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Autore: MadAka    25/07/2017    2 recensioni
“Il sovrano aveva impiegato due anni per sentirsi all’altezza del compito che il padre gli aveva prematuramente lasciato. Tuttavia, alla fine, l’erede di T’Chaka si stava dimostrando un ottimo re, così come un perfetto Pantera Nera.”
[Post Civil War. Sono presenti riferimenti ad altri film Marvel, in particolare AoU. Alcune cose possono essere tratte anche dai fumetti]
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Nuovo personaggio, Sam Wilson/Falcon, Steve Rogers, T'Challa/Black Panter
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta
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La luce di mezzogiorno macchiava la penombra rilassante della stanza. Fuori dalla porta i rumori venivano filtrati dalle pareti, giungendo ovattati.

La sagoma forte di T'Challa era immobile, i lineamenti fieri sciupati dalla mancanza di sonno. I suoi occhi continuavano a scorrere sugli schermi a led incastonati nella parete, le orecchie piene del suono ritmico e ripetitivo del cardiofrequenzimetro. L’infermeria si trovava nella zona est del palazzo, lontana dagli hangar e dalle strade, nel cuore più verde e protetto di tutto il perimetro.

Anisa era stata ricoverata lì quella notte. Sottoposta a cure immediate era stato concesso perfino al sovrano di poterla incontrare solo quella mattina.

T'Challa guardò la donna; respirava piano, ma con regolarità, le lenzuola di cotone a coprirne il corpo fino al petto, i capelli castani morbidamente sparsi sul cuscino.

Il sovrano tornò a osservare il suo volto, chiuse gli occhi, inspirò e si fece forza. Per la seconda volta aveva sottovalutato Klaw e per la seconda volta qualcuno ne aveva pagato le conseguenze. Non c’erano state altre vittime, ma ciò non gli permise comunque di darsi pace. Una delle persone più care e fidate che aveva era stata gravemente ferita e se non fosse stato per James Barnes, probabilmente, l’avrebbe persa per sempre.

Una volta ritornati a palazzo i medici avevano immediatamente curato Anisa; le avevano fatto una trasfusione di sangue, suturato la ferita e si erano presi cura di lei alla perfezione. Benché – a detta loro – la donna si sarebbe perfettamente ripresa, quello che le era accaduto e il fatto che lui non era stato in grado di impedirlo continuavano a fare sentire frustrato il sovrano.

Sussurrando, gli occhi ancora chiusi, T'Challa recitò una preghiera a Bast nella speranza che aiutasse quella che, più di tante altre, per lui era una sorella.

Sentì aprirsi la porta della stanza. Aprì gli occhi, zittendosi e vide entrare Kenan Wambua, il medico più fidato e capace che avesse a disposizione. L’uomo fece un rapido inchino salutando il sovrano e si richiuse la porta alle spalle. I due rimasero in silenzio a lungo, un silenzio solenne, gli sguardi di entrambi fissi sul volto di Anisa.

«Come sta?» chiese infine T'Challa, prendendo forza. La risposta lo spaventava e agitava al contempo. Anisa non era in pericolo di vita; l’aveva sotto agli occhi e lui stesso poteva appurarlo. Tuttavia solo sentirselo dire da chi era perfettamente a conoscenza della situazione avrebbe potuto tranquillizzarlo.

«È stabile» rispose Kenan che poté notare il sovrano rilassare le spalle. «Si riprenderà completamente.»

«Com’è potuto accadere?»

T'Challa non si dava pace per quello. Aveva trascorso la notte tormentandosi letteralmente chiedendosi di continuo come fosse stato possibile, per qualcuno riuscire, a scalfire – fino a penetrare – la tuta di fibre miste della donna. Anche se non era composta esclusivamente da vibranio, i test che vi avevano apportato avevano dimostrato che l’indumento era in grado di resistere alla perfezione ad armi da fuoco e coltelli.

Il medico scosse debolmente la testa. «Le hanno sparato.»

