosa?”
“E’ tutto a posto, si è nascosto. E’ stato alla larga da tutta la gente che conosce e ha incontrato Maggie… beh, in realtà l’ha seguita...”
“Mio fratello è con tua sorella?”, ripeté di nuovo quello che aveva capito, sentendosi, almeno in parte, sollevato.
Nelle ultime settimane il fatto che non avesse ancora saputo che fine avesse fatto suo fratello lo stava uccidendo. Aveva potuto solo ripetersi ogni giorno che Merle non era morto, finché non aveva cominciato a percepirla come un’enorme bugia.
“Sta bene?”
“Benissimo. L’ho visto oggi, quando sono andata ad Atlanta per incontrare Maggie. E’ a casa sua”, disse lei vivacemente.
Scosse la testa e, di colpo, si sentì instabile. Si stese, coprendosi gli occhi con le mani.
“Daryl, stai bene?”
Beth si stese su di lui, le punte dei suoi capelli biondi gli pizzicarono il dorso delle mani per poi ricadere tra i suoi polsi, raggiungendo il collo.
“Dammi il tempo per realizzare”, disse, facendosi scappare una risata ovattata dai suoi palmi. “Mio fratello è a casa di Maggie. Porca troia, ora sì che ci odierà a morte.”
“Nah.”
Con gli occhi ancora coperti non riusciva a vedere che cosa stesse facendo, ma la sentì cambiare posizione, stendendosi accanto a lui. Gli circondò il petto con un braccio e gli si rannicchiò contro il fianco, premendo la guancia sul suo braccio. Grazie a quel movimento, si ritrovò una manciata di ciocche bionde tra le dita, che lasciò scivolare via tra le sue nocche.
“Lo sta facendo per aiutare te.” Si voltò per sfiorargli la pelle con le labbra. “E penso lo stia facendo anche un po’ per Merle. Credo che in fondo, molto in fondo, le piaccia anche lui, ma mi ha detto che te lo doveva. Era seria.”
Lei non gli doveva niente e stava quasi per dirlo, ma tenuto in ostaggio dal suo corpo aggrappato al fianco e dai suoi capelli tra le dita, gli si era attaccata la lingua al palato.
“Voleva dirtelo.”
Esitando, Beth alzò una mano e, con le dita, gli disegnò una linea immaginaria sulla clavicola, fuggendo poi sul suo collo. Quelle dita chiare non fecero altro che alimentare la sua voglia di averla vicina, e che lo fosse sempre di più.
“Ma non voleva che finissi nei guai per colpa sua.”
“E’ un po’ tardi per questo, no?”, brontolò, pur dovendo ammettere di sentirsi molto più leggero. Eppure non voleva sperare troppo. Non erano ancora al sicuro, neanche lontanamente.
“Sai, sono un po’ gelosa”, la sentì sorridere contro la sua spalla. “Merle ha raccontato a Maggie delle storie su di te.”
Cazzo, questo è umiliante, pensò, ma era piuttosto difficile indisporsi per qualsiasi motivo quando aveva appena saputo che Merle stava bene, mentre aveva una bellissima ragazza proprio sopra di lui.
“Quell’idiota sta già approfittando della sua ospitalità.”
Beth rise di nuovo, alzando la testa quel tanto che bastava per sbirciarlo timidamente, con le dita aggrappate al collo della sua maglietta.
“E io, invece? Sto approfittando della tua ospitalità?”
Non era lei a volersene andare? Oh, bene, pensò, e una vocina traditrice gli ringhiò nella testa, spingendolo ad afferrare quel groviglio biondo per portare la sua bocca aperta sulla sua.
Le sue labbra all’inizio ci andarono piano, accarezzando lentamente quelle di lei, ma un sussulto sorpreso le sfuggì dalla gola quando aumentò la pressione. Si preoccupò di essere stato subito troppo vorace, quindi lasciò che fosse lei ad approfondire il bacio. Le mani di Beth gli scivolarono sul collo, fino a raggiungere la nuca. Avevano appena cominciato a toccarsi e già si stava intimando di darsi una calmata, di mantenere il suo corpo sotto controllo. Una reazione a catena di reazioni diverse lo colpì in ogni punto in cui erano posate le punte delle sue dita e le sue labbra, raggiungendo poi tutto il corpo man mano che sentiva il suo calore sempre più vicino.
