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Autore: Marysia Lukasiewicz    25/07/2017    2 recensioni
Almaty, Unione Sovietica, giugno 1941.
Un gruppo di ribelli anti-sovietici kazaki approfitta dell'operazione Barbarossa per sabotare e danneggiare l'esercito russo. Tra questi spicca la figura del giovane Otabek Altin, reduce da un passato burrascoso proprio a causa dei sovietici, che combatte attivamente per la libertà del proprio paese. Obbiettivo principale dell'organizzazione ribelle è il colonnello Viktor Nikiforov. Uomo affascinate che, dopo essere stato esiliato dalla natia San Pietroburgo, venne messo a capo della città di Almaty, compito per lui estremamente umiliante. Aiutato dal caporale Jean-Jacques Leroy, giunto in Kazakhstan con la propria divisione direttamente dal Canada per fronteggiare i nazisti al fianco dell'esercito sovietico, il colonnello Nikiforov combatte strenuamente la resistenza kazaka per risanare il proprio orgoglio. Un amore proibito nasce, però, tra le due fazioni di una guerra senza fine. Yuri Plisetsky, nipote del colonnello Nikiforov, sedicenne scalmanato allontanato ingiustamente dalla propria città Natale quando ancora era bambino, troverà l'amore al fianco dello stesso Otabek, l'Aquila d'oro delle steppe asiatiche.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Georgi Popovich, Jean Jacques Leroy, Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Un tonfo secco, poi un gemito strozzato, poi ancora un colpo. Yuri si era chiuso in camera tutto il giorno, non aveva messo piede fuori dalla stanza neppure per mangiare. Non aveva il coraggio di incontrare lo sguardo dello zio, né poteva sopportare la vista delle bende attorno alla sua spalla. Aveva paura, Yuri, perché nonostante Viktor fosse vivo e vegeto, non poteva esserne sicuro per Otabek. Cercava non pensare al peggio, voleva distrarsi, ma ogni volta la sua mente tornava a soffermarsi sul massacro del giorno prima. Immaginava sangue e morte, il suo amico steso a terra assieme ai suoi compagni. Tremava, non voleva. Gli era già stato tolto molto nella vita, la casa, gli amici, i genitori, il nonno, non voleva perdere anche Otabek. Viktor non lo chiamò per il pranzo, i domestici non andarono mai da lui per vedere come stava, così Yuri si rannicchiò silenzioso tra le coperte, il ritratto della fiera Aquila d’oro lo scrutava dall’altra parte della stanza. Otabek l’aveva protetto, l’aveva salvato, e Yuri promise che avrebbe fatto lo stesso, avrebbe ricambiato il favore. L’avrebbe cercato e, se fosse stato ferito, l’avrebbe curato, l’avrebbe protetto dalla furia dello zio, l’avrebbe tenuto al sicuro sotto la sua modesta ala. Non avrebbe accettato l’idea della sua morte, non avrebbe sopportato anche quel dolore, quella perdita. Negli occhi di Viktor, il giorno prima, non aveva visto la benché minima traccia di amore o gentilezza, la sua voce graffiante aveva ferito Yuri come la lama di un coltello. Si sentiva solo, le coperte erano la sua fortezza. Aveva visto lo sguardo più crudele e spregevole del suo caro zio, aveva visto ardere in lui un fuoco devastante che mai aveva avuto la possibilità di conoscere, ma che il suo Otabek aveva già incontrato anni prima. Era diverso, suo zio, una bestia, Yuri non lo riconosceva. E come un cucciolo si sentiva smarrito, confuso, voleva solo che qualcuno lo salvasse ancora e ancora, voleva ritrovare la sua Aquila, il suo eroe, e proteggerlo. Cercò di dormire, di rilassarsi, ma quei tonfi, quei gemiti erano strazianti. Il prigioniero, l’unico sopravvissuto alla sparatoria, era arrivato in casa da poco, Viktor si stava occupando personalmente dell’interrogatorio. Yuri non aveva avuto il coraggio di uscire dalla stanza per vederlo, aveva paura. Se fosse stato Otabek, avrebbe dovuto patire atroci torture, peggiori ancora di una morte rapida in una sparatoria. Ma se non fosse stato lui, allora, secondo i rapporti, sarebbe dovuto essere già morto. E Yuri non si sentiva pronto per nessuna delle due situazioni, non aveva il coraggio di assistere a quella tortura. Viktor urlava, non distingueva le sue parole, ma era furente come non l’aveva mai visto. Il prigioniero gemeva, ma non si lasciava sfuggire una parola. Yuri stringeva il cuscino, si premeva le mani sulle orecchie. Sembrava di essere all’inferno, aveva paura. Paura che il suo caro eroe stesse soffrendo senza che lui avesse il coraggio di intervenire, di muovere un dito. Si sentiva impotente.
 