«Questo lo so» replicò prontamente il sovrano, leggermente infastidito. «Ma nella sua tuta c’era del vibranio, come hanno fatto a ferirla?»

Kenan non rispose subito. Girò intorno al letto dove Anisa dormiva ancora, raggiungendo il sovrano. Giunto al computer digitò rapidamente qualcosa e sugli schermi – al posto dei parametri vitali della donna – comparvero delle immagini. T'Challa si voltò a guardarle, intuendo immediatamente di cosa si trattasse. Era la ferita di Anisa. Un profondo squarcio che, in quelle immagini ingrandite, sembrava più simile a una voragine. Il sovrano continuò a osservare il sangue rosso cupo che rivestiva le pareti di quella lesione come catturato.

«Ci siamo interrogati molto su ciò che può essere accaduto, altezza» esordì il medico, indicando poi su uno degli schermi l’immagine più ravvicinata della parte lesa di Anisa. «Nessuna delle nostre supposizioni, però, ha trovato un riscontro fondato. La pelle della signorina è stata troncata di netto, non vi sono i segni tipici delle lacerazioni provocate dalle armi da fuoco. Voi avete visto la sua tuta?»

T'Challa si voltò, in attesa che venisse dato un senso alla domanda.

«In prossimità della ferita, come appare il tessuto?»

«Perfettamente tagliato» fu la risposta del sovrano. Ripensò a quel cerchio perfetto in corrispondenza dell’ingresso del colpo nel corpo di Anisa, così come perfetto era il corrispettivo foro di uscita.

Quelle parole parvero bastare a Kenan. «Chirurgico.»

T'Challa ascoltò quell’unica parola, sentì il riverbero che lasciò nella stanza silenziosa.

«Lo abbiamo definito così» riprese il medico. «Mio signore, non vi sono tracce di polvere da sparo che lascino pensare che qualcuno abbia sparato alla signorina da una distanza molto ravvicinata. Il diametro della ferita non supera di molto i 9mm. E, come avete potuto notare, sia la tuta che la pelle sono state lacerate alla perfezione, in modo… chirurgico. Io… una normale pistola calibro 9 non può riuscire a fare tanto.»

Il tono di voce di Kenan lasciava intuire che la sua mancanza di conferme lo avviliva. Quell’impeccabile medico, che mai aveva avuto dubbi, si trovava ad affrontare qualcosa a lui sconosciuto.

«Lei crede che possa essere stata un’arma di tipo sperimentale a ferire così Anisa?» chiese infine T'Challa, dopo aver pensato per un breve momento a quella possibilità.

«Non glielo posso garantire, sire. Ma è un tipo di ferita con cui non abbiamo mai avuto a che fare.»

Tornò a rivolgere lo sguardo agli schermi, indicando altre immagini. «È viva per miracolo. Il proiettile – o qualunque cosa l’abbia colpita – ha passato il suo corpo da parte a parte, evitando fortuitamente organi vitali. Se il diametro fosse stato maggiore non ce l’avrebbe fatta, nonostante la prontezza con cui l’avete portata qui.»

Kenan sospirò. «Sono affranto dal fatto di non potervi dare informazioni attendibili.»

T'Challa lisciò il tessuto dell’abito, sovrappensiero. Stando a quanto gli aveva riferito Barnes, Anisa era stata colpita da Sule, uno dei due complici di Klaw. Quell’informazione, unita a ciò che aveva appena scoperto parlando con Kenan, permisero al sovrano di trarre una prima – forse evidente – conclusione: non avevano a che fare con persone normali. I due uomini di cui Klaw disponeva – oltre a se stesso – erano uomini addestrati e, con tutta probabilità, muniti di particolari armi all’avanguardia. Solo i risultati delle analisi che lui aveva fatto svolgere sull’accendino di cui si era impossessato la notte precedente gli avrebbero permesso di fare maggiore chiarezza in quel groviglio di incertezze.

