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Autore: thebrightstarofthewest    25/07/2017    1 recensioni
Robert Crawley è un giovane visconte che sogna di diventare sceneggiatore. Cora Levinson è una brillante aspirante attrice con un passato oscuro. Cosa accadrà quando i due si incontreranno nel complesso mondo dello star system? Sarà l'amore a trionfare o le loro ambizioni finiranno per allontanare i loro cuori?
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Smith-Bates, Cora Crawley, John Bates, Robert Crawley, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I: She’s a Rainbow

She comes in color ev’rywhere
She combs her hair
She’s like a rainbow

Controllò per l’ennesima volta il Rolex che portava al polso, per essere certo di non essere in ritardo. E, per l’ennesima volta, l’orologio lenì i suoi timori: no, era perfettamente in orario. Erano appena suonate le sette del pomeriggio ed il suo appuntamento era fissato per le sette e dieci… aveva dieci minuti, dieci minuti per entrare negli uffici della casa cinematografica, presentarsi alla reception, prendere l’ascensore per il quarto piano –o era il quinto? Beh, ad ogni modo suo padre aveva più volte detto che era l’ultimo piano dell’edificio, quindi non rischiava di sbagliarsi- ed infine attraversare tutto il corridoio sulla destra. A quel punto, si sarebbe trovato davanti la sua meta: l’ufficio del signor Charles Carson, uno dei produttori e degli imprenditori più importanti dell’industria cinematografica e televisiva britannica e mondiale.
Per un istante, Robert Crawley tremò al pensiero di trovarsi di fronte al signor Carson.
Sciocchezze, sbottò tra sé e sé il giovane uomo, spalancando la portiera della BMW nera e uscendo dall’automobile; controllò di aver preso tutto il necessario: portafoglio, cappotto e cartellina trasparente. Soprattutto la cartellina trasparente, dato che conteneva la ragione per cui si trovava lì: la primissima bozza della sua primissima sceneggiatura, scritta rigorosamente a mano in copia unica. Un metodo piuttosto sciocco di scrivere, gli facevano notare praticamente tutti, in un mondo in cui tablet, pc e smartphone davano la possibilità di buttar giù le parole, modificarle, copiarle, salvarle in vari file; ma a Robert, le parole piaceva sentirle fluire sulla carta, con l’inchiostro, direttamente dalla sua mano. Era quello il suo sogno: scrivere e vedere i suoi racconti trasposti come per magia su uno schermo.
Richiuse la BMW e si avviò verso gli uffici dei Carson Studios.
Il signor Carson era stato chiaro: poteva concedergli un quarto d’ora del suo tempo –un po’ misero come tempo a disposizione, ma Robert non si era lamentato-, poi sarebbe dovuto obbligatoriamente uscire per partecipare al red carpet di qualche manifestazione cinematografica di lusso di cui il giovane uomo non aveva mai assolutamente sentito parlare.
Era molto emozionato, ma non riusciva ad esserlo… completamente. E la ragione era una sola: sapeva benissimo che Carson non era particolarmente interessato al suo copione… chissà quanti ne visionava quotidianamente. No, la vera ragione per cui gli aveva concesso un appuntamento era che il signor Carson e suo padre, Patrick Crawley, erano amici di lunga data. Avevano frequentato Cambridge insieme e quando Carson aveva deciso di lanciarsi nel campo nella cinematografia, suo padre era stato lì ad aiutarlo: aveva finanziato il progetto, aveva aiutato nella costruzione di uffici e studios ed era entrato -a scopo di solo lucro, certamente non per ambizione artistica- nella produzione di diversi film di punta.
Robert uscì dal parcheggio e puntò verso la porta scorrevole della sede dei Carson Studios, tamburellando pensosamente le dita sulla cartellina
. Certo, suo padre non si era mai fatto troppi problemi ad investire i propri soldi. Ad esempio, la maggior parte degli introiti della sua famiglia arrivava da una catena di hotel di lusso che Patrick aveva fondato trent’anni prima: d’altronde era un conte, il lord di Downton Abbey, e il denaro non gli mancava. Sospirò: un giorno il testimone sarebbe passato a lui, un giorno sarebbe stato anche lui conte… avrebbe mollato anche lui ogni ambizione artistica per darsi agli affari?
Oltrepassò la porta, cercando di scacciare quel timore dalla testa.
Era ormai quasi ora di chiudere i battenti, per cui la hall era pressoché vuota, eccezion fatta per un paio di inservienti, alcuni membri della sicurezza e la ragazza alla reception. Si recò proprio verso quest’ultima per presentarsi.
“Buonasera, sono Robert Crawley”, esordì, cercando di sorridere con naturalezza, “Avevo un appuntamento con il signor Charles Carson per le sette e dieci”. La segretaria lo squadrò per un istante, annuendo distrattamente con il capo, e digitò qualcosa sulla tastiera del suo computer. Quando confermò che sì, era atteso al quinto piano, Robert fece un cenno di ringraziamento e si diresse verso gli ascensori, fischiettando un pezzo rock di cui non ricordava il nome.