Nikiforov non poteva compiere grossi sforzi, il medico gli aveva perfino ordinato di rimanere a letto, ma non aveva dato ascolto a nulla e nessuno. Indossava una camicia larga, in cotone, morbida e comoda affinché la ferita facesse meno male. Il braccio era immobilizzato, avvolto in una candida fasciatura che si stringeva attorno al suo petto e alla spalla. I punti di sutura facevano male, la ferita continuava a sanguinare e a bruciare, ma Viktor quasi non se ne rendeva conto. Era stato umiliato, preso in giro, ridicolizzato da una banda di scalmanati kazaki. Li odiava, li odiava con tutta l’anima. Avevano rigirato il dito nella piaga del suo orgoglio già gravemente ferito e questo Viktor non poteva sopportarlo. Era arrivato ad Almaty con l’intenzione di dimostrare il proprio valore, il suo coraggio, nella speranza che venisse riammesso nella sua bella e amata Russia, con tutti gli onori, bramando il giorno in cui il governo avrebbe dovuto perfino porgergli le più sentite scuse. Le medaglie al valore sulla sua divisa erano solo una sciocca e amara consolazione, lui voleva di più. Voleva la gloria, la patria, il potere. E quel gruppo di scellerati ragazzini era riuscito addirittura a ferirlo, ad umiliarlo mille volte più gravemente di quanto avevano fatto i suoi superiori sovietici. Guardò quel maledetto ragazzetto negli occhi, il viso orrendamente maschiato dai lividi e dal sangue. Non avrebbe avuto pietà, Viktor. Né per lui, né per gli altri ribelli in circolazione. L’avrebbe fatto cantare, con le buone o con le cattive, avrebbe dato alle fiamme l’intera città se fosse stato necessario, ma avrebbe debellato quella fastidiosa feccia. Due militari percuotevano Georgi, e Viktor lo interrogava, gli poneva domande difficili e scomode. Il ribelle sputava sangue, il corpo pervaso da spasmi di dolore, ma teneva la bocca serrata, fedele al giuramento fatto alla propria bandiera. E più il giovane taceva, più Viktor s’innervosiva, più le percosse aumentavano e si facevano insopportabili. Il caporale Leroy assisteva, ma non interveniva. Per la prima volta dopo tanto tempo aveva ripreso in mano una bottiglia di vino.

- La tua base, quindi? – Viktor avvicinò intimidatorio il viso a quello del prigioniero, uno dei due militari gli strattonò i capelli, tirandogli in dietro la testa. Gli occhi sofferenti ed esausti s’incontrarono con quelli glaciali di Nikiforov.  - Dove vi nascondete, voi ratti del cazzo? – Georgi faticava a tenere gli occhi aperti, la tortura era stata lunga e sfiancante, ma quello sguardo penetrante e magnetico lo costringeva a rimanere cosciente. Ancora non rispose, tremava, non avrebbe retto a lungo tutto quel dolore, ma non avrebbe tradito i suoi compagni, né avrebbe messo in pericolo i suoi cari. Aveva accettato l’idea di morire oppresso da quel dolore insopportabile, doveva solo attendere.