«Ha fatto quello che era in suo potere. Ha salvato Anisa.»

T'Challa rivolse un leggere inchino in direzione del medico, pronunciando quelle parole. L’altro rispose con lo stesso gesto ma prima che potesse replicare venne interrotto. Qualcuno bussò alla porta e T'Challa diede il permesso di entrare. Oltre la soglia comparve Mandisa, composta e ordinata come sempre. Teneva una cartelletta stretta al petto e, entrando, salutò i presenti, lanciando infine una veloce occhiata in direzione del letto.

«Buongiorno Mandisa» l’accolse il sovrano.

«Altezza. Mi scuso per il disturbo, ma il Presidente keniota chiede di voi. La chiamata è in attesa nel suo ufficio.»

L’uomo si irrigidì appena, chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Era difficile che fossero venuti a conoscenza dell’introduzione da parte di Pantera Nera entro i confini del Kenya, ma nulla era da escludere. Se era accaduto ciò, per T'Challa sarebbe stato necessario dare sfoggio delle sue migliori abilità diplomatiche per tentare di giustificare come mai, il difensore del Wakanda, avesse oltrepassato i suoi confini.

Si avviò da Mandisa, voltandosi prima verso il medico. «La ringrazio per il suo lavoro» disse.

Lanciò un’ultima occhiata al viso di Anisa, infine seguì la donna, che si avviò immediatamente verso l’uscita dell’infermeria. Appena fu fuori dalla porta, però, la robusta sagoma di un uomo attirò la sua attenzione.

James Barnes si fermò di colpo, fissando T'Challa e Mandisa a pochi metri da lui. Indossava vestiti wakandiani, leggeri, il braccio metallico scintillante sotto la luce del sole che entrava dalle grandi finestre del corridoio.

T'Challa gli sorrise. «James. Vedo che cominci a orientarti all’interno del palazzo.»

Fece un cenno in direzione della porta della camera di Anisa. «Sei qui per fare visita ad Anisa?»

La domanda rimase in sospeso a lungo. T'Challa era ormai abituato alla scarsa loquacità del Soldato d’Inverno e non si scompose. «Dentro c’è ancora Kenan, il mio medico di fiducia. Ho lasciato detto che tu possa vederla.»

Non attesa una risposta; riprese a camminare e si allontanò, seguendo la sua assistente lungo il corridoio diretto al suo ufficio. Bucky rimase a guardare le due figure che si allontanavano, finché il rimbombo dei tacchi di Mandisa non venne assorbito completamente dalla distanza. Poco più avanti vide la maniglia abbassarsi e un uomo uscire dalla stanza che T'Challa gli aveva appena indicato. Dedusse che si poteva trattare solo di Kenan.

Quest’ultimo guardò il Soldato per un breve momento, infine gli sorrise, mantenendo la porta aperta.

«Sta riposando.»

Bucky non replicò. Fece un debole cenno di assenso al medico avvicinandosi a lui, dopodiché entrò nella stanza, richiudendo dietro di sé la porta.

 

*

 

Le sembrava di essere avvolta da ovatta. La luce delicata non le diede fastidio appena aprì gli occhi, che si adattarono subito alla penombra del tramonto imminente. I suoni erano spenti, lontani, si percepivano a stento ed erano confusi. Anisa sbatté gli occhi un paio di volte, mettendo a fuoco il soffitto sopra di sé, il corpo immobile, il respiro ancora lento. Non riusciva quasi a sentire il proprio corpo, ma era rilassata.

Quel soffitto le era famigliare e le sue profonde convinzioni su cosa l’aspettava oltre la morte, esulavano completamente da una camera bianca e un letto in cui si sprofondava come nello zucchero filato.

Si guardò intorno, in attesa di riavere il controllo completo del proprio corpo. Voltò appena il volto verso destra e lo vide subito. Sembrava addormentato, le braccia incrociate al petto, gli occhi chiusi. Anisa lo guardò un momento e si trovò piacevolmente sorpresa di trovare nella sua stanza il Soldato d’Inverno. Rimase a osservare i tratti del suo volto e la mente la catapultò inevitabilmente indietro, alla notte precedente.

