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Autore: Gwen Chan    24/07/2017    1 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Gli ultimi chilometri sono sempre i più duri

“Tieni, bevi questo.”
Mentre sentiva queste parole nuovi conati scossero tutto il corpo di Yuri, costringendolo di nuovo a piegarsi su se stesso. Un sapore amaro gli invase la bocca. Gli ultimi rimasugli del pranzo ancora rimasti nello stomaco finirono per terra. Si asciugò le labbra col dorso della mano. Strisce di acido giallastro penzolarono dal mento. Arricciò il naso per il forte odore.
“Bevi!” Ripeté Plisetsky, agitandogli la borraccia sotto il naso. Yuri la prese con mani tremanti, sorbendone un sorso incerto. L’acqua aveva a malapena raggiunto la sua gola che una nuova ondata di nausea lo costrinse a rigettarla. Yuri tossì, sputacchiando tutt’attorno un miscuglio di acido, acqua e saliva. Sotto lo sguardo di disapprovazione di Plisetsky, afferrò la borraccia e cercò di bere un altro sorso, più lentamente questa volta. Usò l’acqua per sciacquarsi la bocca, facendola passare da guancia a guancia prima di deglutire.
Yuri ripulì le mani sul davanti dei pantaloni. La gola bruciava. Sul suo viso coperto di polvere, le lacrime avevano lasciato due pallide strisce. Crosticine si stavano formando agli angoli degli occhi. Sbuffò. Si soffiò poi il naso sulla manica, ormai così sporca che un po’ di muco non avrebbe fatto alcuna differenza.
Phichit se n’era andato. Era l’unica cosa su cui Yuri potesse concentrarsi. Phichit se n’era andato, e Yuri non poteva fare nulla per cambiare il suo destino. Poteva ancora sentire la risata del suo amico dalla sera prima, l’ appropriata risposta per una storiella stupida che Yuri aveva finito col rovinare; ma Phichit aveva riso ugualmente. La risata di Phichit era stata una panacea. I suoi scherzi erano la corda che Yuri aveva usato per sfuggire al pozzo di depressione in cui era caduto dopo essersi addossato la colpa della morte di tutta la sua squadra.
E ora la corda si era spezzata.
Si lasciò cadere sulle ginocchia. Phichit se n’era andato. L’unica persona che avesse mai creduto in lui era sparita, quindi non c’era più nulla da fare. Era sempre stato un peso. La sua famiglia era stata così veloce a mandarlo via quando le cose avevano cominciato ad andar male, come si fa di solito con un peso. Dopotutto nessuno lo considerava utile, né i suoi compagni, né i russi.
Soprattutto Victor Nikiforov. Yuri aveva visto come lo guardava, la tristezza nei suoi occhi. Aveva visto la disapprovazione nelle sue iridi azzurro ghiaccio; la delusione nascosta sotto la gentilezza.
Plisetsky lo afferrò prima che potesse toccare il suolo.
“Non adesso!” Sibilò e cominciò a camminare, trascinandolo. Il suo passo era veloce; le sue maniere rudi. Apparentemente, Plisetsky non si preoccupava del rischio di dislocargli una spalla, a patto che continuasse a muoversi.
“Ha ragione” rispose Michele, passando dall’altra parte. “Se ti fermi, è la fine.”
“Ma il corpo!” protestò Yuri, lottando contro i due, inutilmente. Nonostante il suo corpo snello, Yuri Plisetsky era un uomo forte. Tirò Yuri mentre Michele lo spingeva, un palmo aperto tra le scapole.
“Per favore risparmiaci lo sforzo di metterti KO e portarti via di peso!” minacciò Plisetsky. Poco dopo aggiunse: “Se ne sta occupando Victor.”
Poi guardò da sopra la spalla per assicurarsi che fosse tutto a posto. Yuri cercò di imitare il gesto, ma Michele glielo impedì, schiaffeggiandogli la nuca.
“Non guardare!” sussurrò, la mano ancora premendo sulla schiena di Yuri.
Ho già visto, voglio guardare, lasciatemi andare..
Lasciatemi qui.
Questo era quello che Yuri avrebbe voluto urlare.
“È inutile” mormorò semplicemente sottovoce. “Potete lasciarti andare” continuò, sentendo le dita di Yuri Plisetsky ancora agganciate attorno al suo polso, come un insegnante avrebbe fatto con un alunno indisciplinato. La sua richiesta rimase inascoltata. Plisetsky lo costrinse ad avanzare finché non ebbero messo un po’ di miglia fra loro e il luogo in cui il tutto si era consumato.
Mentre camminava in una nera voragine di disperazione e intorpidimento, Yuri registrò appena Behrooz che diceva che meno di un giorno di marcia li separava dal villaggio. Le informazioni entrarono da un orecchio e uscirono dall’altro. Ha detto qualcosa?
Quella notte Yuri afferrò le sue razioni e si sedette da solo, lottando contro l’immagine del corpo di Phichit che gli artigliava la mente e gli torceva lo stomaco. Mangiò in minuscole morsi, masticando il cibo secco e odiandosi perché Phichit era morto mentre lui continuava a sentirsi assetato e affamato. Come se nulla fosse accaduto.
Si addormentò per esaurimento. Appena chiuse le palpebre, gli occhi del suo amico cominciarono a perseguitare i suoi sogni, costringendolo a svegliarsi in un bagno di sudore gelato. La notte stellata era bellissima come sempre, la luna lontana e beffarda. Il coniglio sulla luna stava lavorando come aveva sempre fatto da quando la luna era apparsa in cielo.
La mattina dopo trovò Yuri stranamente allegro.
“Buongiorno, bella giornata, nevvero? Se ci muoviamo possiamo coprire dieci miglia prima delle nove” svegliò gli altri, scuotendo leggermente i loro sacchi a pelo per costringerli ad abbandonare il loro sonno.
“Andiamo, stiamo perdendo tempo!” insistette, ripiegando il suo sacco a pelo a tempo record. L’orizzonte non si era ancora tinto delle tonalità rosa e arancione dell’alba. Nella parte superiore della volta celeste persisteva il vellutato blu della notte. Venere brillava in lontananza, mentre la luna sbiadiva a poco a poco.
Dopotutto Phichit sarebbe stato triste se avesse saputo che Yuri aveva pianto. Era come aveva detto Michele: non ci si può fermare.