Viktor attese una risposta che non arrivò mai, si era abituato, ormai, a tanta ostinatezza. Il militare gli lasciò i capelli, l’altro lo colpì al petto con una spranga di metallo. Georgi sputò sangue scarlatto, la vista gli si offuscò per il dolore. Viktor abbassò lo sguardo, il sangue di quel ribelle gli aveva sporcato le scarpe. Contrasse il viso in un’espressione di disgusto.

- Sangue fetido di gente fetida. – ringhiò come una bestia, poi fece segno ai suoi uomini di continuare a percuoterlo, senza pietà alcuna. Georgi svenne, soffocato dalle proprie urla di dolore, e per quella sera la tortura finì. La bottiglia di vino di Leroy era quasi finita.
 

Yuri si svegliò nel cuore della notte. Attorno a lui il buio e il silenzio più macabro la facevano sovrane. Le urla che avevano accompagnato il suo sonno erano cessate, nei corridoi non si sentiva volare una mosca. Era un bagno di sudore, Yuri, il respiro affaticato come dopo una corsa. Si era svegliato di soprassalto, terrorizzato da uno dei suoi soliti e vaghi incubi. Si teneva la testa tra le mani, si sforzò di ricordare cosa stesse sognando, ma come al solito non ci riusciva. Da quando era arrivato ad Almaty gli capitava ogni notte di avere incubi orrendi e macabri, ma non riusciva mai a ricordare neppure il più piccolo dettaglio. Appena riapriva gli occhi la sua mente debellava ogni spiacevole scena, e Yuri si ritrovava solo e confuso circondato dal buio. Raramente riusciva poi a riprendere sonno in fretta, spesso, anzi, rimaneva sveglio fino al mattino. Con gli occhi stanchi e smarriti, si alzò dal letto, i capelli dolcemente arruffati. Aprì appena la porta della stanza, dando un’occhiata al corridoio oscuro e deserto. Si voltò, dandosi un’occhiata alle spalle. Il ritratto di Otabek continuava a sorridergli. Yuri fece un respiro profondo, strinse i pugni e squadrò qualche attimo quel viso rassicurante. L’avrebbe protetto come lui aveva fatto. Allungò le mani verso la sua scrivania, prese una candela e l’accese con un fiammifero. Una flebile e calda fiamma illuminò vagamente la sua stanza, rendendola in qualche modo meno soffocante e cupa. Esitante mise piede fuori dalla stanza, scalzo, per non fare rumore. Un brivido gelido lo colpì, la notte in Kazakhstan diventava sempre più rigida. Scese piano gli scalini, l’orecchio attento ad ogni rumore sospetto, l’eleganza e la leggiadria di una fata sembravano quasi farlo volare. Una volta al piano terra si strinse nella vestaglia da notte, la casa vecchia era colma di piccoli spifferi gelidi. Il prigioniero era stato trascinato nell’ufficio di Viktor, dove a Yuri era sempre stato severamente vietato di entrare. Si avvicinò cauto alla porta, poi rigirò piano il pomello che si aprì senza problemi: non avevano sentito il bisogno di chiuderlo a chiave, brutto segno. Un leggero scricchiolio riempì il silenzio, ma Yuri non se ne preoccupò. La luce fioca della candela illuminò una figura contratta in una posizione schifosamente innaturale al suolo. Le gambe tirate al petto, nude, una misera tonaca strappata lo copriva appena. Era immerso in un bagno di sangue, il colore della sua pelle variava dal giallo spento al viola, poi al nero ed infine al rosso. Un braccio era orribilmente spezzato, il viso sfigurato e dilaniato appariva quasi irriconoscibile. Ma Yuri fece fatica a capire che quel prigioniero, che a detta di Leroy era l’unico sopravvissuto all’agguato, non fosse il suo caro Otabek. Un conato di vomito sorprese il giovane biondino alla vista di quel corpo distrutto, del sangue, delle ossa del braccio maledettamente esposte e maciullate. Barcollò, si poggiò una parete e dovette trattenere un urlo di disgusto. Si premette una mano sulla bocca, gli occhi gli si colmarono immediatamente di lacrime. Non era il suo Otabek ad essere stato massacrato come una bestia, non era il suo eroe a soffrire come un cane immerso nel suo stesso sangue. Yuri si sentiva sollevato, non avrebbe sopportato l’idea di vederlo soffrire in quella maniera, lui che l’aveva protetto. Eppure non riusciva a trattenere le lacrime, un’angoscia incontenibile gli strinse il cuore. Perché se Otabek non era lì, steso sul pavimento, poteva essere morto. Poteva averlo lasciato e Yuri non avrebbe mai avuto la possibilità di salutarlo un’ultima volta. Strinse i denti e soffocò singhiozzi e urla disperate. Aveva paura. La figura immersa nel sangue e nel buio emise un gemito strozzato appena si accorse della presenza del ragazzino, quest’ultimo indietreggiò inorridito. Cercò di illuminare di più la stanza, così riuscì a distinguere l’espressione disperata e supplichevole del povero ragazzo. Yuri si avvicinò piano, cauto, il prigioniero non riusciva a muoversi, il suo respiro era impercettibile e roco. Viktor aveva fatto lasciare, accanto al corpo, un secchio d’acqua ed un mestolo. Il biondino poggiò esitante la candela a terra, poi, compassionevole, si rivolse al povero prigioniero con tono quanto più garbato possibile.