Era stato lui a salvarla, su questo non aveva dubbi. Ricordava alla perfezione il viso di Bucky quando l’aveva raggiunta nel corridoio in cui lei temeva sarebbe morta, del modo in cui l’aveva medicata, di come l’aveva raccolta da terra per portarla via. Ricordava la risolutezza nei suoi gesti, in quegli occhi tanto chiari, le ciocche di capelli scure che ricadevano scomposte sul suo volto. Fra le sue braccia si era sentita al sicuro e le ultime parole che lui le aveva mormorato le avevano dato speranza.

Forse era per quello che, appena risvegliata, era piuttosto certa di essere ancora viva e in un posto sicuro. Nel modo in cui Bucky si era preso cura di lei, Anisa aveva sentito che sarebbe andato tutto bene.

La donna sorrise leggermente fra sé, sentendo finalmente tornare un po’ di sensibilità fin nelle punte del proprio corpo. Era sicura che Bucky fosse cosciente e vigile, anche se si sarebbe detto il contrario.

«Ciao» disse infine, la voce roca e il tono più basso di quanto avesse pensato.

Non si era sbagliata. Il Soldato aprì subito gli occhi, puntandoli su di lei. Appoggiò i gomiti ai braccioli della sedia in cui si trovava senza dire nulla.

La donna gli sorrise, senza replicare. I silenzi di Bucky erano quasi snervanti, ma lei era certa di capire a cosa fossero dovuti. All’uomo servivano tempo, sicurezza e nuova speranza per riuscire a trasformare quei silenzi in parole e tutto ciò richiedeva tempo. Anche lei ci era passata anni prima e fu strano rendersi conto di non aver tenuto nei confronti di una persona in quella situazione, il comportamento che lei, in quegli anni, aveva desiderato che le venisse riservato.

Anisa tornò a rivolgere gli occhi al soffitto. «Grazie. Devo a te la mia presenza qui.»

«Come puoi esserne certa?» domandò Bucky, lentamente.

La donna si lasciò sfuggire una leggera risata, uno sbuffo fra le labbra. «Sei l’ultima cosa che ho visto prima di perdere i sensi. Direi che è proprio te che devo ringraziare.»

«Dovevo farlo» si limitò a replicare l’uomo, distogliendo lo sguardo proprio mentre Anisa tornava a posare il suo su di lui. Rimasero in silenzio ancora un po’, finché la donna non prese nuovamente parola: «Perché hai deciso di aiutarci? È solo per via della cura che ha trovato T'Challa?»

Aveva posto la domanda a bruciapelo e ne era consapevole. Tuttavia, dopo quello che aveva scoperto durante la riabilitazione di Bucky e dopo che lui aveva accettato di aiutare T'Challa nella sua personale lotta contro Klaw, quella domanda aveva cominciato a perseguitarla. Sapeva che non avrebbe ottenuto una risposta, a meno di chiedere al diretto interessato.

Il Soldato fissò a lungo Anisa, che non cedette per un solo attimo. Lui guardò attentamente i suoi occhi nocciola, lucidi per il troppo riposo, sentendola vicino a sé. Aveva capito di potersi fidare di lei e di T'Challa, di avere trovato qualcun altro, dopo Steve, con cui poter evitare di guardarsi perennemente le spalle. Per pochi istanti aveva dubitato delle sue ultime scelte, ma il breve e sincero ringraziamento che poco prima Anisa gli aveva rivolto era stato sufficiente per confermargli che la sua decisione era giusta.

Respirò a fondo, in cerca delle parole che, da quando James Buchanan Barnes era stato inghiottito dal gelo settant’anni prima, faticava sempre a trovare.