Fu allora che, davanti agli occhi, gli si parò uno spettacolo… inatteso: l’ascensore era aperto e, al suo interno, c’era una donna; una donna giovane, lo si poteva intuire dal modo in cui il semplice abito lilla le fasciava il corpo longilineo. Era immobile, con una cartelletta stretta quasi maniacalmente contro il petto, gli occhi sbarrati ed un tremito incontrollabile che le scuoteva il corpo. Sbuffò: ci mancava soltanto di fare ritardo perché una ragazza si era barricata nell’ascensore.
Improvvisamente nervoso, le si avvicinò a passo deciso. “Qual è il problema?”, esclamò, cercando di nascondere la propria irritazione, “Ehi, mi sente? Scusi? Qual è il problema? Ho un appuntamento al quinto piano, io, e non ho tempo da perdere”.
“Non ce la farò mai… lo so che non ce la farò mai”, riuscì a mormorare la ragazza, la voce ridotta ad un lieve tremore, interrotta in più punti da un suono sordo e gutturale, come se stesse cercando disperatamente di prendere aria senza però riuscirci.
“Beh, potrebbe anche farcela”, ribatté lui con rabbioso sarcasmo, alzando polemicamente le mani al cielo, “Ma se continua ad agitarsi così non credo che sopravvivrà per scoprirlo”. Voleva l’ascensore libero e lo voleva adesso.
La giovane donna, però, non smise di tremare e, anzi, si portò le mani al petto, come se non avesse aria nei polmoni. Apriva la bocca, ma non ne usciva alcun suono.
D’improvviso, una consapevolezza colpì Robert come una secchiata d’acqua gelata: aveva già visto qualcuno in una situazione simile, prima. Stessi identici sintomi. Stesso respiro affannoso. Stessa incapacità di reazione. Stesso incontrollabile tremore. Stessa arrendevole e terribile tristezza, per non dire addirittura
devastazione.
Sì, era un attacco di panico, ne era abbastanza certo: anche sua sorella Rosamund ne soffriva.
Sbiancò e lo stomaco gli si chiuse: era semplicemente un grandissimo e perfetto cretino. Era forse così che si trattavano gli altri? Soprattutto, era così che si trattava una ragazza in difficoltà? Dove erano finite le sue buone maniere, i suoi modi gentili di cui andava tanto fiero?
“Venga con me”, le disse, afferrandole il braccio garbatamente. La ragazza, però, non pareva essere capace di muoversi e rimase coi piedi puntati all’interno dell’ascensore, le mani sulle tempie, la bocca spalancata nell’ombra, in cerca di aria. Robert non si dette per vinto. “Venga con me, le ho detto”, ripeté, con fermezza, “So quello che faccio”.
La guidò davanti ad un’ampia finestra che dava sul retro dell’edificio, dove erano raggruppati vari capannoni, roulotte e furgoncini… i veri e propri studios, dove venivano girati tutti i film e le serie TV firmate Carson. Si sarebbe concesso di osservare quel panorama con aria sognante, in un altro momento, ma adesso non era certo il caso: spalancò il vetro della finestra e l’aria fresca ed umida del tardo pomeriggio londinese entrò nella corridoio, riempiendogli i polmoni. La ragazza ancora boccheggiava, ma quando la lieve brezza le raggiunse i capelli, scompigliandoli appena, sembrò quietarsi per qualche istante. Erano bei capelli, notò Robert. Scuri, quasi corvini, e sembravano incredibilmente soffici al tocco. Si vergognò immediatamente per i propri pensieri.
“Su, su”, la incoraggiò allora, massaggiandole la schiena, ed arrossì al pensiero di star passando il palmo della mano sulla pelle di una donna sconosciuta. Non era mai stato esattamente un casanova, né un seduttore particolarmente capace, per cui gli sembrava di star vivendo una situazione quantomeno utopica.
Nel frattempo, qualcun altro aveva chiamato l’ascensore, le cui porte cromate si erano chiuse con un lieve clangore e i cui ingranaggi avevano incominciato a girare, facendolo schizzare verso l’alto, verso quel quinto piano in cui Robert sarebbe dovuto già essere.
Sotto il suo tocco, sentì la ragazza agitarsi. “Le ho fatto perdere l’ascensore”, biascicò incerta e riprese a tremare; la cartellina le cadde dalle mani. Per qualche istante, Robert ebbe il timore che le sue premure non fossero servite a niente. Dal canto suo, la ragazza scoppiò in un pianto disperato. “Le ho fatto perdere l’ascensore”, ripeté, come se gli avesse appena fatto un torto irreparabile. La sconosciuta appoggiò la testa al suo petto, sussultando forte. Quel contatto fisico lo lasciò abbastanza interdetto, ma si riscosse subito.
“Non si preoccupi, lo richiamerò”, cercò di tranquillizzarla lui, senza smettere di sfiorarle la schiena, “Lei cerchi soltanto di calmarsi e respirare a fondo”. Non credeva di essere particolarmente convincente, ma non sapeva che altro fare.