- Hai sete..? – chinò il viso verso di lui, illuminato dalla candela, cercando di apparire più gentile che poteva. Provava una forte pena per quella povera anima, intrappolata in un corpo lacerato che non sarebbe mai tornato quello di un tempo. Voleva informazioni, voleva trovare Beka, ma anche il suo animo scalmanato e ribelle dovette piegarsi alla vista di quella sofferenza, in un puro e gentile atto caritatevole.

Il prigioniero annuì appena, quanto il dolore e le ferite gli permisero, ed emise un altro angosciante gemito straziato. Yuri prese il mestolo, lo riempì d’acqua, e lo accostò alle labbra del ribelle ferito. Questi, che aveva gli occhi gonfi e le labbra distrutte, riuscì a bere solo pochi piccoli sorsi, prima che il dolore straziante lo lacerasse. Yuri rimase immobile, le mani tremavano per l’orrore a cui stavano assistendo. Suo zio era stato davvero capace di ridurre qualcuno in uno stato talmente atroce? Aveva permesso, freddamente, che quel ragazzo venisse ridotto in una schifosa ed informe massa di ossa, carne e sangue e non aveva battuto ciglio. Yuri si rese davvero conto di non aver conosciuto suo zio, fino a quel momento. Non riusciva neppure ad immaginare quello che poteva essere successo ad Otabek durante la sparatoria.

- Come ti chiami? – chiese esitante Yuri, passandogli cautamente un panno bagnato sul viso, cercando di pulirlo dal sangue delicatamente. Il ragazzo ebbe un fremito, trattenne un gemito e strinse i denti in preda al dolore.

- G… Georgi… - sussurrò con un fil di voce straziato il prigioniero, Yuri fece quasi fatica a sentirlo nel silenzio della notte. Cercava di non guardarlo, inorridito dalle sue condizioni, provava tanta, troppa pena.

- Georgi…- ripeté Yuri a testa bassa. - Georgi, io non voglio farti del male.- balbettò poi il ragazzino, tentando di apparire più calmo e naturale possibile. Nella stanza aleggiava un nauseabondo odore di chiuso e sangue, Yuri non poteva nascondere un’espressione disgustata. Georgi non reagì, non ne aveva la forza, il suo respiro era lento e straziante. – Voglio sapere da te una cosa, solo una… In cambio farò per te tutto ciò che è mio potere.- sussurrò, in maniera che nessuno, nel silenzio della notte, potesse sentirlo. Gli occhi di Yuri risplendevano di una particolare luce, illuminati dalla fioca fiamma della candela, uno sguardo disperato che non poté sfuggire al prigioniero.

