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Autore: brooklynbaby_    24/07/2017    0 recensioni
«Monta su, ragazzina, ho avuto già abbastanza guai stasera per colpa tua» le feci cenno col capo di salire dietro di me. Ma lei restò immobile, guardandomi con tanto d’occhi. I capelli le si erano increspati alla radice, non avrei saputo dire se per l’umidità o la paura, e aveva la pelle d’oca.
Anni '70.
Brooklyn, un ragazzo scanzonato che cerca di farsi strada nel mondo della musica.
Manhattan, una ragazza acqua e sapone che studia per essere ammessa alla Juilliard.
Solo un ponte li divide, solo la musica li unisce: Justin Bieber e Lana Del Rey, finiranno nella stessa band, in un viaggio che li porterà fino a Woodstock.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 4- Good Vibes
 
Justin
 
«Questa è Radio Caroline in 199, la stazione musicale della vostra musica tutto il giorno»
La voce gracchiante di Johnnie Walke mi svegliò. Ficcai la testa sotto al cuscino, reticente più del solito a lasciare il letto. Mi crogiolai tra le veglia e il sonno per qualche minuto, prima che i Rolling Stones iniziassero a sintonizzare la mia giornata sul ritmo giusto.  
 
You can't always get what you want
You can't always get what you want
You can't always get what you want
But if you try sometimes well you might find
You get what you need
 
Un’esplosine di suoni mi accompagnò giù di branda, fino al bagno. Picchetai contro la porta e la risposta di mia sorella Jazmyn arrivò un po’ sommessa «Smamma, Jay! Sono arrivata prima io stamattina» brontolò impertinente.
«Avanti Jazzy, farò tardi al lavoro» bussai più veementemente alla porta e per tutta risposta quell’arpia mi fece scivolare lo spazzolino da denti sotto l’uscio. Sconfitto, ciabattai al piano di sotto.
«’Giorno ma’» biascicai con la bocca arsa dalla notte. Mio fratello Jaxon se la stava spassando a guardare i suoi cereali galleggiare nella tazza, aspettando che andassero a picco per poi esclamare «ne abbiamo perso un altro, roger!»
Gli arruffai i capelli con la mano, prima di farmi spazio al tinello.
«Jaxon piantala di giocare col cibo e Jay, per amor del cielo, cosa stai facendo?» mia madre mi rivolgeva uno sguardo a metà strada tra il basito e il disperato, mentre mi guardava lavarmi i denti dove poco prima stava lo stufato.
«E’ con tua figlia che devi lamentarti di questo» mugolai con la bocca piena di pasta dentifricia.
«Accompagni tuo fratello a scuola, oggi? Io ho… un impegno» cacciò furtivamente un post-it con un indirizzo nella sua borsa. Quella punta vaga nel suo tono di voce mi confuse, ma annui senza farmi troppe domande, perché di primo mattino il cervello era come un motore ancora freddo. La musica era il mio solo carburante.
«Justin potresti piantarla di mettere la radio così alta tutte le sante mattine?» mio padre non celò neppure stavolta il suo disappunto. Odiava la musica che ascoltavo, odiava il mio lavoro e che avessi scelto di non continuare gli studi.
Ma quello che mio padre non sapeva era che non sempre si può avere quello che si vuole, ma se avesse dato retta ai Rolling Stones, quella mattina, forse avrebbe trovato quello che cercava.
 
 
Lana
 
Qualosa di ruvido e rasposo mi leccava la faccia, quando aprii gli occhi quella mattina.
«Beethoven!» sorrisi, con le palpebre ancora socchiuse, al nostro San Bernardo.
«Su Lana, in piedi, altrimenti ci perderemo la trasmissione della mattina» Daisy fece capolino ai piedi del mio letto, nella sua camicia da notte rosa. I suoi occhi verdi, così simili ai miei, erano più che arzilli, mentre i miei dovevano essere lividi e violacei, per quanto poco avevo dormito.
«Fa’ piano Daisy, a mamma e papà manca solo di scoprire che ti faccio ascoltare una radio pirata per convincerli a spedirmi in collegio»
Abbandonai il letto per raggiungere la radio. Regolai il volume al minimo, prima di sintonizzarmi su Radio Caroline. Si udì un gracchiare indistinto e poi uno degli ultimi pezzi dei Rolling Stones cominciò a suonare.
Da quando Pauline mi aveva spifferato la frequenza, io e Daisy ci preparavamo tutte le mattine alla colazione con quella musica proibita, la musica del diavolo, come la chiamava mio padre. Ogni volta che ascoltavo quelle note, arrangiate in melodie del tutto nuove e così audaci, un brivido mi saliva lungo la schiena. Lasciai andare la testa all’indietro, mentre infilavo la mia gonna scozzese. Mi ero fatta insegnare qualche passo di danza da Pauline e cercavo di imitarli mentre chiudevo i bottoni della mia camicia fino all’ultimo. Il fiocco, d’un blu sciapo, completò la mia divisa.
«Signorine, vostra madre vi sta aspettando per la colazione» la voce di Dorothy ci fece sussultare entrambe. Daisy si affrettò a spegnere la radio, mentre io racimolavo alcuni dei miei libri per le lezioni.
 