Pian piano, i singhiozzi ed i singulti andarono scemando, ed il respiro della sconosciuta si fece regolare contro il tessuto della sua camicia, irrimediabilmente sgualcita e, sospettava, probabilmente sporca di trucco. Ma Robert non aveva tempo per pensare a certe stupide frivolezza, adesso: si sentiva in colpa e sapeva bene che non era affatto degno di perdono per il modo in cui aveva reagito. “Mi scusi per prima, mi…”, farfugliò, gesticolando nervosamente. Era stato un idiota, un egoista ed un insensibile, “Non mi importa niente dell’ascensore, davvero, niente, io non… Non volevo essere così scortese, normalmente io non… mi dispiace”.
La sconosciuta non disse niente. Cosa avrebbe dovuto dire, d’altronde? Che non importava? Che andava tutto bene? Col cavolo che andava tutto bene, era stato un bruto.
“Non so cosa mi è preso, non so come ho fatto ad arrabbiarmi solo perché era nel panico. Non importa se ho perso l’ascensore, davvero, non importa… Sono solo io che devo scusarmi, un gentiluomo dovrebbe consolare una fanciulla in difficoltà, non sbeffeggiarla”. Si rese conto solo dopo aver pronunciato quelle frasi di quanto tremendamente pacchiane e auliche suonassero. Gentiluomo? Fanciulla? Sbeffeggiare? Ma che razza di inglese stava usando?
Allora, a contatto con il tessuto della camicia, sentì le labbra della giovane curvarsi in un sorriso e, presto, ne fuoriuscì una leggera, breve e quasi impercettibile risata.
Solo allora, lei alzò la testa, e Robert si stupì nel percepire un indefinito e curioso prurito all’altezza della bocca dello stomaco.
Era bella.
Ma non di una bellezza convenzionale, banale, non una di quelle bellezze che vendevano preconfezionate nelle pubblicità di profumi o di shampoo alle erbe: era bella in un modo tutto suo. Non riusciva a capire bene di colore fossero i suoi occhi, che erano oscurati da una coltre di lacrime, ma erano dolci, dolcissimi, sormontati da due sottili sopracciglia scure ed una massa di capelli bruni, acconciati sobriamente, ma con grande eleganza. Le sue labbra, poi, curve come erano in un timido sorriso, acuivano il senso di colpa per come l’aveva trattata inizialmente, perché non poteva pensare di comportarsi male con qualcuno che aveva
quel sorriso.
“Grazie, mi ha fatta ridere”, mormorò goffamente lei. Aveva una voce profonda, notò, ed un accento… nuovo. Non comune.
“Americana?”, domandò farfugliando lui, e si maledisse subito per la domanda idiota. Chi era il decerebrato che si metteva a chiedere l’etnia ad una persona che aveva appena avuto un attacco di panico? Lei, però, rise nuovamente. Un suono che gli scaldò il cuore.
“Sì…”, ammise lei, stringendosi nelle spalle, “E poco pratica del posto, come potrà immaginare… Avevo un appuntamento alle sette, mi ero persa e sono andata nel panico, mi scuso per… per la scenata”, concluse, in un soffio.
“Un appuntamento?”, le domandò Robert.
“Un provino, in realtà. Ho fatto su e giù per tutti i piani del palazzo ma non riesco a capire dove si tengano le audizioni a cui devo partecipare”.
Un provino? “Oh, ma allora è al piano sbagliato, completamente”, le spiegò. Ricordava dove si tenevano i provini, ne aveva visti alcuni quando da piccolo suo padre lo portava ad esplorare gli studios, “Deve andare al terzo”.
Lei annuì, imbarazzata. Doveva essere davvero una donna timida. Robert si chinò a prenderle la cartellina trasparente, che le era caduta a terra quando si era messa a piangere, e quasi la confuse con la sua, contenente la sua preziosa sceneggiatura; poi, entrambi senza dire una parola, si diressero verso l’ascensore, e lo chiamarono. Fortunatamente era al secondo piano, per cui arrivò in battibaleno ed i due vi entrarono.
Il Rolex segnava le sette e sette. Robert si passò una mano tra i ricci, che aveva con tanta pazienza districato e riordinato prima di andare lì, e non poté fare a meno di pensare al vestito buono –di Prada, un regalo di suo padre- che aveva indossato per l’occasione e al discorso che si era preparato per l’incontro… istintivamente, diede un’occhiata ai pulsanti dell’ascensore… avrebbe soltanto dovuto premere il tasto numero cinque…
Sono affari suoi, non tuoi, rifletté tra sé e sé, Non è colpa tua se non conosce il luogo. Non ti riguarda se soffre di attacchi di panico.
Era vero, forse non gli riguardava, eppure non sarebbe mai riuscito a ignorare la situazione. E non era solo il senso di colpa a parlare, ma anche quella sorta di sentimento di lealtà e giustizia che non lo abbandonava mai e che fungeva da perno di ogni azione che compieva.
E forse, a dirla tutta, poteva aver giocato un ruolo non indifferente anche il sorriso della ragazza, nella scelta che stava per prendere. Un sorriso carino, tenero… Un sorriso quasi di bambina.
Con un profondo respiro, premette il dito contro il tasto luminoso che recitava “tre”. Le porte dell’ascensore si chiusero lentamente e la struttura metallica cominciò a salire pian piano.