- D… dipende, ragazzo…- il tono del poveretto aveva un ché di dolorosamente ironico, quasi sprezzante, ma allo stesso tempo rassegnato e fragile. Gli occhi del biondo, spaventati, inorriditi, speranzosi, erano un incomprensibile miscela di emozioni tanto dolorose che Georgi non se la sentì di rifiutarsi. Nonostante fosse russo, parente degli uomini che avevano sterminato la sua gente e gli stavano lentamente strappando via la vita, che lo stavano scuoiando come fosse una bestia.

- Otabek… Otabek Altin, lo conosci? – la voce di Yuri era flebile, calma, le mani tremavano, terrore e angosce gli annebbiavano l’anima e gli frenavano la lingua, le parole trovavano morte nella sua gola. Aveva paura di essere scoperto, lì in quello studio. Ogni singolo muscolo del corpo dilaniato di Georgi si contrasse in uno spasmo, trattenne il respiro, gli occhi spalancati in uno sguardo timoroso e freddo. Non rispose. – Ti prego, dimmi come sta…- lo implorò Yuri come fosse un bambino, una creatura indifesa in cerca di calore. Nei suoi occhi brillava una disperata scintilla, ma Georgi la ignorò.

- Non… conosco nessun O… Otabek…-  nel suo cuore ardeva la fiamma di un solenne giuramento che aveva espresso accettando di sacrificare sé stesso, il proprio sangue, la propria vita. Fino alla morte, che vedeva farsi ogni attimo più vicina, avrebbe mantenuto il suo voto e avrebbe preservato quello stretto legame di innata fratellanza che si era unito nel popolo kazako. Non avrebbe mai lasciato un suo compagno, a prescindere dal rapporto che aveva con esso, nelle mani di uno sconosciuto e inafferrabile nemico.

- Ti prego… - a Yuri non sfuggì la peculiare reazione del prigioniero, quel fremito al sentir pronunciare il nome del ragazzo. Era disperato, il biondo, e glielo si leggeva in faccia, nella voce, nel tremore che gli torturava le mani, le braccia e le dita. Occhi vuoti, ricolmi solo di un soffocante strato di calde e salate lacrime, che il suo orgoglio da adolescente ribelle non gli permetteva di esporre. Georgi, che aveva conosciuto la disperazione in ogni sua più deforme essenza, non poteva, non riusciva ad ignorare quella preoccupazione sincera e pungente che riempiva il suo sguardo e le sue parole. – Voglio solo sapere se sta bene… - Yuri era confuso, si sentiva vuoto, diverso. Il peso della sua anima era diventato improvvisamente più pesante e il suono dei suoi pensieri era cambiato in una melodia armoniosamente straziante. Aveva dimenticato il sapore dolciastro di quelle parole supplichevoli, quel “ti prego” aveva un retrogusto assai amaro e vomitevole. Era stato forte per tutti quegli anni, chiuso in una corazza tanto spessa quanto estremamente fragile e vulnerabile. La felicità, il tanto ardito desiderio di affetto e amicizia, erano un nemico per lui, un ostacolo che era riuscito ad abbattere quando era ancora un bambino dalle guance rosee e l’innocenza negli occhi. Aveva allontanato la felicità perché aveva paura di perderla ancora, aveva paura che il calore di un abbraccio lasciasse in lui il freddo gelido che troppo gli ricordava la sua lontana patria. Percepiva un brivido quando ripensava al volto del nonno, che ancora lo attendeva in Russia. Erano passati anni, eppure i lineamenti del suo volto, duri e scolpiti, non accennavano a sbiadirsi nella sua mente. Ricordava il suo sorriso e le sue carezze con una nota di malinconia che di speranza aveva ben poco. Quando ripensava al suo calore temeva di non riaverlo mai più, nella sua mente si era aperto un vuoto. C’era qualcosa, nella sua infanzia, che non ricordava. Un lasso di tempo che per quanto si sforzasse non riusciva a rivivere. Ed era in quel periodo di buio che improvvisamente si era ritrovato lì, in Kazakhstan, senza amore e senza felicità. Non gli era mai importato nulla di nessuno, se non di se stesso, perché sentiva che a nessuno importava di lui. Otabek si era sacrificato per salvargli la vita ed era stato con lui gentile e premuroso. A Yuri, per la prima volta dopo anni, importava davvero di qualcuno.