«Dopo che mi avete aiutato a guarire non potevo farmi congelare di nuovo. Farlo, dopo essere stato liberato dal controllo dell’HYDRA, sarebbe stato come scappare.»

Fece una pausa. «Ho pensato a quello che avrei potuto fare e mi sono tornate alla mente tutte le cose che mi aveva raccontato Steve. Ho capito che per la prima volta potevo mettere le mie capacità al servizio degli altri, che potevo usare le mie doti per fare finalmente del bene. È per questo che ho accettato. Volevo cominciare subito e T'Challa mi è sembrato avesse bisogno di aiuto. Ora so che ho fatto la scelta giusta.»

Anisa sorrise dolcemente, ripensando alle parole appena pronunciate dall’uomo. Ciò contro cui stavano combattendo era qualcosa – o meglio, qualcuno – contro cui le sole forze wakandiane non avrebbero potuto nulla. Dopo due scontri frontali con Klaw anche lei, a malincuore, aveva ammesso a se stessa quella sconsolante realtà. Era chiaro che l’aiuto che il Soldato aveva deciso di dar loro era stato provvidenziale.

Tuttavia bisognava ricominciare da capo ancora una volta. Era necessario trovare il nuovo nascondiglio di Klaw, prepararsi al meglio per affrontare lui e i suoi uomini, sempre che fossero sopravvissuti la notte precedente.

Fu in quel momento che si accorse di non avere informazioni sull’esito dell’attacco di quella notte – a parte il suo ferimento – e, testarda com’era, decise di andare da T'Challa a chiederglielo di persona.

Lanciò un’occhiata all’asta portaflebo immobile accanto al letto, la sacca in plastica vuota, mollemente abbandonata. Probabilmente si trattava di antidolorifici, somministrati per permetterle di riposare dopo essere stata medicata.

«Cosa c’era lì dentro?» chiese conferma a Bucky, fissando ancora la flebo esaurita.

Il Soldato non parve sorpreso per la domanda. «Analgesico.»

«Dubito ci sia scritto proprio così» replicò la donna, sarcastica.

Nuovamente Bucky non si scompose. «Trometamina» precisò.

«D’accordo.»

Detto ciò Anisa si puntellò con i gomiti sul letto, facendo scivolare le lenzuola all’altezza dell’addome. Non sentì dolore in corrispondenza della sua ferita, ma, probabilmente a causa dell’antidolorifico e del troppo riposo, il corpo non era abbastanza reattivo. Faceva fatica a mettersi seduta, la banale operazione le richiese dello sforzo anche per fallire totalmente.

Bucky la guardò, leggermente incuriosito, sforzandosi di capire perché quella donna non avesse voglia di fare l’unica cosa che, nel suo stato, avrebbe dovuto fare: stare ferma e riposarsi. Tuttavia Anisa provo a sedersi sul letto ancora una volta. Lui reagì istintivamente e si sporse avanti per aiutarla, ma si fermò subito. La donna notò il suo gesto.

«Oh, non preoccuparti, ce la faccio» disse.

Bucky si ricompose.

«Il sarcasmo non fa per te, vero?» aggiunse poi lei, ricadendo nuovamente sul cuscino.

L’uomo capì, si alzò dalla sedia, mormorando una rapida scusa, dopo di che aiutò Anisa. La sollevò leggermente, aiutandola a sedersi per bene, i cuscini disposti dietro la schiena. Quando si fu sistemata, lei gli sorrise, ringraziandolo. Bucky indietreggiò di un passo e rimase a guardare la donna che, come se fosse stata sola, sollevò la maglia dell’abito ospedaliero che indossava fino al punto in cui era stata colpita. C’era una garza con cerotto che la donna non esitò a sollevare, mostrando la pelle sotto di essa. Anche il Soldato rimase a guardare quei centimetri di pelle dorata, gonfia e arrossata per via di un segno verticale marcato, interrotto da quattro punti di sutura equidistanti fra loro. Anisa fece scorrere su quei punti il proprio indice, percependo il dislivello fra la carne sana e quella medicata.