Più tardi, mentre andavo mogia giù per le scale, continuavo a ripensare allo sguardo deluso che mio padre mi aveva rivolto per tutta la colazione, spalleggiato dal tono scostante di mia madre. I miei genitori avevano il potere di farmi sentire un verme. Avevano riposto le loro più grandi aspettative su di me, da quando mio fratello Nate aveva deciso di non frequentare Yale, come generazioni di maschi in casa Woolridge, ma darsi piuttosto alla giornalismo. Si era trasferito nel Queens, dopo una brusca litigata con mio padre, in cui lo aveva minacciato di diseredarlo se non avesse seguito ‘la tradizione di famiglia’. Non lo vedevo ormai da settimane, ma speravo che invitarlo alla partita insieme a mio padre, a loro insaputa, avrebbe potuto riavvicinarli.  
Quando finalmente fui in strada, presi un profondo respiro e l’aria fresca sul viso mi fece sentire un po’ meglio.
«Ehi bellezza» una voce camuffatamene roca mi fece sussultare e prima che potessi voltarmi, Pauline mi aveva preso sotto braccio sghignazzando.
«Mi hai fatto prendere un colpo!» piagnucolai.
«Dove ti eri cacciata ieri? Ho provato a telefonarti tutto il pomeriggio»
«Pauline, ho fatto la cosa più stupida che potessi pensare» mi morsi le labbra, contrita.
«Non dirmi che tuo padre ha scoperto la mia copia di Bob Dylan sotto al letto e te l’ha sequestrata» le labbra sottili di Pauline quasi sibilarono.
«No, molto, molto peggio…» così presi a raccontarle di come ero arrivata fino a Brooklyn, di quello che mi era successo al botteghino, ma esitai quando fu il momento di raccontarle il mio insolito incontro.
«Beh, allora? Stavi per prendere il biglietto quando? Cosa è successo?» m’incalzò, del tutto rapita dalla mia storia e scommetto anche un po’ invidiosa.
«Insomma, si è avvicinato questo ragazzo.. Avresti dovuto vederlo, Pauline, un arrogante e un prepotente» sciorinai tutta la mia frustrazione, mentre ci recavamo a scuola. Pauline m’interrompeva di tanto per farmi domande sul colore dei suoi capelli, sul suo aspetto e i suoi vestiti. Stavo quasi per lamentarmi a viso aperto del fatto che prestasse più importanza a quel malfattore che a me, quando mi scontrai contro un petto alto e largo.
Christopher Bale, la mia cotta sin dai primi anni di scuola. Frequentava la St.Jude School, la scuola maschile che era proprio accanto alla nostra.
«Scusami, non ti ho vista» mi sorrise distrattamente, ma prima che trovassi il coraggio di racimolare un paio di sillabe con cui ricambiare, lo vidi sporgersi oltre la mia spalla, come se cercasse qualcuno.
«Andiamo via» Pauline quasi mi strattonò, ma non potè impedirmi di vedere con la coda dell’occhio Charlotte Palmer, mentre sorrideva a Chris, in tutta la sua radiosa figura.
Pauline mi prese per mano e mi sorrise, facendo spallucce, e io fui grata, se non di possedere quelle cosce lunghe e due occhi da cerbiatta, almeno la migliore amica che potessi desiderare.
«Non è poi un peccato che tu ti perda il ballo, in fondo non voglio andarci neppure io»
Pauline aveva sempre detestato la formalità della nostra scuola, la Constance, il fiore all’occhiello delle scuole femminili dell’Upper East Side. Credo che questa fosse l’ingrediente del suo carattere che preferivo, la sua assoluta autenticità. Era sempre alla ricerca di esperienze nuove, di emozioni vere e non si accontentava di quelli che lei definiva “surrogati di ormoni”, i nostri compagni di scuola.
Io invece non ero mai stata né carne né pesce. L’inesplorato mi attirava come una calamita, ma avevo troppa paura di tradire il mondo che conoscevo e nel quale avevo imparato a nuotare, in un modo o nell’altro, per poter seguire Pauline nelle sue avventure senza riserve.  
 