- Non è morto… - Georgi distolse lo sguardo, il viso completamente gonfio e lacerato dalle torture che i sovietici gli avevano inflitto bruciava come l’inferno. L’aveva visto bene quello sguardo addolorato di Yuri e aveva capito fin da subito che non era malvagio, neppure una spia. Non aveva il coraggio di tacere davanti a quel ragazzino tremante di ansia e paura. Sapeva che non era morto, ne era sicuro. L’aveva portato frettolosamente al riparo, trascinandolo con le poche forze rimaste dietro parte della barricata. Quando l’avevano catturato respirava ancora, ma i sovietici non se n’erano accorti. La ferita sembrava talmente tanto grave che anche solo l’idea che fosse riuscito a sopravvivere sembrava ridicola. Eppure Georgi sentiva che fosse ancora vivo, era sicuro che avrebbe retto quel poco che bastava prima che i capi dell’organizzazione lo trovassero e lo curassero. Non lo conosceva bene, ma gli era stato subito chiaro che fosse un soldato impeccabile e indistruttibile. Non si sarebbe arreso alla morte così, senza essere riuscito a portare a termine la sua vendetta. – Ma… non ti assicuro che stia bene…-

- Dov’è? Voglio vederlo… - Yuri continuava ad avere paura, a temere per Otabek, suo eroe. I soldati di suo zio erano precisi e puntuali tanto quanto lui, non avrebbero mai sbagliato un rapporto. Otabek era lì, in strada, in mezzo alla sparatoria, le parole di Georgi ne erano state la conferma. Se nei rapporti non risultavano sopravvissuti, doveva essere successo qualcosa di fin troppo grave. Voleva vederlo.

- Non posso dirti altro… capiscimi…- Georgi aveva le mani legate, non poteva tradire i segreti della sua organizzazione. Provava una pena immensa per lui, per il suo compagno ferito, ma l’orgoglio e l’onore gli bloccavano le parole in gola. Di lì a poco l’avrebbero ucciso, lo sapeva benissimo, non voleva morire col disonore. Yuri esitò, poi ebbe un fremito. Otabek gli aveva curato il polso, gli aveva dato il suo bracciale, l’aveva sorretto quando era stato ferito. Non accettava l’idea di non riuscire a ricambiare quel gesto. Non riusciva a perdonarsi la consapevolezza che gli uomini di suo zio l’avessero ferito, non accettava l’idea di non riuscire ad aiutarlo.

- Lui mi ha salvato la vita… - Georgi sussultò sorpreso a quelle parole. Yuri sperava capisse che poteva avere fiducia in lui, che la sua unica intenzione era ripagare Otabek del bene che gli aveva fatto. Il prigioniero ebbe una fitta al cuore, il suo compagno doveva essere un ragazzo davvero meraviglioso. Avrebbe voluto conoscerlo meglio, era felice di aver combattuto l’ultima battaglia della sua vita accanto ad un giovane tanto rispettabile.