“Pensi di poter prendermi in giro?”
Mentre sedeva all’ombra - il sole di mezzogiorno li aveva costretti a fermarsi per un po’, specialmente dopo che JJ aveva mostrato i primi segni di un colpo di calore - Yuri sollevò lo sguardo dalla borraccia che stava esaminato in quel momento. Plisetsky stava lì con le mani sui fianchi, l’immagine quasi buffa. Con quella posa sembrava più una casalinga arrabbiata che un soldato.
“Scusa?” rispose Yuri, con voce piatta. Poté giurare di aver visto una vena gonfiarsi e pulsare sulla tempia del suo omonimo. Yuri Plisetsky strinse i pugni. Poi decise di aprire le braccia per sottolineare la propria esasperazione.
“Questo!” pestò i piedi per un massimo effetto drammatico. “Sei stato così disgustosamente pieno di energia da questa mattina. Mi dà il voltastomaco. La gente non reagisce così alla morte di un compagno - “
“Phichit non era un compagno, era un amico” lo corresse Yuri senza esitazione. C’era una profonda freddezza nel suo tono a segnalare quanto gli fosse cara la differenza e che non avrebbe permesso un secondo errore.
Come al solito, Plisetsky non se ne curò. Non lo aveva mai fatto.
“Come vuoi, la gente normale non reagisce così” continuò Plisetsky. Quasi fosse divertito dal suo disagio, le labbra di Yuri si curvarono verso l’alto in un sorriso vuoto che non raggiunse affatto gli occhi.
“Preferiresti che mi mettessi a piangere, che facessi una scenata e fossi un peso?” suggerì Yuri, chiudendo la borraccia senza nemmeno guardarla.
“Non è quello che sto dicendo”.
“Sei sicuro?” Insistette Yuri, rimettendosi in piedi. Era più basso del russo, ma con la schiena dritta e la testa alta poteva apparire più imponente di quanto non fosse. Plisetsky fece un passo indietro.
“Non è questo che stai aspettando per tutto il giorno? Vedermi andare in pezzi? Dimostrare i tuoi pregiudizi? Quale momento migliore di adesso? L’unica persona che credeva in me non c’è più. È solo questione di ore prima che io vada in a pezzi. Qual è la posta, dimmi ? Quanto avete scommesso per questo vecchio soldato? “
Yuri era sul punto di gridare, un fiotto di parole sgorgava dalla bocca con tutto il suo veleno fatto di odio e recriminazioni. “E tu più di tutti. Scommetto che lo hai ucciso per guardarmi cadere” sputò Yuri, ogni parola densa d’accusa. Oh, il sorriso condiscendente di Plisetsky era impresso a fuoco nella sua memoria.
“Di cosa cazzo stai parlando?”
“Gli hai sparato!” esclamò Yuri, alzando la voce. Al diavolo lo stare attenti.
“È stato un atto di pietà!” Sibilò Plisetsky.
“Sarebbe potuto sopravvivere!”
Yuri stava gridando adesso.
Lo schiaffo arrivò dal nulla. Plisetsky lo colpì forte sulla guancia, tanto che la testa di Yuri ruotò di lato mentre cadeva a terra. Sputò un dente. Sangue e saliva macchiarono il colletto della sua divisa.
“Ho tutte le intenzioni di prenderti a pugni finché non avrai ricominciato a ragionare” lo avvertì Plisetsky, i pugni già pronti. “E prenderò a pugni anche voi” minacciò Leroy e Crispino che si erano avvicinati, attratti dallo scontro. C’erano stati quattro americani. Ora il numero era stato ridotto a tre, due dei quali non erano nelle migliori condizioni.
Yuri rimase seduto per un momento a terra, esaminando il dente, il canino sinistro.
“Allora?” incalzò Plisetsky. Yuri non disse una parola. Si limitò a raggomitolarsi portando le ginocchia al petto. Scattò in avanti per restituire il pugno.
Yuri non amava vantarsi, ma poteva affermar con orgoglio e, anche se per lo più a se stesso, di avere un talento nel combattimento corpo a corpo.
Il fatto era che l’essere quello che gli altri bambini avevano preso di mira lo aveva costretto a imparare a difendersi se non voleva che gli rubassero il pranzo ogni giorno. Era stata la danza, per cui gli altri ragazzi lo avevano preso in giro, a dargli forza e agilità.
Si abbassò mentre Plisetsky caricava con un altro pugno diretto alla sua guancia.
Sentì il richiamo preoccupato del Capitano Popovich che li esortava a fermarsi, insieme a quello di Victor di lasciarli fare. “Sarà un’eccezione speciale, Jora.”
Yuri pagò caro il momento della distrazione. Plisetsky, infatti, riuscì ad afferrarlo e farlo cadere in un groviglio di braccia e gambe. Yuri sentì il sapore del sangue. Si sentiva bene questa volta. Fece cozzare la testa contro il mento di Plisetsky. Il cocuzzolo sbatté contro il duro osso. Il russo gemette. Mentre sollevava le mani verso la ferita, Yuri ne approfittò per liberarsi e rimettersi in piedi. L’altro lo imitò.
Si separarono ancora una volta. Avevano entrambi il fiatone. Si aggrapparono l’uno all’altro, con movimenti sempre meno precisi. La stanchezza cominciava a mostrarsi. Ogni pugno era un po’ meno carico di rabbia. Ogni calcio era un po’ meno pieno d’odio. Presto le loro energie vennero meno, rendendo ogni movimento più debole del precedente.
Alla fine giacquero entrambi sulla nuda terra, con i volti coperti di sudore, polvere e sangue. Si guardarono. Due sorrisi crebbero sui loro volti.