Da quando l’aveva vista in volto ed il suo stomaco aveva deciso in maniera non troppo saggia di mettersi a ballare la samba, Robert stava sempre bene attento a non incrociare lo sguardo della ragazza, eppure, in quel momento riuscì a scorgere una nota di stupore formarsi sui suoi lineamenti.
“La accompagno”, la informò lui, prima che lei potesse porgli una qualsiasi domanda.
La nota di stupore si trasformò in una vera e propria espressione strabiliata e poco ci mancò che non spalancasse la bocca per la sorpresa. Non fosse stato che, sotto sotto, era molto nervoso, Robert avrebbe sorriso per quella reazione genuina, che mostrava più gratitudine di qualsiasi parola. “Non deve farlo, se è un problema”, mormorò allora lei.
Ovvio che era un problema. D’altra parte, Robert stava cominciando a realizzare qual era la semplice realtà dei fatti: stava perdendo l’incontro per cui si era preparato per settimane e settimane… e sperava che il signor Carson, in nome dei vecchi tempi passati al college con suo padre, gli concedesse una seconda possibilità. Odiava l’idea di ottenere un impiego grazie al cognome prestigioso della sua famiglia, ma non vedeva altre opzioni.
Sì, era un problema, ma c’era di più, dentro di lui –nel suo stomaco che continuava a tormentarlo, nella sua testa piena di pensieri e nelle sue tempie, che pulsavano forte. C’era una consapevolezza, dentro di lui:
non avrebbe mai potuto lasciarla sola, non dopo che l’aveva vista piangere, non dopo che l’aveva percepita così fragile tra le sue braccia, non dopo che l’aveva aiutata a rialzarsi, con un sorriso di ritrovata forza sulle labbra. Si stupì ed imbarazzò dei propri pensieri, che sembravano non appartenergli: sua madre diceva spesso che era un ragazzo fin troppo sensibile, ma lui non ne era certo. Non gli capitava mai di fare riflessioni di quel tipo.
“No, rimango”, si limitò a risponderle, guardando dritto di fronte a sé, sperando così di riuscire a nasconderle tutto il tumulto di emozioni che aveva dentro.
“Ma aveva detto di avere un appuntamento…”.
“Niente di importante”, liquidò la discussione lui, “Preferisco accompagnarla”. Prese lo smartphone dalla tasca della giacca e aprì la schermata dei messaggi. Cliccò sul contatto del signor Carson e prese a digitare:

Signor Carson, sono stato trattenuto e temo che non potrò venire al nostro incontro. Spero non sia troppo da chiedere, ma potremmo fissarne un altro? Sarebbe molto importante per me.

Sembrava il messaggio di un disperato, pensò, aggrottando le sopracciglia, ma, in fondo, un po’ disperato era… dunque, perché mentire?
Non appena le porte dell’ascensore si riaprirono con un cigolio, Robert si diresse subito a destra, oltre un corridoio piuttosto angusto che ricordava bene: quando era bambino e gli studios erano stati costruiti da poco, suo padre era solito portarlo a gironzolare per quella parte dello stabilimento.
“Perché è qui?”, le chiese, per rompere il silenzio interrotto unicamente dai loro passi.
“Sono un’aspirante attrice… ho un provino per un ruolo nel prossimo film di Dickie Merton”.
“Ah, Merton… punta in alto, dunque”, rispose ammiccando lui. Richard “Dickie” Merton era uno dei registi più importanti dell’ultimo trentennio britannico, ed aveva firmato diverse pellicole brillanti di critica sociale. Insomma, avere la possibilità di partecipare, o anche soltanto di provare a partecipare ad un suo film, non era cosa da poco.
“E lei, invece? Perché è qua?”, domandò poi la ragazza.
Non rispose. Non amava troppo parlare delle proprie aspirazioni, per cui finse di non aver udito e lasciò che il quesito aleggiasse tra di loro, mentre allungava il passo verso la meta. A fine corridoio girarono a sinistra, dove finalmente scorsero una porta con un cartello che recitava “Audizioni”. Ce l’avevano fatta.
Si avvicinarono e notarono una donna, un’assistente alta e dall’aria severa che teneva tra le mani un bloc-notes, probabilmente con all’interno tutti i nomi delle attrice che avevano tentato il provino. Robert decise di farsi da parte e lasciare che fosse la sua nuova conoscente a parlare.
“Scusi”, mormorò lei, rivolgendo alla serissima signora un timido sorriso, “Sono qui per le audizioni. Mi chiamo Cora…”. Prima che potesse concludere, la donna la interruppe con un gesto sgarbato. Robert, dal canto suo, l’ascoltò in silenzio e subito, non appena lei pronunciò sommessamente il suo nome, la sua testa cominciò a ripeterlo freneticamente, come per non dimenticarlo, come per imprimerlo con chiarezza nella sua memoria:
Cora, Cora, Cora… Un nome breve, dolce alla pronuncia, che si allungava al di fuori delle labbra per poi far spalancare la bocca, quasi in un sorriso.
“Credo tu sappia di essere in ritardo. E poi, c’è una ragazza prima di te”, borbottò contrariata l’assistente, controllando con aria nervosa il suo orologio da polso; un gesto che non passò inosservato agli occhi di Robert: chiaramente, la donna non vedeva l’ora di tornarsene a casa. “Sinceramente, non so se il signor Merton avrà tempo di vedere anche il tuo…”.