- Vicino alla cattedrale… - si decise nuovamente a parlare il prigioniero, ormai sempre più debole e volubile. Gli stava estrapolando più informazioni lui con i suoi occhi innocenti che i soldati con la violenza. – C’è un panificio… La proprietaria, Irina… chiedi a lei. – Yuri sollevò lo sguardo verso di lui, improvvisamente una scintilla di gratitudine si accese in lui, era raggiante, per quanto fosse possibile. Georgi vide gli occhi vivaci di un sedicenne tranquillo e spensierati, gli stessi occhi che doveva aver visto Otabek.

- Grazie! Grazie mille! – Yuri voleva urlare di felicità, ma non poteva permettersi di essere scoperto. Voleva vederlo, ringraziarlo ancora e ancora e poi ricambiare quel bene che gli aveva fatto. Voleva stringergli la mano e gli sarebbe stato accanto finché non fosse guarito, qualsiasi male avesse lo avrebbe aiutato. Questo suo irrefrenabile affetto che provava verso il suo eroe stava andando perfino oltre il semplice senso del dovere. Voleva renderlo felice dopo che aveva visto il rancore e la tristezza nei suoi occhi.

- P… Però ti prego… - Georgi riprese a parlare, sempre più affaticato, sempre più sofferente, il sangue che scorreva lento e inesorabile sul pavimento era arrivato a sporcare i pantaloni del pigiama di Yuri, il biondino non se n’era neppure reso conto. – Fammi un favore… uno solo… - faceva sempre più fatica a tenere gli occhi aperti, era stanco, debole, ma s’imponeva di resistere. Voleva fidarsi di quel giovane dal viso fin troppo innocente per quel mondo, voleva fidarsi perché non aveva più nulla da perdere ormai. Yuri lo ascoltava attento, euforico, avrebbe fatto tutto quello che era il suo potere per ringraziarlo. – Vicino alla moschea… c’è un negozio di giocattoli. – respirava sempre più lentamente, sapevano bene entrambi che il tempo che gli rimaneva da vivere in quella casa era ormai quasi esaurito. Ma voleva liberarsi di quel peso, Georgi, voleva morire con la coscienza apposto, senza più segreti. – Ci lavora una ragazza… Bella, bellissima… Ha i capelli rossi. – la voce spezzata del disperato prigioniero si fece d’un tratto più tenera, pacata, delicata nonostante tutto il dolore. I suoi occhi avevano ancora la forza di brillare al ricordo del viso dolce della sua giovane amica e compagna di vita, con la stessa luce che ardeva negli occhi di Yuri al pensiero del suo eroe. – Si chiama Mila… Voglio solo che tu le dica… che sono morto con onore, ok..? – Yuri distolse lo sguardo e strinse i pugni. Sarebbe morto, morto con onore, probabilmente non avrebbe superato la notte e lui se ne stava lì a strappargli via informazioni. Avrebbe voluto aiutarlo davvero, ma non poteva fare altro se non ascoltarlo ed esaudire il suo ultimo flebile desiderio.

- Lo farò… Georgi…- Yuri esitò, ma era sicuro di sé, avrebbe rispettato il suo volere, avrebbe ricambiato il suo aiuto con un gesto disperato e gentile. Non era da lui, ma l’avrebbe fatto.

- Magari… - intervenne ancora Georgi, la notte stava passando in fretta e Yuri doveva tornare a letto, ma rimase ad ascoltarlo fino alla fine. – Portale una rosa… rossa…- il prigioniero aveva lo sguardo colmo di una malinconia che il fragile biondino non riusciva a sopportare. Avrebbe voluto parlare dal vivo, Georgi, rivelarle il suo amore col cuore in mano e magari sposarla, vivere con lei e renderla felice. Probabilmente era il suo unico vero rimpianto, l’unico fardello che si sarebbe portato nell’aldilà. Era stato un codardo, un vile. Aveva combattuto battaglie feroci, s’era fatto torturare a morte, ma non aveva avuto il coraggio di amare la sua cara amica come meritava. Sognava le sue labbra che non avrebbe mai avuto. Avrebbe sofferto, la bella Mila, della sua morte. E Georgi non poteva perdonarselo. – Dille di sorridere… ok?- detto ciò sospirò, chiuse gli occhi, e si addormento in bilico tra la vita e la morte, aggrappato con le ultime forze al ricordo della rossa più bella di tutta l’Unione Sovietica, la sua eterna amata che mai più avrebbe rivisto. Voleva morire così, in quel momento, con l’immagine di una Mila felice impressa nella mente, assistito da un giovane tanto fragile quanto coraggioso. Yuri, dentro di sé, sperò che non superasse la notte, che suo zio non gli infliggesse più quelle ingiustificate torture crudeli. Sperò che per lui il male finisse il prima possibile.