 
 
 
 
Justin
 
«Siamo arrivati Jaxo, comportati bene e non farti mettere i piedi in testa da quelli più grandi» mi raccomandai, lasciando scivolare la sua mano dalla mia.
«Agli ordini!» mimò un “attenti” e lo vidi sparire tra la folla di ragazzi.
Proseguivo verso il Good Vibes, sbadigliando, quando incontrai Chaz.
«Amico, che fine hai fatto ieri sera? Ti aspettavamo tutti al Fifty-five» mi affiancò col suo Gilera giallo.
«Dammi uno strappo al negozio, che te lo raconto»
 
Gli dissi di quella borghesotta inviperita, che mi aveva incastrato e di quel rottinculo di suo padre, che le aveva piantato una scenata per essersi allontanata dal suo recinto.
«Doveva essere una vera suora!» sghignazzò Chaz.
«Puoi dirlo, amico!»
 
La grande insegna Good Vibes cadeva a pezzi, ma nonostante il suo aspetto il nostro negozio era una vera chicca. Potevi trovarci qualsiasi cosa e mi facevo sempre in quattro perché avessimo l’esclusiva sulle nuove uscite. Tirai su la saracinesca e l’odore dei vinili mi diede il suo bentornato.
«L’importante è che tu sia riuscito a procurarti il biglietto per la finale, sarà la partita della storia!» Chaz era un tifoso sfegatato almeno quanto me.
«Cosa ci fa questo fannullone nel mio negozio?» Larry, con un caffè in una mano e uno in un’altra, sorrise a me e a Chaz.
«Ha ragione, amico, faresti meglio ad andare in officina. Tuo fratello non deve essere stato troppo contento che tu gli abbia fregato un auto, io non peggiorerei le cose» mi presi gioco di lui. Chaz sbuffò e ci guardò in malo modo, poi allungò una mano a prendere il caffè e se ne andò ghignando.
«Quel tipo è un vero un parassita» Larry scosse la testa. Risi sotto i baffi e misi su l’ultimo dei Beach Boys. Tra poco sarebbero arrivati i primi clienti.
 
 
 
 
Lana
 
Erano trascorsi i giorni dal mio colpo di testa e la tensione in casa si era alleggerita. Seduta alla mia scrivania, cercavo di mandare a memoria la trigonometria. Dopo aver aperto una parentesi tonda, non troppo sicura di cosa ci avessi messo dentro, la chiusi e accesi la radio.
Don't you want somebody to love
Don't you need somebody to love
Wouldn't you love somebody to love
You better find somebody to love, love

 
Il telefono squillò.
«Non devi forse dirmi qualcosa?» la voce di Pauline era una campana in festa.
«No, non mi pare..» la punzecchiai. «Buon compleanno, scema! Allora, come vuoi festeggiare?»
L’ultimo compleanno di Pauline lo avevamo festeggiato a Central Park, un picnic insieme a tutte le nostre compagne di scuola.
«Non ho nessuna intenzione di passare anche questo compleanno con quelle ringalluzzite delle nostre compagne» precisò Pauline. «Che ne dici di andare sulla Settima a comprare l’ultimo LP dei Jefferson Airplane?»
«Sono in punizione, ricordi?» era già una pena ricordarlo a me stessa.
«Non puoi chiedere ai tuoi di fare un’eccezione?» mi pregò.
«Vedo cosa posso fare..» riagganciai. Adoravo andare al negozio di dischi con Pauline, anche se non potevo acquistarne. Racimolai tutto il mio coraggio e raggiunsi mia madre, che sorseggiava il suo tè in salotto. Cercai di studiare la sua espressione, mentre se ne stava assorta nella lettura di Cime Tempestose, per capire se avesse o meno avuto una buona giornata. Il suo oroscopo, quella mattina, parlava di presagi astrali favorevoli. Decisi di tentare. «Mamma, so di essere in punizione, ma ecco, vedi.. Oggi è il compleanno di Pauline e mi chiedevo se potessi andare a dormire a casa sua.» chiusi gli occhi in attesa di una risposta.
«Lana, sai bene che Pauline non è una compagna che fa per te..»
«Ma è anche l’unica che ho!» obiettai.
«Beh, facciamo così, dato che devi allargare la tua cerchia, oggi potrai andare da Pauline se domani prometti di chiamare il nipote della signora Isabelle» mia madre sferrò il suo colpo. Sapeva essere una vera manipolatrice, governava benissimo l’arte del compromesso. La signora Isabelle era la mia insegnante di piano e canto, da tempo immemore. Una zitella, il cui unico obiettivo era ormai quello di combinare in matrimonio quel buon partito di suo nipote, studente di legge alla Yale, con qualcuna delle sue allieve.
Tentennai un po’, prima di accettare. La voglia di tuffare il naso tra i vinili e ascoltare a tutto volume la musica ebbe la meglio.
 