«Non dovresti toccarla» la informò Bucky, ancora intento a osservarla.

Lei parve non ascoltare la sua affermazione. «Ne hai molte di queste?» gli chiese, senza guardarlo.

«Qualcuna» rispose lui, contandole mentalmente.

La donna tornò a sistemare sulla ferita la garza, facendo aderire il cerotto meglio che poté, infine abbassò la maglia. Si sporse sul bordo del letto, faticando un po’, gli occhi fissi sulle scarpe di Bucky, ancora in piedi accanto a lei.

Si sentiva strana; ancora non le sembrava vero che le avessero sparato. Eppure quella sua ferita era reale, l’aveva appena toccata e non poteva certo fingere che non fosse vera. Se quei pensieri potevano attraversare la sua mente in quel momento lo doveva solo al Soldato d’Inverno che, ora, le pareva strano chiamarlo ancora così. Quell’uomo le aveva salvato la vita e, quel gesto, non poteva che significare tutto per lei.

«Come va il braccio?» domandò poi, senza apparente motivo.

Bucky la fissò incuriosito, senza capire il perché di quel quesito. Guardò rapidamente il braccio in vibranio, muovendo istintivamente le dita, dopodiché Anisa riprese a parlare: «Non sono stata molto gentile con te finora. Avrei dovuto comportarmi decisamente meglio e mi dispiace. Eppure tu non hai esitato a salvarmi la vita.»

«Dovevo farlo» replicò lui, senza cambiare di una sola virgola l’identica risposta che aveva dato alla donna la prima volta in cui aveva tirato in ballo l’argomento.

Si guardarono per un lungo momento. C’era una forte intensità negli occhi grigio-azzurri del Soldato, un insieme di sentimenti vari, ammassati, contrastanti, che Anisa non riuscì decifrare. Si limitò a sorridere, sforzando poi il suo corpo ad alzarsi in piedi.

Bucky intuì subito quello che la donna era in procinto di fare e volle impedirglielo. Posò il braccio sinistro sulla spalla di lei, con ferma delicatezza.

Anisa si bloccò. Puntò prima lo sguardo sulla mano di Bucky, facendolo scorrere lungo tutta la superficie metallica del braccio, infine tornò a incrociare i suoi occhi. In quel brevissimo attimo il suo cuore ebbe un fremito e lei si arrestò completamente.

«Non puoi andare da T'Challa, ora. Hai bisogno di riposare ancora» le disse lui, il tono risoluto non ammetteva repliche. Anisa, infatti, non fu in grado di replicare. Ancora catturata dai suoi occhi chiari annuì con la testa e, ubbidiente, tornò a sdraiarsi sul letto, sotto lo sguardo vigile del Soldato.

 

*

 

La porta dell’ufficio di T'Challa non le era mai mancata così tanto. Anisa sfiorò leggermente il legno laccato di nero, prima di posare la mano sulla maniglia.

Era uscita dalla sua stanza in infermeria quella mattina, dopo due interi giorni trascorsi là dentro. Dopo il suo risveglio Bucky non si era più fatto vedere, ma T'Challa l’aveva visitata spesso, esprimendole il desiderio di essere raggiunto nel suo ufficio non appena fosse stata dimessa. Non le aveva raccontato nulla di tutto ciò che era seguito al loro allontanamento dal deposito interrato – dopo il suo ferimento – se non che, con tutta probabilità, Sule era morto.

Bussò alla porta, rimanendo in attesa. Sentì subito T'Challa che invitava a entrare e, lentamente, superò la soglia.