“Grazie.”
Yuri fu il primo a rompere il silenzio. Non si sentiva per niente bene, ma il combattere con Plisetsky in qualche modo lo aveva aiutato a sbarazzarsi della falsa allegria che lo aveva tormentato nelle ultime ore. Soprattutto aveva tenuto lontana morte di Phichit e cosa significava per un po’. Si alzò e offrì una mano al russo che alla fine accettò.
“Spero che voi siate soddisfatti “ mormorò Michele, gli occhi pieni di disapprovazione. Sollevò un dito per indicare il sole, già calante all’orizzonte. L’orologio segnalava che le 1300 erano appena passato. “La vostra piccola lotta ci ha fatto perdere tempo prezioso” continuò Michele. La sua ramanzina fu tuttavia troncata sul nascere dall’arrivo di Victor.
“Non è vero, Sergente Crispino. Sono contento che questi due abbiano finalmente chiarito le cose. Se solo le cose potessero essere sempre così semplici” si limitò a osservare il Generale. Fissò Yuri mentre pronunciava l’ultima parte della frase. Gli occhi ebbero una scintilla di consapevolezza. Yuri distolse lo sguardo e le mani si strinsero attorno alle cinghie della zaino. Aveva appena notato che, insieme con il suo, Victor stava portando anche il carico di Phichit.
Per non sprecare il suo sacrificio
“Non sei l’unico che ha sofferto” gli disse Plisetsky non appena Victor si fu rimesso in marcia, pulendosi il naso. “Se non fosse stato per Lilia ...” si interruppe. La sua solita discrezione, insieme all’abitudine di non mostrare alcuna debolezza, gli impediva di aprirsi. Era comunque troppo tardi: la curiosità di Yuri era già stata destata.
“Lilia?”
“Sì, ex moglie di Yakov. Lilia Baranoskaya “.
Yuri si bloccò, metaforicamente almeno. In verità continuò a camminare, ma la sua bocca si spalancò di stupore. Scosse la testa per schiarirla. “Lilia Baranoskaya? L’ex Prima Ballerina del Bolshoi? Quella Lilia Baranoskaya? “
Ora era stato il turno di Plisetsky di essere sorpreso. Si voltò per guardare Yuri. L’irritazione nella sua voce non fu sufficiente per nascondere la sua sincera sorpresa. “Naturalmente, chi altri?” rispose. “Come la conosci?” Chiese subito dopo. Yuri sbuffò, il fantasma di una risata appena udibile.
“Stai scherzando, vero? Tutti nel mondo della danza la conoscono” affermò come se fosse un dato di fatto.
“Tu balli?”
Plisetsky sembrava più confuso che mai; o incuriosito. Era difficile capirlo. Yuri non poté fare a meno di sorridere.
“Sì, balletto. Ma la gente mi prendeva in giro o per questo” risposte. Fu facile condividere quelle informazioni. Quel sottile filo in comune tra lui e il russo fu ben accolta, nonostante fosse stata scoperta nel modo più strano e nel momento peggiore
“Che stronzate!” esclamò Plisetsky.
“E tu?” chiese Yuri con curiosità.
“Un po’, ma non faceva per me”.
Si ritirò ancora una volta nel suo uscio, ritornando in un territorio sicuro e neutro non appena Yuri Katsuki sfiorò un passato a cui pochi avevano accesso. Otabek aveva dovuto aspettare anni prima che Plisetsky si sentisse abbastanza confortevole da aprirsi con lui, dicendogli come la danza fosse stata una benedizione e una maledizione. Apprezzò comunque il fatto che Yuri Katsuki rispettasse il suo silenzio e non tentasse di violarlo prima che egli si sentisse abbastanza a suo agio da farlo.
“Anche Chulanont ti prendeva in giro?” riuscì a chiedere Yuri Plisetsky. Yuri rise un po’, una risata triste e affettuosa, il tipo riservato ad una cara ma vecchia memoria.
“Mai.”
Tutto il contrario. Phichit era stato profondamente affascinato dal corpo flessibile di Yuri e dai movimenti graziosi, felice di trovare una persona capace di comprendere la sua profonda passione per la danza e la musica. “Mia nonna era una ballerina, si muoveva con il vento” ricordava Phichit, prima di immergersi in memorie d’infanzia.
Era nato in Tailandia, in una grande famiglia che viveva in una casa colorata nei sobborghi di Bangkok. Poi suo padre, un famoso panettiere nella zona aveva avuto l’idea di aprire una panetteria negli Stati Uniti e, nonostante tutti i dubbi del caso, tutta la famiglia aveva partecipato a una simile avventura. Purtroppo, l’America si era rivelata molto diversa dalla Terra Promessa che il padre di Phichit si era immaginato. Alla fine, nonostante fosse diventata famosa nel quartiere tailandese, la pasticceria non aveva mai avuto un grande successo. Con una famiglia con quattro figli e due figlie a cui badare, risparmiare denaro divenne un problema. La differenza tra Yuri e Phichit, tuttavia, era che la famiglia di quest’ultima non aveva mai perso la speranza o l’ottimismo ed era rimasta unita quanto più possibile.
Perso nei suoi ricordi, Yuri era rimasto in silenzio. Plisetsky aspettò qualche minuto, ma quando fu chiaro che il giapponese non avrebbe parlato presto, lo lasciò da solo. Era chiaro che una parte della sua mente era fuggita in una terra lontana, un luogo felice e senza dolore. Un luogo da dove non aveva intenzione di tornare se non molto più tardi, come se questo potesse aiutarlo a proseguire.