 
 
Io e Pauline seguimmo il declino della Quinta Strada e svoltammo un paio di volte fino a raggiungere la Settima e il Rockadilly, l’unico negozio di musica rock di tutta Manhattan.
La porta tintinnò al nostro ingresso e un branco di ragazzi, chini come talpe sugli scaffali, sollevò lo sguardo ispezionandoci. Eravamo abituate a quegli sguardi increduli, con molta probabilità io e la mia amica eravamo le uniche ragazze del quartiere a fare acquisti in quel posto.
«Avete l’ultimo dei Jefferson Airplane?» mentre mi godevo del buon folk che passava dagli altoparlanti, Pauline si era data da fare.
«Scherzi? Quel vinile è ancora introvabile!» il commesso guardò Pauline con derisione. Lei per tutta risposta gli voltò le spalle impettita e mi guardò con una punta di delusione negli occhi.
«Coff coff..» un ragazzo dai boccoli stretti e folti si schiarì la voce, annunciando di aver qualcosa da dire.
«In realtà ci sarebbe un posto dove potete trovare quel vinile, ma è un po’ lontano da qui» precisò.
«Quanto lontano?» chiese Pauline, contro ogni mia aspettativa.
«A Brooklyn, il Good Vibes» Pauline sembrò deglutire un rospo. Si girò lentamente dalla mia parte, guardandomi negli occhi con fare supplichevole.
«No, no, no e ancora no.» cominciai perentoria, mentre quel ragazzo ci guardava stranito. «Non se ne parla Pauline, devo forse ricordarti perché sono finita in punizione?» dovevo sembrare sul punto di dare di matto.
«Potrei accompagnarvi, non ci vuole molto..» quel ragazzo non aveva intenzione di aiutarmi.
«Abbiamo anche trovato un accompagnatore» sorrise maliziosamente Pauline. Si stava comportando da vera sconsiderata, quel tipo avrebbe potuto essere un malintenzionato e lei voleva dargli fiducia su due piedi.
«E se i miei genitori chiamassero a casa tua?» ero convinta di averla messa di fronte a un problema a cui non poteva aver soluzione.
«Ho già detto a Marie che saremmo andate in chiesa per una raccolta di beneficenza» ammiccò.
Quella ragazza sarebbe finita all’inferno.
Raggiugemmo insieme a James, quello era il suo nome, l’ingresso più vicino della metropolitana. Mi guardavo circospetta da ogni cosa. La metropolitana era un posto affollatissimo. Quella era la prima volta che ci viaggiavo, mentre Pauline l’aveva già presa per raggiungere Coney Island. James ci indicò quali biglietti comprare e quale ingresso imboccare.
Temevo di finire travolta da quell’orda di ventiquattrore e zaini da spalla, ma riuscimmo a raggiungere il binario con faciltà. Dopo qualche minuto arrivò il nostro treno, salimmo nel vagone meno affollato, su consiglio di James, che non faceva che parlare di musica.
«Secondo me i Beatles sono molto sopravvalutati, i Pink Floyd, loro sono la vera rivoluzione della musica, sono la nostra terra promessa, capite?» e giù di lì.
 
 
 
 
«Uah, siamo a Brooklyn!» squittì Pauline. Già, pensai, eccomi di nuovo qui. Due effrazioni in meno di una settimana, bel lavoro Lana!
«Facciamo quel che dobbiamo fare e torniamo a casa» la pregai, imbronciata. Ce l’avevo a morte con Pauline per avermi coinvolta in quella sua pazzia.
«Ecco il Good Vibes, vi saluto ragazze!»
«Ciao James e grazie!» Pauline sfoderò il suo miglior sorriso, poi mi afferrò la mano e disse «andiamo» eccitata come una bambina.
 
Quel posto era il paradiso, non era molto grande ma era stipato fino al soffitto di vinili. Ragazzi e ragazze parlavano tra di loro dei generi più svariati, delle interviste a qualche cantante famoso o dell’ultimo concerto a cui erano stati.
 
 
I can walk down the street, there's no one there
Though the pavements are one huge crowd
I can drive down the road; my eyes don't see
Though my mind wants to cry out loud

I, I, I, I feel free
I feel free
I feel free

 
Era esattamente così che mi stavo sentendo in quel momento. Respiravo il profumo di libertà misto a quello dei vinili, era un paradiso in terra. La punta graffiava sul pezzo, l’aria sembrava sorridere.
 
 
«Posso aiutarvi?» mi voltai e… il sorriso appassì in una smorfia.
«Cosa ci fai tu qui?» quel tono caustico lo conoscevo. SPAZIO AUTRICE Se c'è qualcuno, battete un colpo! Altrimenti smetto di parlare da sola :(
 
   
 
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