“Lo troverà”, esclamò improvvisamente Robert, quasi stupito dalla propria intraprendenza. Era suo padre quello che faceva sfuriate in pubblico… lui aveva sempre preferito starsene in silenzio. “Lo studio chiude alle otto e non sono neppure le sette e un quarto. Non vedo perché alla signorina dovrebbe essere negata la sua possibilità di ottenere la parte”.
L’assistente rimase senza parole per un istante, poi corrugò la fronte, piuttosto contrariata. Robert si contenne dall’impulso di deglutire nervosamente. “E lei sarebbe...?”, domandò la signora con freddezza, stringendo il blocco appunti contro il tessuto blue navy del tailleur.
Il figlio di lord Patrick Crawley, l’uomo che per primo ha permesso la costruzione di questo posto. Lo pensò, ma non disse niente. Non amava essere giudicato in base al suo titolo… e, per qualche ragione, non voleva che Cora scoprisse chi era.
“Soltanto qualcuno che crede che un lieve ritardo non sia una buona motivazione per negare a una giovane volenterosa la propria chance”, bofonchiò, stringendosi nelle spalle. Nel frattempo, la ragazza americana se ne era stata zitta al suo fianco, guardandosi la punta delle ballerine bianche. Che l’avesse messa a disagio insistendo così tanto perché fosse ammessa al provino?
“E va bene, si accomodi ed attenda il suo turno”, si arrese la signora, scuotendo il capo.
Robert si concesse un sorriso vittorioso, ma immediatamente si rabbuiò nel notare che Cora stava tremando appena. Tensione? Molto probabilmente sì. Sentì lo stomaco chiuderglisi al pensiero di vederla stare male di nuovo. Controllò ancora l’orologio da polso: erano le sette e venti. Tra cinque minuti, il signor Carson sarebbe uscito… e poi, ormai, aveva mandato il messaggio. Con un sussulto, ricordò di controllare il cellulare, che teneva perennemente in silenzioso –forse volontariamente, perché parlare attraverso quegli aggeggi invece che
vis a vis lo metteva sempre molto a disagio. Sbloccò lo schermo, sperando di trovarvi la notifica di un messaggio… invece, non apparve niente, se non il logo blu di Facebook che lampeggiava, per mostrargli che John lo aveva taggato nei commenti di una qualche foto. Ricacciò il telefono in tasca, sospirando: il signor Carson non aveva risposto. Non era un segno di buon auspicio.
Era preoccupato, ma a preoccuparlo ancora di più era il tremore che scuoteva quasi impercettibilmente il corpo longilineo di Cora. Deglutì: non poteva lasciarla da sola in quelle condizioni. Non adesso che il suo appuntamento era saltato. Non adesso che… che… il suo stomaco rispose ai suoi pensieri con l’ennesima sensazione di leggero prurito.
“La aiuterebbe se rimanessi con lei?”, le domandò impacciato, ma con quanta più decisione possibile, “Non vorrei… non voglio che si agiti di nuovo”.
Cora parve stranita. “Non deve sentirsi in obbligo…”, esordì, ma lui la interruppe.
“Finirei per preoccuparmi, altrimenti”, ammise, giocherellando con l’angolo spiegazzato della sua cartellina trasparente, “La prego, mi dica soltanto se l’aiuterebbe ad essere più calma”.
Lei arrossì fino alla punta delle orecchie. “Mi aiuterebbe moltissimo”.
“Bene, allora è deciso”, commentò lui, con quello che, probabilmente, doveva apparire come un sorriso piuttosto buffo, perché raccolse una dolce risatina di Cora.
Si sedettero uno di fianco all’altro nelle piccole sedie di plastica blu che stavano a lato del corridoio, poggiando le loro cartelline su un tavolino di finto legno. Robert la guardò, cercando di capire, dal linguaggio del corpo della ragazza, se davvero la sua presenza la stesse aiutando. Il modo in cui accavallò dolcemente le gambe e posò le mani sulle ginocchia con estrema naturalezza lo riempirono di un caldo e avvolgente senso di pace e di soddisfazione, un senso a cui non seppe dare razionale spiegazione.
“Può darmi del tu”, mormorò allora Cora, “D’altra parte, dovremmo essere più o meno coetanei”.
In realtà, lei doveva essere leggermente più giovane di lui, considerò Robert. Aveva un certo occhio, per questo genere di cose.
“Tesa?”, le domandò poi.
Lei annuì con il capo moro, ed i suoi boccoli si mossero delicatamente a tempo con la testa. “Abbastanza, sarebbe il mio primo ruolo. Ho passato tutta la vita preparandomi a questo momento. O meglio… è mia madre che ha passato gli ultimi ventitré anni della sua vita a prepararmi per questo momento”.