“Questo non è un posto per lui”.
Questo era ciò che Yuri aveva pensato di Phichit Chulanont la prima volta che si erano incontrati al campo di addestramento a Fort Knox. Senza dubbio il tailandese aveva probabilmente pensato la stessa cosa di lui.
“Chulanont. Phichit Chulanont “ si era presentato l’uomo con una stretta di mano ferra ma amichevole.
A essere onesto Yuri non ricordava il loro primo incontro molto bene, i dettagli persi nel passato e nel turbine che era stato Phichit. Prima di allora, Yuri non si era mai immaginato che una persona potesse parlare così tanto. Era certo, tuttavia, che avevano iniziato a chiacchierare durante il rancio. Phichit era un concentrato di ottimismo.
“Dovevo aiutare la mia famiglia” fu la sua risposta quando Yuri gli chiese perché si fosse arruolato. Quella era stato l’inizio di un’amicizia destinata a durare tutta la vita. La personalità calda di Phichit aveva subito conquistato Yuri, conquistando la sua fiducia e rompendo il guscio della sua timidezza. Aveva sempre una battuta pronta per alleggerire il suo morale dopo una giornata di addestramento particolarmente difficile e, apparentemente, era immune a un sentimento chiamato “odio”.
Phichit aveva un talento naturale nel fare amicizia. In breve avevano acquisito due nuovi amici: Leo de la Iglesia, un mezzo messicano con una passione per la musica e Guang Hong Ji, un immigrante cinese più pericoloso di quanto il suo aspetto lasciasse credere.
“E tu? Come è finito un giapponese del Kyushu nell’esercito americano?” domandò Phichit una sera, quando divenne accettabile fare una domanda simile. Yuri gli raccontò di come la sua famiglia fosse stata costretta a mandarlo via di casa.
“Immagino che si possa dire che mi sono arruolato anch’io per aiutare la mia famiglia” concluse, scrollando le spalle. Stavano lucidando un mucchio di stivali. Chiacchierare li aiutava a sopportare la corvé, soprattutto dopo una giornata di addestramento. Probabilmente si era trattato di una punizione per qualcosa che Yuri non riusciva più ricordare. Tuttavia, ricordava bene l’odore di lucido delle scarpe nelle narici e di come Phichit fosse passato a parlare della sua infanzia al suo film tailandese preferito a quanto amasse i computer.
Yuri non aveva citato Victor Nikiforov al momento, non ancora. Tuttavia, come Phichit avrebbe scoperto presto, essere suo amico significava avere una conoscenza indiretta del Generale russo. Se il nome avesse acceso una lampadina nella testa di Phichit, un vago ricordo delle lezioni di strategia e di analisi del nemico, ora era il segnale che gli occhi di Yuri avrebbero iniziato a brillare e la bocca per parlare senza sosta.
Phichit l’aveva sempre ascoltato.
L’aveva ascoltato il giorno prima, non più di tre ore prima della sua morte.
“La scorsa notte Victor mi ha parlato” esordì Yuri, sapendo che con Phichit non c’era alcuna necessità di introdurre l’argomento. Ciò aveva sempre reso le cose molto più facili. Non prestò molto attenzione al fatto che avesse chiamato il Generale solo col nome di battesimo. Phichit annuì. La lingua che schioccò contro il suo palato era segno che era tutto orecchie.
“Be’, abbiamo già parlato, ma questa volta è stato diverso” specificò Yuri.
“Ha parlato di percorsi scelti dal Fato,” rammentò Yuri, la voce carica di dubbio. Quanto successo la sera prima era per lui tanto assurdo da dubitare che fosse realmente accaduto; come la mano di Victor era stata così vicina al suo viso, poteva quasi sentire il suo calore e il modo in cui il corpo di Victor si era piegato con l’intenzione di appoggiarsi verso di lui, il suo profilo ben delineato dalla luce delle stelle.
Phichit non aveva emesso altro suono se non uno sporadico “mmm” per indicare che stava ascoltando attivamente. Non dovette aspettare molto prima che Yuri riprendesse. La voce aveva una familiare nota di panico.
“Cosa posso fare, Phichit? è qui. è così vicino, e ogni volta che mi guarda sento il mio cuore scoppiare. Lo amo, e non posso nemmeno dirglielo. “
Poiché il suo amico aveva finalmente ammesso ciò che Phichit aveva sospettato sin dal giorno in cui Yuri aveva condiviso il segreto di un dossier, compilato con la passione di una persona che non aveva altro a cui aggrapparsi, Phichit passò dalla modalità commilitone alla modalità “migliore-amico”.
“Diglielo!”
Yuri salì sul posto. La reazione ha provocato un vortice di occhi dardi e mani su fucili. Michele, che camminava proprio dietro Yuri, si fermò bruscamente e si infilò nella schiena, maledicendo.
“Cosa c’è?” Si avvicinò Victor dalla fine della colonna.
“Sì, spero che sia qualcosa di importante”, ribatté Plisetsky dalla parte anteriore. Yuri sentì il volto che bruciava in imbarazzo.
“Niente, falso allarme”, assicurò Phichit, con gli occhi accesi di complicità. Ci fu un’altra pausa carica di dubbio, tutti presi a guardare attorno con una nuova ondata di paranoia, ma non c’era nulla diverso dall’ordinario.