Si staccò da lui per lasciargli una scia di baci sulla mascella, mentre con le unghie gli accarezzava il petto. Schiacciò i suoi fianchi contro i suoi e fece scivolare la gamba sul suo ginocchio.
Anche fuori dalla sua percezione normale, Daryl riuscì a contenersi: cercò entrambe le mani, allacciando le dita alle sue e tenendole strette. Beth era così piccola. Quelle dita bianche e delicate rendevano le sue ancora più grandi e malconce. Ne accarezzò i dorsi con i pollici, con leggerezza crescente man mano che prendeva coscienza del fatto che, con tutti quei calli, il suo tocco non sarebbe mai stato piacevole.
Riguardandola in viso, notò che aveva ancora il fiato corto e una domanda stampata negli occhi. Il suo petto si espanse notevolmente sotto le mani intrecciate.
“Stai bene?”, mormorò.
“Mai stato meglio.”
Lei si sporse nuovamente, ritrovandosi di nuovo con la bocca sulla sua, e applicò quel tanto di pressione che bastava per accendere in lui un’altra scintilla.
“Pensavo che fossi ancora arrabbiato con me.”
Daryl gemette. Non aveva dimenticato di quanto si fosse comportato da stronzo, ma il suo senso di colpa raddoppiò non appena si ricordò con precisione certe parole che le aveva detto, il tono che aveva usato quando lei controbatteva a tutte le sue scuse.
“Non avrei dovuto gridarti contro in quel modo. Sono un coglione.”
“Mi prometti una cosa?”
“Cosa?”
Prematuramente sospettoso, era già determinato a non accontentarla. Il suo piede giaceva ancora sulla sua caviglia, nonostante gli fosse scesa di dosso per rimettersi accanto a lui.
“Che smetterai di evitarmi. So che dobbiamo stare attenti a non farci scoprire dalla mia famiglia, ma non fare finta che io non esista. Promettimi che non proverai più a spaventarmi o a cacciarmi via.”
I suoi tentativi, in ogni caso, non avevano funzionato. Forse perché non era mai andato fino in fondo, ma del resto a quel punto non riusciva neanche più a provarci.
“Senti, se questa non è una resa, non so che altro potrebbe essere. Hai già vinto, Greene.”
“Quindi non cambierai idea?”, si morse il labbro inferiore ancora luccicante d’umidità.
La stava ascoltando. Un po’ per quello che gli aveva detto Rick, un po’ perché lo voleva. Non aveva più intenzione di allontanarla. La stava ascoltando sul serio e gli ci vollero solo pochi secondi per capire che intendeva dirgli che aveva paura di restare ancora in bilico. In effetti non era stato mai del tutto sincero con lei fino a quel momento, anzi, aveva cercato di respingerla più e più volte. E se invece si fosse lasciato andare, così come avrebbe voluto fare dal primo giorno?
Lei aveva bisogno di una certezza e lui non riusciva a spiegarsi, non riusciva a dirle che gli dispiaceva per averla trattata male e che non l’avrebbe fatto di nuovo. Non riusciva a dirle che ci teneva a lei. Le parole si erano rintanate nella sua gola e, per una serie di secondi alla disperata ricerca di una chiave, sfregò solo le mani contro le sue.
Aveva cercato di negarlo a se stesso, di convincersi che lei non avrebbe mai potuto provare qualcosa per lui, che non avrebbe mai saputo tenere a bada uno come lui. Aveva pensato che tutto fosse dipeso da una cotta causata da chissà che cosa, ma certamente non da lui. Eppure, lei era troppo intelligente per quel genere di cose, troppo sicura di sé. Si vergognava di averlo anche solo messo in dubbio, di aver lasciato che la paura lo convincesse che lei era troppo giovane, troppo ingenua; di aver pensato che c’era qualcosa di sbagliato in quello che provava mentre se c’era qualcuno lì ad essere sbagliato, quello era proprio lui. La sua dolcezza non la rendeva meno forte o capace. Si era approcciata a lui senza pregiudizi. Era giovane, ma probabilmente lui doveva crescere più di lei. L’aveva giudicata basandosi sulle bugie che si era detto, ma la realtà era che poteva fidarsi di lei. Perché lei sapeva ciò che provava.