Il volto di Robert si fece interrogativo ed allora lei continuò a spiegargli: “Mia madre, da ragazza, voleva diventare attrice, è sempre stato il suo più grande sogno. Il destino, però, non le è stato affatto favorevole: era una ragazzina dell’Ohio, senza soldi né possibilità di viaggiare per fare provini e simili… ben presto, dopo una brevissima “carriera” in un teatrino di Cincinnati, ha dovuto abbandonare le sue aspirazioni e si è messa a lavorare come cameriera. È allora che ha conosciuto mio padre”. Fece una breve pausa per riprendere fiato e Robert non poté fare a meno di notare il dolce colorito roseo che le era comparso sulle guance nel parlare della sua famiglia. “Si sono sposati e, ben presto, l’impresa edile fondata da mio padre ha preso il volo. Infatti, siamo piuttosto facoltosi, per non dire ricchi… ma a mia madre non bastava, le mancava il suo sogno. E quindi ha deciso di farne anche il mio: da quando ho memoria, ho frequentato le più prestigiose scuole di recitazione e ho dovuto rinunciare ad ogni altri ambizione per perseguire lo scopo di diventare un’attrice professionista… con tutta la tensione che ciò comporta. Ho deciso di iniziare la carriera in Gran Bretagna e non negli Stati Uniti proprio perché volevo sfuggire un po’ dalle grinfie di mia madre”. Si fermò, scuotendo appena il capo. “Scusa, non voglio disturbarti con i miei problemi”, mormorò sommessamente, “Né voglio che tu pensi che recitare non mi piace. Mi piace molto… Soltanto, non credo che sia la mia vocazione. Ma non ho mai avuto il coraggio di dirlo a mia madre e la sua costante pressione non aiuta affatto a lenire lo stress”.
Un dubbio improvviso lo travolse. “È a causa di questa situazione che soffri di attacchi di panico?”, chiese, esterrefatto.
Cora scrollò le spalle. “Beh, non posso saperlo con certezza, ma… è probabile”.
Improvvisamente, si sentì protettivo nei confronti di quella ragazza che a malapena conosceva. Aggrottò le sopracciglia, scuro in volto, e lei parve immediatamente accorgersi del suo cambiamento d’umore. Sembrava accorgersi di tutto, in realtà.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”, domandò in un soffio.
Robert si riscosse… non voleva farla preoccupare. “Sì… cioè, no”, farfugliò, storcendo le labbra in una smorfia, “Soltanto… so come ci si sente ad essere sempre giudicati e controllati dai propri genitori. Definirla un’esperienza snervante non rende affatto l’idea”.
Stavolta fu il turno di Cora di aggrottare le sopracciglia, anche se Robert dubitava che anche lei si sentisse protettiva nei suoi confronti. “Anche tu non hai una relazione idilliaca con i tuoi?”.
“Diciamo che ho deciso di non continuare con lo storico mestiere di famiglia”, sentenziò.
Per il momento, avrebbe dovuto aggiungere, perché, in realtà, nessuno poteva scegliere di essere conte o viceversa. Lui era l’erede e, in quanto tale, prima o poi sarebbe stato anche un lord… già adesso i dipendenti di suo padre nella catena di hotel lo chiamavano “milord”, ma a lui andava più che bene essere semplicemente “Robert Crawley”, allo stato attuale.
“E cosa vorresti fare, invece?”, gli domandò allora lei, e per quanto si sarebbe dovuto aspettare un quesito del genere, che era la perfetta continuazione del punto della conversazione a cui erano arrivati, Robert si scoprì genuinamente stupito di quell’interesse. Forse perché nessuno glielo chiedeva mai, forse perché tutti davano sempre per scontato che sarebbe stato un possessore di hotel ed un conte e niente di più.
“Mi piacerebbe lavorare come sceneggiatore o regista”, mormorò, guardandola dritto negli occhi: erano blu, adesso ne era certo. Come diamine aveva fatto a non esserne sicuro fino a quel momento? Ad ogni modo, non era tanto il colore ad attrarre la sua attenzione, quanto la loro… espressione. C’era una sorta di luce, una specie di dolcezza, qualcosa di… maledizione, era un aspirante sceneggiatore ma non riusciva a trovare un termine per descrivere quegli occhi. Osservò coscienziosamente la cartellina trasparente che conteneva le sue parole, quelle parole che significavano così tanto per lui; aveva deciso, quella sera, appena tornato nel suo appartamento, avrebbe cercato la parola giusta, anzi, no,
perfetta, per descrivere quegli occhi. Ne andava della sua credibilità di “scrittore”.
“A dirla tutta, vorrei diventare sceneggiatore
e regista”. Tacque, stupito di averle rivelato il suo sogno nel cassetto con tanta leggerezza: certo, se era nei prestigiosi Carson Studios, era chiaro che non era proprio intenzionato a fare lo spazzino o l’avvocato, eppure era sempre piuttosto scettico dinnanzi all’opzione di aprirsi agli altri, soprattutto quando si trattava, appunto, di sogni nel cassetto. Forse perché i suoi genitori avevano sempre accolto i suoi desideri con prediche, grugniti e, di tanto in tanto, minacce di diseredazione. La solita routine, insomma.
“Un artista completo, praticamente”, commentò Cora con un ampio sorriso, lisciando distrattamente una piega del semplice vestito lilla.
Robert si limitò ad accennare una risata, scuotendo il capo riccio. “Direi che la parola
artista, per il momento, è decisamente fuori dalla mia portata”.