Con l’attenzione non più su di loro, Phichit non perse tempo a tornare alla discussione appena interrotta. Yuri sospirò, comprendendo l’antifona. “Non posso dirglielo. è Victor Nikiforov. è una leggenda, e io sono solo io “ disse, le ultime due parole cariche di tutto il vuoto e il senso di inutilità che sentiva dentro di sé


Probabilmente non gli piacciono nemmeno gli uomini; e se sì, non gli uomini come me.

“Sei più di quello che altre persone possano mai sperare di essere” ribatté Phichit.

“E se non mi volesse? Non può desiderare uno come me. Tutto questo è stupido. Lui è tutto e io non sono niente ... “

Yuri non aveva neanche finito l’ultima frase che Phichit lo aveva tirato a lato della colonna, dicendo a gesti agli altri di non curarsi di loro. Essendo già stati testimoni dell’ansia di Yuri, tutti pensarono semplicemente che si trattasse di un caso simili e li ignorarono, limitandosi a rallentare un po’ il passo. Phichit conficcò le dita sulle spalle di Yuri, fissandolo negli occhi con uno sguardo riservato quando voleva essere molto, molto serio.

“Yuri Katsuki, non dire mai che non vali niente. Sono il tuo migliore amico, e come tuo migliore amico sono autorizzato a prenderti a ceffoni finché la pianti di dire stupidaggini!”

“Ma … Victor!”
“Ascolta. Victor Nikiforov potrà anche essere un grande Generale e tante belle cose, ma se non vede quanto sei bravo, allora sarò felice prenderlo a calci in culo. Gli farò rimpiangere il giorno in cui ti ha ferito “ minacciò Phichit, lanciando un’occhiata significativa al russo.

“Se non ti vuole, non ti merita. Non dimenticarlo mai. Quindi,” riprese, col viso di nuovo ammorbidito in un sorriso di complicità, “ quando pensi di dirglielo? “

“Quando tutto questo sarà finito” Yuri si interruppe, incerto della propria decisione. Phichit non parve essere d’accordo con lui. Secondo la sua opinione, infatti, la fine della missione sarebbe già stati troppo tardi.

“Diglielo domani, non vedo l’ora!” Insistette. Aveva insistito tanto che alla fine Yuri era stato costretto a fare una promessa. Tre ore più tardi, Phichit Chulanont aveva incontrato il suo destino e Yuri abbandonato ogni intenzione di potere confessare i propri sentimenti a Victor Nikiforov.

Soprattutto, Phichit era stato lì per ascoltarlo e sostenerlo quando la vergogna di quella missione fallita era caduta sulle spalle, come una macchia che non poteva essere lavata via.

Yuri lo ricordava come se fosse ieri: la tarda primavera del 1986, in Bolivia, nella regione del Pando.

La missione sarebbe dovuto essere semplice, una rapida incursione in un villaggio invischiato in un traffico di droga, nella cornice di un’operazione più grande che sarebbe passata alla storia come Operation Blast Furnace.


L’aria era talmente umida da dare l’impressione di stare respirando acqua. Le zanzare si posavano senza sosta su ogni centimetro di pelle esposta, pizzicando senza pietà. Presto il solletico causato dei loro minuscoli corpi divenne un fastidio insopportabile. Una goccia di sudore o l’essere sfiorati da una foglia era sufficiente perché gli uomini iniziassero a schiaffeggiare e grattare il punto appena toccato. Si davano manate sulle braccia, sulle gambe e in faccia. Vi era il suono continuo di pelle sudata contro la pelle sudata, i palmi che calavano con un “thumo” e un “thud”.

Finché Yuri non aveva ordinato ai suoi uomini di smetterla, intimando loro di mantenere la presa sui loro fucili. I suoi uomini si erano lamentati. Egli stesso non poteva negare che resistere all’impulso di grattare le punture era in realtà una tortura. Bruciavano e pizzicavano ed erano ovunque.
Di notte, le unghie di Yuri scavavano con gioia nella carne viva. Al mattino, erano sporche di sangue. Ma l’apparente sollievo non durava mai a lungo.
“Ehi, non dovresti esserci abituato?” esclamò uno dei suoi uomini un giorno maledettamente simile a tutti gli altri, tra gli sbuffi e le imprecazioni contro le dannate zanzare e gli scarafaggi e qualunque creatura vomitata dall’inferno si nascondesse tra le foglie e sotto le radici. Non era la prima volta che i suoi uomini facevano commenti sulle sue origini, o anche la giovane età. Il fatto che Yuri dimostrasse dieci anni in meno non aiutava affatto. Di norma, avrebbe lasciato correre, ma il fatto era che era esausto e sul punto di esplodere. Si fermò e ruotò sui talloni, con un inquietante sorriso sulle labbra.
“Si. Fatemi chiarire due cose. So che il mio inglese potrebbe non essere eccelso, quindi parlerò lentamente così da farvi capire. Uno: la mia città natale è sulla costa. Mare. Capito? Sabbia e mare. Non giungla. Non sono di Iwo Jima. Non sono di Okinawa. La mia città natale si chiama Hasetsu. Sul mare? Capito la differenza? “
Gli uomini annuirono. I volti si torsero lentamente in una smorfia di disagio. Yuri continuò a sorridere.
“Punto secondo, sono quasi nove anni che non vedo casa mia, capito?” proseguì Yuri, ora con la bocca distesa in un sorriso a trentadue denti.
Gli uomini annuirono di nuovo, spostando il peso da un piede all’altro e lanciando occhiate qua e là. Yuri fece un passo in avanti, l’espressione fattasi improvvisamente seria.
“Ora” iniziò il suo avvertimento, forzando volutamente l’accento su ogni singola sillaba, “se sento ancora uno di voi sparare cazzate su di me e sulle mie origini, se qualcuno di voi osa ancora mettere in discussione la mia autorità in qualche modo, dovranno ridurre questa fottuta giungla in cenere per trovarvi. Sono stato chiaro?”
Si era sentito strano, ma non in modo cattivo
Non c’erano state ulteriori battute. In retrospettiva, desiderò di non essere stato così duro. La sua minaccia aleggiava ancora nell’aria quando i primi proiettili iniziarono a fischiare sopra le loro teste. Un uomo sulla destra di Yuri gridò e cadde stecchito, una macchia di sangue che si espandeva sul petto.

Il sangue schizzò sul volto di Yuri. Un altro uomo urlò, piegandosi per afferrare la gamba. La sua voce era carica di dolore e di disperazione.

Il cervello di Yuri andò in cortocircuito.

Di colpo non seppe più nulla, oltre alla certezza di essere finito all’inferno, un bruciante Inferno caldo, umido e verde. Anni di addestramento e istruzioni scomparvero con le crescenti grida degli uomini che vengono falcidiati da un nemico nascosto. Oh Dio, qualcuno stava sparando loro contro. Qualcuno stava sparando loro contro. Oddio, il ragazzo alla sua destra era stato ucciso? Quanti anni poteva avere? Venti? Oh Dio, era morto e Yuri non aveva avuto problemi a minacciarlo solo pochi momenti fa.