Risalì in camera quando ormai mancava poco al sorgere del sole, a passi cauti e silenziosi, nessuno si era reso conto delle sue azioni. Una volta stesosi sul letto tirò un sospiro profondo e gli salì un groppo asfissiante alla gola, quasi a soffocarlo. Nonostante la guerra fosse vicina, nonostante avesse sempre vissuto sotto un regime duro e temibile, non aveva mai assistito a nulla di simile fino ad allora. O almeno non era in grado di ricordarlo. Quel corpo dilaniato, abbandonato al proprio destino, gli occhi ardenti di suo zio, non aveva mai conosciuto davvero il male che lo circondava. E si sentiva a disagio, si sentiva in gabbia, usato e rotto, aveva paura. Non voleva che tutto quello diventasse la sua quotidianità, non voleva accettare quella realtà che aveva sempre tentato di ignorare. Aveva creato il suo piccolo e gradevole mondo isolato e calmo, che in pochi giorni si era spezzato e l’aveva riportato alla cruda realtà. Stupri, attentati, torture, era un mondo che non aveva mai desiderato conoscere. Giunto nella sua stanza notò di essersi orribilmente sporcato i pantaloni del pigiama di sangue. Nella fretta, nell’ansia, nel dolore, non se n’era neppure reso conto. Se li sfilò, li nascose sotto il materasso con l’intenzione di provare a lavarli di nascosto il giorno dopo. Se mai l’avessero scoperti sarebbero stati guai seri, davvero troppo seri. Se ne mise un altro paio, non diede neppure troppo peso alla cosa. Fremeva, aveva qualcosa, una pista, una speranza, era troppo emozionato per badare ad altro. Si rimise a letto, ma non chiuse occhio, non ci riusciva. Troppi pensieri ad affollargli la mente, l’entusiasmo, l’ansia, la paura. Stava cercando di ricordare dove fosse il fioraio più vicino, quello che aveva le rose più belle di tutta Almaty, le più delicate e splendide. La prima cosa che avrebbe fatto il giorno dopo sarebbe stata parlare con la misteriosa Mila. Lo doveva a Georgi, lo doveva alla sua anima in pena. Chiuse gli occhi, aspettava solamente il sorgere del sole.
 
Nella stanza accanto, intanto, neppure Viktor riusciva a dormire. Aveva sentito la porta del nipote scricchiolare nel cuore della notte, poi i suoi passi leggeri e eleganti allontanarsi lungo le scale. Di norma di chiunque si sarebbe insospettito, ma non Nikiforov, non il premuroso zio che nutriva nel nipote fin troppa fiducia. Non era la prima volta che Yuri, durante la notte, sgattaiolava fuori, in veranda, a guardare le stelle. Non era la prima volta che lo vedeva soffrire nella solitudine del loro esilio e non aveva mai il coraggio di rimproverargli nulla. Neppure in quella notte assetata d’odio e di dolore, neppure mentre il dolore dell’umiliazione gli lacerava la spalla, poi l’anima, e infine gli anneriva il cuore. Covava odio e rancore, Nikiforov, ma amava suo nipote, lo aveva sempre amato. Aveva accettato quella vita per lui, quel disonore, non aveva la forza di fargli del male.
   
 
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