“Fin quando mi vorrai qui, ci sarò.”
Sapeva che forse avrebbe dovuto dire qualcosa in più, ma le parole erano diventate definitivamente inafferrabili. Quelle che gli si erano bloccate in gola le aveva ringoiate, credendole fin troppo inadeguate per quello che lei meritava e voleva.
“Ti voglio qui.”
Beth slegò le dita dalle sue e avvolse le braccia intorno al suo busto, stringendolo forte, sentendo il suo battito cardiaco batterle contro la guancia.
“Dovresti ricordarmelo, ogni tanto. Dovresti farmi ragionare.”
“E come?”
Le accarezzò i capelli dalla nuca fino alle spalle e, indugiando per qualche secondo sulla spallina del vestito, sentì la pelle riscaldarsi sotto il suo tocco.
“Dicendomi quando sbaglio. Non voglio oltrepassare il limite, né tantomeno farti del male.”
“Non lo farai. Non me ne preoccupo minimamente e neanche tu dovresti.”
“Invece dovrei”, ribatté lui, senza specificare il motivo.
“Perché?”
Era il momento in cui doveva spiegarsi. Deglutì di nuovo, alzando lo sguardo sulla cerniera della tenda e sulla luce della sua piccola lanterna.
“Perché… guardati, ragazzina! Sei venuta qui, nei boschi, dove io vivo in mezzo ai lupi, nel bel mezzo della notte e con questo addosso… mentre tra l’altro sono ubriaco marcio. Tu… ti fidi di me.”
“Beh, sì”, rispose lei con vivacità.
“E allora devo fare in modo che valga la pena fidarsi di me.”
Per un attimo si limitò a guardarlo, con le pupille ancora dilatate e il più piccolo dei sorrisi nascosto dalle labbra umide. Si sollevò in modo da trovarsi a pochi centimetri dal suo viso e posò entrambe le mani sulle sue spalle. Si avvicinò lentamente, dandogli tutto il tempo per giochicchiare con le sue ciocche di capelli e per accarezzarle una guancia, finché non premette quelle labbra morbide e dolci contro le sue.
“Devo andare”, disse piano.
Lui non poté far altro che annuire, accondiscendendo con riluttanza.
“Non vorrei approfittare della tua ubriachezza”, aggiunse, prendendo la borsa e il telefono dall’angolo della tenda in cui li aveva lasciati e muovendosi verso l’uscita. Portò con sé la piccola lanterna per non inciampare nel buio una volta fuori.
Un secondo dopo, però, la sentì trasalire e gridare.
Daryl scattò in piedi immediatamente. Col cuore a mille, uscì dalla tenda e le strinse un braccio. La luce tremolante della lanterna illuminava a tratti l’arredo frastagliato e naturale della radura. Il sollievo lavò presto via la paura, anche se la mano stretta al suo braccio continuava a tremare. Non sapeva dire esattamente a cosa avesse pensato, ma inconsciamente si era preparato ad ogni tipo di pericolo.
“Pensavo fosse un lupo… ma invece era solo un cane. Ha attraversato il campo all’improvviso”, disse lei, col respiro ancora corto nonostante stesse ridendo di se stessa. Si avvicinò a lui e illuminò l’altro lato della radura per controllare in che direzione fosse andato l’animale.
Ancora frastornato, Daryl scosse la testa.
“Tutto ok?”, gli chiese.
“Sì, dammela.”
Prese la lanterna, la spense e la posò nella tenda, porgendole in cambio una piccola torcia. Si mise la balestra in spalla. Dubitava che l’avrebbe usata, ma se la portò lo stesso, giusto per sentirsi al sicuro.
“...Rick ha detto qualcosa?”, disse Beth non appena s’incamminarono verso la fattoria. “Intendo, su quello che ci ha visto fare nel fienile.”