La testa cominciò a girare, mentre i proiettili arrivavano da ogni parte. Qualcuno gli afferrò il braccio e tirò giù. Yuri registrò appena il fatto. Le orecchie si riempirono del fischio dei proiettili, di grida di dolore, di maledizioni e di parole in una lingua che non capiva.

“Caporale, cosa facciamo?”

Certo, dipendevano da lui. Doveva guidarli. Ne era responsabile. Com’era? C’era uno schema di manovra, ne era sicuro, ma non si ricordava di niente. L’aria era così calda e umida, e tutto era così rumoroso, così, così rumoroso. Oh dio, dio, dio, da dove stavano sparando? Non lo sapeva. Era impossibile capire: quella fottuta giungla sembrava tutta uguale. “Cosa facciamo?”

Di nuovo quella domanda. Non lo sapeva. Non lo sapeva. Sapeva solo che era difficile respirare. Gli faceva male la gola. Yuri cercò di inalare, ma fu inutile. Le urla erano così rumorose. Non poteva respirare. Oh Dio, non poteva stare accade non a lui. Non poteva stare succedendo ora. Credeva di aver imparato a controllare la propria ansia. Ne era stato sicuro. Aveva studiato con cura tutte quelle tecniche di gestione dello stress, combattendo ogni giorno per tenerla sotto controllo. Questo era il suo primo comando, la sua prima missione da solo con una squadra sotto la sua responsabilità. Aveva promesso che sarebbe andato tutto bene.

E ora non poteva respirare. Perché era così difficile respirare? Perché era tutto così sfocato? Dove erano i suoi occhiali? Oh Dio, non i suoi occhiali! Si toccò il viso in preda al panico. No, erano ancora lì; Ma la sua vista non migliorò affatto
Tutto continuò a vorticare attorno a lui.


Per Yuri quello che successe dopo era il lontano ricordo di un sogno appartenente a qualcun altro. Uno dei suoi uomini lo aveva tirato tra alcuni cespugli e là aveva svuotato il caricatore. Poi aveva lanciato un SOS via radio. Erano stati gli unici due sopravvissuti. All’epoca Yuri era stato troppo scioccato per comprendere appieno ciò che era successo, figuriamoci per ricondurli al sicuro. Come erano riusciti a farlo era una risposta che apparteneva a una terra che Yuri non aveva potuto raggiungere per lungo tempo. Tutto quello che aveva voluto fare allora era stato raggomitolarsi a terra e dormire per sempre.

Sono tutti morti. Tutti morti.


Aveva accettato la sua degradazione senza protestare. I suoi superiori erano stati più clementi di quanto meritasse. Cialdini, soprattutto, intercedette in sua difesa. “Succede. Non è colpa tua” cercò di rassicurarlo. Phichit gli disse lo stesso. Yuri, però, sapeva come erano andate le cose. Era colpa sua. Se non fosse stato per la sua ansia, i suoi uomini sarebbero stati ancora vivi.

Victor Nikiforov non avrebbe mai permesso che succedesse qualcosa di simile.
***

Il giorno in cui finalmente arrivarono al villaggio, a circa due chilometri di distanza, si fermarono all’inizio di un sentiero che portava al complesso delle case. Yuri stava lottando con se stesso per continuare a muoversi. Aveva a malapena chiuso occhi le due notti precedenti, troppo stanco e con una mente che continuava a riproporgli l’immagine della morte di Phichit, non importava quanto cercasse di spostare la sua attenzione su qualcos’altro. Gli altri non erano in forma migliore, i volti inebetiti in una smorfia generale di “Ora, che si fa?”

Le speranze di trovare qualcuno dalla squadra del Sergente De La Iglesia erano diventate così sottili che quasi preferivano di indulgere all’ignoranza che non avevano la verità sbattuta in faccia, qualunque fosse stata. Non aiutava affatto che le due persone più ottimiste del gruppo se ne erano andate.

“Allora, adesso cosa?” Plisetsky lanciò un’occhiata, pestando un piede, impaziente.

Dal nulla una ragazzina corse davanti ai loro occhi con una cesta di vimini che rimbalzava contro la schiena ossuta. Un bambino, che non poteva avere più di cinque anni, seguiva a breve distanza. Era scalzo e portava delle fascine tra le braccia magri. Mentre si precipitava in avanti sui suoi piedini incerti, inciampò su una radice esposta, cadde in ginocchio e lasciò che la legna raccolta rotolasse via.

Con le ginocchia sbuccia, cominciò a frignare. La bambina, tuttavia, non sembrava essere in vena di consolarlo. Invece gli diede uno scappellotto dietro l’orecchio e gli ordinò di raccogliere la legna. Il bambino - suo fratello senza dubbio - pianse ancora forte. La cosa gli fece ottenere un altro ceffone sul medesimo orecchio. Tirando su col naso e borbottando ciò che tutti i bambini del mondo borbottano quando i fratelli più grandi fanno i prepotenti, il bambino si rimise in piedi e cercò di raccogliere la legna, senza troppo successo.

Era al suo terzo tentativo, quando sua sorella fu mossa a pietà.

“Da’ qua!” gli disse in pashtun, dividendo il peso. “Ora dammi la tua mano”.

Se il ragazzo protestò o meno la decisione di sua sorella, Yuri non lo seppe. Le parole furono coperte dalle esclamazioni eccitate di Behrooz. Stava indicando dove erano appena stati i bambini, continuavano a ribadire freneticamente la stessa frase.

“Sono loro!”
“Chi loro?” chiese Yuri Plisetsky. Aveva il tono di una persona che aveva raggiunto il suo punto di sopportazione per quel giorno, la settimana e probabilmente tutto il mese.
“I bambini!”

Questa volta fu Yuri Plisetsky ad esplodere. Come spesso accade, lo fece all’improvviso e nel momento sbagliato.

“Basta!” Esclamò, le guance rosse di collera, il sentimento alimentato dalla frustrazione che aveva provato il giorno prima. Behrooz, parlando un poco in inglese e affidandosi un poco a Otabek perché traducesse, cercò di calmarlo, dicendo che aveva riconosciuto due dei bambini che Leo de La Iglesia aveva preso sotto la sua ala. Poteva solo significare che gli altri non erano lontani, dato che il Sergente de La Iglesia non avrebbe mai abbandonato un bambino, ne era sicuro. Plisetsky strinse i pugni.