Le sue labbra si dischiusero in un altro dolce sorriso. “Non sono d’accordo”, ribatté pacatamente, “Il fatto che non sia affermato non significa che tu non sia già un artista”.
Arrossì al velato complimento, probabilmente perché non ne riceveva spesso… anche perché non faceva leggere i suoi lavori a nessuno. “Grazie”, mormorò, giocherellando con il bordo dello smartphone, “Ma non puoi saperlo”. Forse prima si era sbagliato, pensò, perché adesso non gli sembrava affatto una ragazza timida. Anzi, c’era una certa serena tenacia nelle sue parole, non tanto come se volesse imporre la sua opinione, ma come se sapesse che, con la gentilezza, si può convincere chiunque a cambiare idea… persino un inglese testardo come lui. Non in quel frangente, però: lui non era un artista e, probabilmente, mai lo sarebbe stato.
“Film preferito?”, domandò d’improvviso lei, arcuando entrambe le sopracciglia con aria di sfida.
Robert quasi scoppiò a ridere. “Mi stai mettendo alla prova?”, le chiese, ricambiando lo sguardo ironico della ragazza.
Cora si strinse nelle spalle. “Forse”, si limitò a controbattere, “Allora, qual è?”.
Divertito dalla situazione, fu il turno di Robert di fare il vago. “Indovina”.
La giovane donna roteò gli occhi ironicamente e incrociò le braccia. “Indovinare? Ma ci sono milioni e milioni di film al mondo! Come faccio a indovinare?”.
“Potresti partire escludendo
Sharknado o qualsiasi B-movie del genere”, propose lui.
“Non so neppure cosa sia, questo
Sharknado”.
“Beh, è un film che parla di un uragano formato da… ehm, non importa. Tu prova ad indovinare, dai”, la spronò ancora, curioso di vedere cosa si sarebbe inventata. Non riusciva a capire bene la ragione di tanta curiosità, in realtà, eppure non riusciva a trattenersi dall’essere eccitato come un bambino davanti ai pacchi regalo sotto l’albero di Natale.
La ragazza portò l’indice alle labbra, pensierosa. “Allora… allora…”, mormorò, “Sicuramente non sei il tipo da blockbuster alla Michael Bay, per intenderci. Non ti ci vedo che piangi per l’uscita dell’ultimo capitolo della saga di
Transformers”.
“Nemmeno io mi ci vedo molto”, sogghignò lui.
“Bene, e questa categoria è esclusa…”, continuò Cora, lanciandogli uno sguardo riflessivo, come se osservandolo potesse magicamente capire quale tra le tante pellicole rilasciate nella storia del cinema aveva segnato indelebilmente la sua vita. Robert si sentiva a disagio sotto osservazione come era e prese a fissare le proprie unghie, come se il modo in cui le aveva tagliate quella mattina fosse particolarmente interessante.
“Secondo me… secondo me…”, ripeté, come se d’improvviso avesse avuto un’illuminazione, “Beh, sei un ragazzo sensibile e giusto, con una vena ironica e malinconica… Secondo me… Sei un po’ il tipo da grandi film drammatici, pieni di pathos e tragedie. Una cosa alla
Lupo Solitario di Sean Penn, per capirci”.
Robert decise che era arrivato il momento di abbandonare l’attenta contemplazione delle sue unghie e, non appena udì il titolo che aveva nominato la ragazza, rimase stupito: non ci era andata affatto lontana. Si passò una mano sulla nuca, domandandosi imbarazzato se avesse sparato a caso, se fosse incredibilmente intuitiva o se, forse, aveva semplicemente scritto
Sean Penn a caratteri cubitali sulla fronte. “Non Lupo Solitario, ma Into the Wild”, ammise dunque, sorridendole timidamente, “Ma avevi praticamente azzeccato”.
“Perché proprio
Into the Wild?”, domandò.
“Mi piace… beh, molto banalmente, mi piace il messaggio e come si evolve man mano che il film va avanti. Dal farti desiderare una libertà assoluta e senza limiti, arriva a farti capire che…”, si fermò, dubbioso. Non voleva spiattellarle il messaggio finale del suo film preferito con assoluta nonchalance. “Lo hai visto, vero?”.
Lei rise. Era bello vederla ridere, in contrasto con lo stato in cui l’aveva trovata poco prima. “Sì che l’ho visto, non ti preoccupare”, rispose.
“Beh, arriva a farti capire che, senza qualcuno di caro accanto, niente ha senso. Neppure la libertà… soprattutto la libertà”, concluse, scrollando le spalle, “Un po’ patetico da parte mia, immagino”.
“Niente affatto…”, esclamò pensosa Cora, “Adesso è il tuo turno”.
“Come prego?”, domandò Robert, piuttosto confuso. Non era affatto certo di capire a cosa stesse facendo riferimento.
“Il mio film preferito”, spiegò lei, “Indovinalo”.
“Oh”, esclamò Robert, ridendo, “Ma io non sono intuitivo come te, non ho chance”. Quasi si era dimenticato dell’appuntamento, quasi si era scordato di aver perso un’opportunità importante; sicuramente non rimpiangeva di aver compiuto una buona azione… sicuramente non rimpiangeva di aver fatto la conoscenza della dolce espressione negli occhi di Cora. Quella sorta di solletico alla bocca dello stomaco tornò a tormentarlo dolcemente.