La luce della torcia non illuminava abbastanza il suo viso, impedendogli di constatare se le sue guance fossero diventate di quel colore che cominciava a piacergli sempre di più.
“Per essere uno sbirro, sembra abbastanza bravo a farsi i cazzi suoi.” Si strinse nelle spalle. “Non ha fatto finta di non aver visto nulla, ma non ha fatto domande.”
A un certo punto, Beth inciampò nel buio facendo cadere la torcia, e gli afferrò la mano per tenersi in equilibrio. Istintivamente la sorresse avvolgendo un braccio intorno ai suoi fianchi.
Era abbastanza chiaro che fosse stato un incidente, ma poi, con una piccola risata, gli disse: “Possiamo fare finta che l’abbia fatto apposta?”
Sembrava imbarazzata e Daryl lasciò che l’oscurità della notte nascondesse il suo ghigno compiaciuto. La lasciò andare e si chinò a recuperare la torcia, per poi passargliela semplicemente ruotando il polso.
“Se volevi prendermi la mano, bastava dirlo.”
Lei non ci pensò due volte ad agguantare il suo avambraccio, accarezzandolo col pollice.
“Ok, allora voglio prenderti la mano.”
Fece scivolare il palmo sulla sua mano, per poi stringergliela e rivolgergli un sorriso giocoso prima di voltarsi di nuovo verso la boscaglia e di alzare nuovamente la torcia, illuminando il loro percorso.
Ora era lui a perdere l’equilibrio. Tra l’alcool che gli nuotava nello stomaco e il calore della sua mano esile stretta alla sua, non riusciva più a rigare dritto. Se era ancora vigile e, soprattutto, in posizione verticale, lo doveva solo alla sua buona volontà e alle sue vecchie abitudini di caccia.
In un primo momento non riuscì a capire perché quel semplice contatto lo sciogliesse quasi quanto il suo corpo disteso a metà sul suo, strofinando le loro pelli. Eppure le stava solo tenendo la mano. La sua piccola e perfetta mano tremante, tutta fatta di piccole ossa ma abbastanza forte da fargli sentire il più piccolo pizzichìo di dolore quando stringeva la presa. Non l’aveva mai fatto, e quel pensiero lo scosse più del dovuto. Aveva già toccato, naturalmente, altre mani, ma solo attraverso rigorose strette di mano, o magari per aiutare qualcuno a stare in piedi, per esempio. Lei era la prima persona che aveva voluto farlo senza chiedere niente, semplicemente per stargli vicina e per sentirlo accanto a sé mentre cercavano insieme il sentiero giusto per uscire dal bosco.
Quando raggiunsero la strada e l’auto parcheggiata, Beth vi si poggiò sopra e gli restituì la torcia.
“Continuo a pensare che non esista nessuna ragione valida per cui tu debba vivere nei boschi”, gli disse con un sorriso leggermente malizioso, “Ma mi sono resa conto che vivere in un posto più appartato può avere i suoi vantaggi.”
“Non era mia intenzione.”
Daryl si guardò i piedi. Aveva scelto quel posto quando aveva deciso di doverle stare lontano, il pensiero che invece potesse facilitare i loro incontri non l’aveva neanche mai sfiorato. Non aveva considerato la possibilità che lei avesse potuto volerlo intorno.
Nel frattempo, Beth tornò sui suoi tacchi e mise gli stivali in macchina.
“Ad ogni modo, potrò vederti domani?”
“Non posso evitarlo”, la bocca si curvò in un piccolo ghigno.
Lei ricambiò con un sorriso che gli fece scoppiare il cuore in petto. “Intendevo dire che dovremmo organizzarci”, chiarì poi, sbattendo lentamente le ciglia.
Lo stavano facendo sul serio e, per di più, in quel momento la cosa non gli pesava minimamente. Per il modo in cui lo guardava, avrebbe accettato qualsiasi cosa; sarebbe stato persino felice di attraversare il dannato inferno se solo lei glielo avesse chiesto.
“Appena ho finito con la recinzione, verrò a cercarti.”

   
 
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