“Come faccio a sapere che stai dicendo la verità? Piantala con questa farsi. I primi due ragazzini che vediamo e improvvisamente li conosci? “ gridò, l’inglese appesantito dal suo accento

“Yuri, per favore!” Intervenne Otabek.

Gridando che non voleva ascoltare, Plisetsky fece un passo indietro. Un piede non incontrò altro che aria. L’altro scivolò sulla liscia roccia.

Precipitò sotto i loro occhi.

“No!”

Otabek scattò in avanti. Saltò, tendendo il corpo, ma il suo gesto fu inutile. O, arrivò troppo tardi. Qualcun altro aveva già agito.

Behrooz stava disteso sul ventre, la parte superiore del suo corpo sporta all’abisso; Una mano era chiusa attorno al bordo del precipizio, l’altra era stretta intorno al polso di Plisetsky.

“Resisti!”

Ansimò, il viso contorto nello sforzo per sostenere il corpo del Capitano Plisetsky. Plisetsky calciò l’aria, cercando inutilmente di trovare un appiglio sulla parete. Non c’erano sporgenze abbastanza grandi per la punta dei suoi stivali ad adattarsi dentro. Una mano era agganciata a quella di Behrooz. L’altra graffiava alla cieca sulla roccia. Il palmo sudato scivolava contro la parete. Sentì la sua mano diventare scivolosa.

“Cazzo, fa male! Che state facendo? Aiutatemi!” gridò. il tentativo più recente, ma inutile di Behrooz di tirarlo su gli aveva causato una fitta di dolore alla giuntura tra collo e spalla. Del resto Plisetsky era troppo pesante perché un vecchio potesse riportarlo da solo al sicuro.


Come destati dalle proteste di Plisetsky, infine Georgi e Otabek si mossero. Formarono una catena umana. Otabek afferrò Behrooz per la vita e tirò. JJ e Victor vennero presto ad aiutarli. Tirarono di nuovo. Tirarono finché Plisetsky non fu di nuovo al sicuro sul piccolo spiazzo sul bordo del burrone.
Stava ancora maledicendo il mondo a denti stretti, il braccio sinistro che sosteneva il destro. Dopo un po ‘ mosse con attenzione una spalla con un movimento circolare e accolse la scoperta che non era dislocata con un sorriso di sollievo.
Fece un po’ di stretching. Poi notò lo sguardo di Otabek. Si voltò verso Behrooz.
“Ascolta”, cominciò, la testa un po’ china e la voce più incerta del solito. “Grazie di avermi salvato.”
L’uomo rimase in attesa, senza dire una parola. Yuri fece un respiro profondo. Lo sforzo di dover ammettere i suoi errori era ben visibile. Il suo faccia si contorse nel tentativo di reprimere il proprio orgoglio.
“Ero-”
Behrooz alzò il mento come invito a continuare. Yuri conficcò le unghie nei palmi.
“Mi sbagliavo, va bene? Ma avevo i miei motivi e ... “, ma la mano di Otabek sulla spalla lo fece tacere. Comprendendo il messaggio, Yuri Plisetsky respirò nuovamente e si costrinse a scusarsi senza altri se o ma.

“Scusami, ti avevo giudicato male.”

Behrooz non disse nulla per un po’. Rimase lì, con le braccia incrociate e un’espressione soddisfatta sul suo volto. Poi il suo viso rugoso si sciolse in un sorriso. Ebbe un momento di esitazione, prima di allungare una mano perché Yuri Plisetsky gliela stringesse. Il russo lo fece.

“Te l’ho detto, sono un bravo uomo.”
***


Quando Plisetsky si fu calmato dalla paura della caduta, nonostante non lo avrebbe mai ammesso, il gruppo tornò al precedente problema di avvicinarsi al villaggio. Mentre stavano discutendo quante e quale persone fosse meglio inviare in avanscoperta, una voce si alzò sopra le altre. Il tono era di chi pretende di essere ascoltato

“Andrò io .”

Sei teste si alzarono verso JJ. Nei giorni passati la sua presenza era stata utile, ma non essenziale. Yuri doveva ammettere che si era spesso chiesto quali fossero i punti forti del Sotto-tenente Leroy, oltre ad essere in grado di riparare un camion in panne e raccontare orribili barzellette. Si sarebbero pure dimenticati di lui se fosse possibile, con JJ che continuava a ricordare loro quanto fossero fortunati ad averlo vicino. Plisetsky sembrava sempre sul punto di ucciderlo, quando non stava dirigendo il suo odio verso Yuri. Tuttavia, non c’era dubbio che Jean-Jacques Leroy fosse un soldato ben addestrato, proprio come tutti loro, nato e cresciuto in una famiglia con una forte tradizione militare, se Yuri ricordava correttamente.

Inoltre, probabilmente JJ era quello che tra loro stava meglio, almeno psicologicamente. Così, la possibilità di lasciargli il campo libero divenne alquanto allettante.

Dopo un momento di riflessione, Victor convenne: “D’accordo. Ma non posso lasciarti andare da solo.” Si rivolse verso Yuri, quasi meccanicamente. L’uomo provò un’ondata di pensieri e di sentimenti contrastanti, ma li represse con la medesima velocità con cui erano apparsi.

“Hai ragione, Generale. Vado con lui “ si offrì. Contrariamente a JJ e Michele, conosceva Leo e la sua squadra, e possedeva alcune vaghe informazioni sulla loro missione, di cui i sovietici non erano a conoscenza.

Aveva la sensazione che questo avrebbe potuto essere utile.
***

Con le mani sul fucile, Yuri e JJ si diressero verso il sentiero in salita. Il villaggio era ormai chiaramente visibile a occhio nudo. Un gruppo di case color ocra, non diverse da quelle in cui si erano già imbattuti durante il loro viaggio, comparve davanti ai loro occhi.