“Ti do un indizio”, lo aiutò lei, “Il mio regista preferito è un italiano”.
Fece un fischio di approvazione, ma prima che potesse azzardare una qualsiasi risposta –era più una persona da Federico Fellini o da Vittorio De Sica?-, la porta di fianco si spalancò, rivelando il volto di un giovane, forse l’aiuto regista, che si rivolse all’assistente. “Abbiamo finito?”, domandò, con l’aria di volersene soltanto tornare a casa.
“Ce n’è un’altra, in realtà”, mormorò l’assistente, indicando svogliatamente Cora.
L’aiuto regista fece un vago gesto con le mani, si chiuse nelle spalle e, senza troppo entusiasmo, si riferì a Cora: “Allora seguimi, vediamo di fare in fretta”.
Robert si alzò, aiutò Cora a fare altrettanto e si occupò gentilmente di prendere le due cartelline trasparenti dal tavolino, porgendole la sua. Era il momento di salutarsi, lo sapeva bene… e la cosa lo rendeva piuttosto malinconico.
“Buona fortuna”, mormorò allora, sorridendole incoraggiante.
“Grazie, ma credo che dovrò puntare su qualcosa di più che la fortuna. Magari sul talento, sempre che ne abbia…”, biascicò lei fuori dalle sue labbra rosee.
“Beh, a me piacerebbe molto averti come protagonista di un mio film”, bofonchiò Robert, senza neppure rendersi conto di quel che stava dicendo. Ma che gli era preso? Arrossì, affossò le testa nelle spalle e fece per abbassare lo sguardo, ma si fermò immediatamente: notò infatti che anche le orecchie della ragazza si erano rapidamente dipinte di una tenue sfumatura color porpora. Allora non era l’unico imbarazzato, pensò, concedendosi un fuggevole sorriso: la cosa lo sollevava e, al tempo stesso, lo stuzzicava. Non sapeva bene perché, ma si sentiva tacitamente soddisfatto.
“Grazie per essere stato con me”, mormorò lei, scostandosi i capelli scuri di lato, e cercò il suo sguardo, “Non è… non è da tutti. Anche perché devo esserti sembrata ridicola con tutto quel panico e quel pianto. E poi hai perso il tuo appuntamento”.
“Non era importante, te l’ho già detto”, ripeté lui, chiudendosi nelle spalle, ma lei doveva aver intuito che stava mentendo, perché gli rivolse uno sguardo al contempo grato e dispiaciuto, “E poi dubito che potresti mai apparire ridicola, ai miei occhi”, soggiunse.
“Ti devo un favore”.
“Non dirlo neppure per scherzo. È stato un piacere” borbottò, guardando ad intervalli regolari la punta delle sue Tod’s nere e le iridi azzurre di Cora. Non che avesse dubbi su quale delle due visioni fosse la più bella. “Soprattutto, è stato un piacere conoscerti”.
Lei arrossì e gli strinse appena la mano, con gratitudine. Poi si girò, prese un profondo respiro e scomparve con l’aiuto regista dietro la porta nera. Robert sospirò… per qualche istante, accarezzò l’idea di stare lì ad aspettarla, per sentire come era andata, ma poi ci ripensò: nemmeno si conoscevano davvero, in fondo, non voleva certo sembrarle pedante… anche se nella sua mente continuavano a rimbombare quelle due singole, semplici sillabe: Co-ra, Co-ra
, Co-ra…
Con un sospiro, tornò indietro verso l’ascensore e lo chiamò. Ne approfittò per dare un’occhiata allo smartphone e si stupì quando vide sullo sfondo il simbolo di un nuovo messaggio; con il cuore in gola, lo aprì. Era del signor Carson.

Va bene, figliolo. Ma posso vederti soltanto tra due settimane, mercoledì 16 settembre. Avrò circa un quarto d’ora libero dalle 17 alle 17:15. Non amo molto i contrattempi, ma so che sei un po’ come tuo padre, tu, e dei Crawley ci si può fidare. A presto.

L’ascensore arrivò e Robert vi entrò, premendo il tasto “T”: piano terra.
Era abbastanza chiaro come a Carson della sua sceneggiatura non fregasse assolutamente niente. Lo faceva come favore, come favore per suo padre. Niente di più.
Ripensò alle parole di Cora, a come aveva creduto in lui. Forse era stata la prima che, pur non conoscendolo, aveva creduto in lui. Mentre usciva dall’edificio e la brezza umidiccia del vento gli scompigliava i capelli, si ritrovò a pensare che, tutto sommato era stato fortunato.
Aveva perso un’occasione, sì, ma il signor Carson gliene aveva concessa un’altra. E, soprattutto, aveva avuto un’occasione ben più grande: quella di fare la conoscenza del sorriso di Cora.
Cullandosi in quel pensiero, afferrò le chiavi dalla tasca e si avviò verso l’auto. Non sapeva ancora che il fato stava per dare alla sua vita una piega del tutto differente.

  
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