Il sovrano non era solo. Seduto alla scrivania, di fronte a lui, Bucky si voltò appena per vedere chi avesse fatto il suo ingresso. Come T'Challa vide Anisa si alzò in piedi, andandole incontro. L’abbracciò, stringendola a sé mentre sussurrava un veloce saluto wakandiano, parole di gioia e di ringraziamento. La donna si distese in quell’abbraccio, inspirando a fondo il profumo dell’uomo, un misto di pulito, caffè e vaniglia. Quando si separarono Anisa si sistemò istintivamente il lungo abito tipico di quelle terre, di stoffa naturale, leggera e non aderente, così che non andasse a tirare in corrispondenza dei punti di sutura non più coperti dalla garza.

Il sovrano invitò la donna a sedersi, ma lei preferì rimanere in piedi.

«Come ti senti?» le chiese T'Challa, tornando al suo posto.

«Decisamente meglio.»

L’uomo annuì, sorridendo. «Stavo parlando con James riguardo alle ultime supposizioni che ho formulato sugli uomini di Klaw» riprese poi, serio. «Vorrei rendertene partecipe.»

«Sono qui anche per questo.»

«Non so dove sia fuggito Klaw, ma ho già avviato delle ricerche. Un paio di giorni fa il Presidente del Kenya mi ha contattato per dirmi che, nella sua terra, sono accadute alcune cose strane, delle aggressioni.»

Sfogliò un paio di pagine con fare distratto, tornando a puntare lo sguardo su Anisa. «Sai già cosa sospetto, ma finché non ottengo qualche riscontro non c’è molto che possa fare.»

«Lo capisco.»

«Per quanto riguarda i due uomini di Klaw, quello che ti ha sparato dovrebbe essere morto, ma l’altro…»

Lasciò cadere la frase, estraendo da uno dei cassetti della sua scrivania un accendino. Anisa lo guardò, senza capire, sentendo su di sé gli occhi di entrambi gli uomini.

«Ho preso questo accendino quella notte, dall’altro complice, dopo che lo avevo atterrato. James mi aveva raggiunto dopo che ti avevano ferita e ti abbiamo subito portata qui. Sapevo che quell’uomo si sarebbe ripreso, prima o poi, ma speravo che sottrargli questo accendino potesse bastare a renderlo meno pericoloso. Credevo fosse questo l’origine del suo potere, di quelle fiamme irreali che sa produrre. Pensavo si trattasse di un’arma sperimentale, esattamente come la pistola con cui Sule ti ha colpito.»

Nel tono di voce di T'Challa c’era una sfumatura, piuttosto evidente, in grado di far capire alla donna che le cose non erano andate per il verso giusto.

«E invece?» lo incalzò, curiosa.

T'Challa abbassò lo sguardo sull’oggetto di quelle attenzioni. «È un comune accendino, come ce ne sono tanti. Due giorni di analisi per capire che questo non è altro che un normalissimo accendino.»

La sua voce si era caricata di irritazione sul finire della frase, mentre Anisa era semplicemente incredula. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile una cosa del genere. Lei l’aveva visto quell’uomo; fiammate simili non potevano essere provocate da un accendino normale.

«Non ha senso» disse infine.

T'Challa annuì leggermente. «Con James siamo arrivati alla conclusione che si possa trattare di uomini dalle capacità superiori, non sarebbe la prima volta.»

La donna non ebbe il tempo di stupirsi o trovarsi d’accordo con quelle parole. Improvvisamente, con calcolato automatismo, le veneziane delle grandi finestre si chiusero, facendo sprofondare nell’ombra l’ufficio di T'Challa.

Il sovrano, che come la donna conosceva quella procedura, si alzò dalla sua sedia, gli occhi improvvisamente brillanti. Bucky non capì cosa stava accadendo, ma puntò lo sguardo sulla parete alla sua destra, esattamente il punto in cui gli altri due stavano osservando. Con sua sorpresa, lì, l’ologramma di un uomo comparve fra due fasci di luci incrociati, lo sguardo astuto perfettamente decifrabile.

L’ologramma di Edet parlò con voce chiara, comunicando il messaggio che aveva registrato tempo prima: «Mio signore, sono riuscito a rintracciare Captain America. Stiamo rientrando in Wakanda.»

  
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