Due donne stavano camminando nella loro direzione, ognuna con un secchio poggiato contro l’anca. Erano vestiti con modesti abiti, con lunghe tuniche marrone fatte per nascondere qualsiasi forma. Avevano le teste avvolte in hijabs, ma i volti erano esposti. Appena Yuri le notò, afferrò il polso del Sotto-tenente Leroy per trascinarlo dietro alcune rocce. Gli ultimi avvenimenti lo avevano prosciugato di ogni energia. Lo stesso, però, non si poteva dire di JJ. L’uomo si liberò e quasi corse verso le donne.

“No! Aspetta, non possono “

Parlare con gli estranei.

Yuri cercò di avvisarlo.

Troppo tardi. JJ aveva già abbandonato il proprio nascondiglio e ora stava camminando verso le donne, un ampio sorriso che si estendeva sul suo viso. Yuri sbirciò attraverso le dita sperando che il provenire da una famiglia militare avesse insegnato a JJ come affrontare una simile situazione.

“Io e il mio amico” esordì JJ . Yuri represse l’istinto di schiaffarsi una mano in fronte. Col suo nascondiglio ormai rivelato, non ebbe altra scelta se non farsi vedere a sua volta.

Lanciò un’occhiata di supplica a JJ, sperando che il buon senso potesse essere trasmesso attraverso lo sguardo.
“Se potevate aiutarci” continuò JJ, parlando in un rapido inglese con un certo accento canadese. Yuri si domandò se JJ avesse effettivamente considerato la possibilità che le due donne che parlassero la sua stessa lingua.

I suoi dubbi ebbero vita breve. Una delle due donne aveva appena raccolta una pietra e l’aveva gettata contro JJ, strillando. La sua amica la imitò.. Col braccio già sollevato, notò Yuri. Mirò alla testa e lanciò il sasso che colpì Yuri alla tempia, forte. Non fu sufficiente a mandarlo KO, ma lo fece comunque sanguinare. D’istinto Yuri incrociò le braccia sopra testa per proteggersi. Qualunque fosse la ragione - forse avevano offeso le donne senza saperlo, forse le avevano spaventate, forse il villaggio aveva cambiato alleanze nei giorni precedenti - era chiaro che presso quel villaggio loro due non erano i benvenuti

E forse era stato lo stesso per Leo e gli altri. Il primo pensiero, però, che Yuri ebbe fu di afferrare il polso di JJ e suggerire una non-così-velata ritirata.


Mentre Yuri e JJ scappavano dalle due donne, in un modo non tanto virile, dovevano ammetterlo, Victor e Georgi, che si erano separati dal resto del gruppo per esplorare un po’ l’area, si trovavano davanti a un soldato vestito con una polverosa uniforme dell’esercito americano che sembrava avere tutte le intenzioni di sparare a qualsiasi cosa si muovesse.

“Fermi là” gridò lo sconosciuto, il fucile sollevato e puntato verso cuore di Georgi. Victor tolse la sicura al suo fucile. Lo sconosciuto spostò il proprio verso di Victor e di nuovo su Georgi. Gli occhi spuntavano da sopra il pezzo di stoffa che gli nascondevano la bocca. Se aveva riconosciuto Victor dalla sua fama, non mostrò segno di averlo fatto. O, se lo aveva riconosciuto, ciò aveva solo aumentato il suo stato di allerta.

Le sue mani tremavano intorno all’impugnatura del fucile. Il sudore gli imperlava la fronte e il suo piccolo naso. Aveva gli occhi a mandorla, ora strizzati nella luce del sole basso sull’orizzonte. I raggi rossi dipingevano forme astratte su metà del suo corpo.

“Ragazzi, gli abitanti di questo villaggio ...” alle loro spalle giunse una voce familiare

Tutti loro, sconosciuto incluso, sollevarono lo sguardo verso JJ che stava correndo giù per il sentiero. Yuri seguiva a breve distanza, tenendosi una guancia.

“Sono pazzi” JJ concluse la frase. Si fermò bruscamente davanti alla scena che si stava svolgendo sotto i suoi occhi. Al suo fianco Yuri pareva più perplesso che preoccupato, se l’uniforme americana della nuova pedina significava qualcosa. Infatti, sotto lo strato di polvere, i capelli lunghi dello sconosciuto e quel lievissimo accenno di barba erano stranamente familiari.

Gli occhi dello sconosciuto si illuminarono di interesse non appena notò la presenza di Yuri. Abbassò lentamente il fucile. Mormorò un solo nome; solo due sillabe.
“Yuri?” domandò, facendo un passo avanti.
“Guang-Hong?” chiese Yuri, inclinando la testa come a voler vedere la scena da un diverso angolo.
Lo sconosciuto scostò lentamente il pezzo di stoffa, rivelando un volto minuto da bambino. Ciuffi castani coperti di sporcizia cadevano sugli occhi color nocciola.
Annuì. Un attimo dopo Yuri lo costrinse a lasciar la presa sul fucile con un abbraccio spaccaossa.

Note: Gioia e giubilo. Almeno uno della squadra di Leo è vivo. Facciamo le somme: Emil e Phichit sono morti; Michele è andato; Yuri è ancora più andato; Plisetsky per poco non si faceva un volo giù dal dirupo; Victor sta contando i giorni come un condannato al patibolo. Ma almeno Guang Hong è vivo.
Alzino la mano, tra quelli che non hanno letto il capitolo in inglese, che si immaginavano che Yuri si sarebbe azzuffato con Yurio. Nemmeno io.

Yurio intende "compagno" non nel senso di partner, ma nel senso di comrade, secondo l'accezione sovietica.
Nel prossimo capitolo: la missione è conclusa ed è il tempo delle risposte e di tirare le somme. Qual era la vera missione della squadra di Leo? Cosa è andato storto?
La tregua volge agli sgoccioli, le strade stanno per ri-dividersi. Ma Victor potrebbe non essere pronto a dire il suo addio.

   
 
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