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Autore: Laylath    27/07/2017    3 recensioni
(Seguito di Un anno per crescere).
Da quel fatidico anno che unì in maniera indissolubile un gruppo di ragazzi così diversi tra di loro, le stagioni sono passate per ben cinque volte.
In quel piccolo angolo di mondo, così come nella grande città, ciascuno prosegue il suo percorso, tra sorprese, difficoltà, semplice vita quotidiana. Si continua a guardare al futuro, con aspettativa, timore, speranza, ma sempre con la certezza di avere il sostegno l'uno dell'altro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 28. Caino e Abele.

 


 
 
Che Kain rimuginasse sul fatto che qualcosa non andasse era inevitabile e di certo la situazione a casa non lo aiutava. Sentiva che la tensione si poteva tagliare con un coltello, come se tutti fossero in attesa di un qualcosa che temevano, ma non potevano evitare: ogni giorno che passava era sempre peggio.
All’apice di questo clima così difficile si era persino confidato con Roy, uno dei pochi ad essere stato messo al corrente della situazione, e con lui era riuscito a dare un minimo di voce ai suoi pensieri.
“È che da un po’ non mi riconosco più: sento che c’è qualcosa di sbagliato a casa e forse il problema sono io. Lo so che è una cosa sciocca da pensare, talmente sciocca che sei il primo con cui ne parlo, ma non riesco a levarmi quest’idea dalla testa. Ti giuro che ci sono momenti vorrei prendere il treno e partire”.
“E pensi che andare via da qui sia la soluzione migliore?”
“Quando non ti riconosci più parte di qualcosa, dovrebbe essere una soluzione più che accettabile, no?”
“Diamine, nano, con tua madre in quelle condizioni? Non è da te lasciarla sola in un simile frangente”.
“Se non ci fossi io le cose sarebbero più semplici, me lo sento”.
“Perché dici questo?”
“Perché credo che i miei genitori mi vedano come il colpevole di questa gravidanza difficile. Riza ti ha detto anche di questo dettaglio? Anche la mia gravidanza è stata un disastro e sono nato settimino: per poco io e la mamma non siamo morti nel parto. E se…”
Non aveva aggiunto altro, sentendosi confuso da quelle sue stesse confessioni, ma per qualche minuto si era sentito in qualche modo confortato dal rispettoso silenzio di Roy. Ma quell’ultimo “e se…” che non aveva trovato conclusione continuava a tormentarlo come un pugnale conficcato nello stomaco che a intervalli sempre più ravvicinati si rigirava con violenza.
 
Uno degli effetti principali di questo invisibile pugnale era che Kain trovava estrema difficoltà ad interagire con sua madre.
Ellie aveva iniziato a prendere le tisane che le aveva dato Elisa, dicendosi che non erano un vero e proprio farmaco e che dunque non avrebbero in nessun modo ostacolato il corso della natura, qualunque esso fosse. Se avevano l’effetto di calmarla e dunque far star meglio anche il suo corpo era un qualcosa che andava oltre la sua gravidanza. Ovviamente questa era la giustificazione ufficiale che aveva dato a suo marito e a Riza, ma soprattutto a se stessa. Dentro di sé, per quanto si maledicesse ogni volta che aveva il coraggio di ammetterlo, aveva preso l’ardua scelta di dare un minimo di possibilità alla piccola vita che stava crescendo dentro di lei. E se ogni giorno che passava le sembrava una piccola vittoria, non poteva fare a meno di dirsi che era una sciocca ad essere caduta in pieno in quell’illusione: sapeva che si stava solo ritardando di poco l’inevitabile.
“Comunque anche oggi sto molto bene, tesoro, non devi preoccuparti” lo disse con un sorriso sereno a Kain, la settimana successiva al dialogo che quest’ultimo aveva avuto con Roy.
Era raro che riuscisse a passare un po’ di tempo sola con lui: Andrew e Riza facevano gara per starle accanto e sembrava che fosse lo stesso ragazzino ad avere una strana remore a trovarsi in sua compagnia. Lo si intuiva da come se ne stava seduto rigidamente sul bordo del letto: l’aveva invitato a sdraiarsi accanto a lei com’era solito fare, ma aveva ottenuto un rifiuto, accompagnato dalla flebile giustificazione che non voleva in nessun modo disturbarla.
Ellie avrebbe desiderato con tutta se stessa sentirlo abbracciato a lei, sentire quel contatto fisico che fino a qualche settimana fisica era una cosa quasi scontata. Scoprire che il proprio figlio aveva paura di toccarla la faceva sentire strana, come se gli stesse in qualche modo venendo meno.
“Sicura? Mi sembri pallida” la voce di Kain era deliberatamente bassa, come se avesse timore di esprimere troppo, di farsi cogliere in fallo. Era come se fosse obbligato ad una sgradevole recita che non sapeva gestire.
“Certo, mi alzerei anche, ma come ben sai devo stare sdraiata”.
Il ragazzo annuì, ma non disse altro, anzi distolse lo sguardo per posarlo sul pavimento.
“Ehi, pulcino – lo richiamò Ellie – cosa c’è?”
Gli occhi scuri di Kain tornarono a fissarla, un universo di domande che desiderava ardentemente avere il permesso di uscire. Ed effettivamente le labbra si schiusero in un primo accenno di parola, ma poi si tirarono in uno strano sorriso.
“Niente, è che non voglio disturbarti troppo”.
Un muro.
Tra lei e suo figlio c’era un tremendo muro e questo non era tollerabile per Ellie.
“Ascolta, vuoi posare una mano sulla pancia e provare a sentire il tuo fratellino?” gli chiese, scostando le coperte dalla sua pancia.
Era una proposta temeraria, un gesto che sarebbe stato meglio non permettere mai e poi mai. Da una parte sarebbe stato molto più saggio impedire il minimo contatto tra quei due fratelli che con tutta probabilità non si sarebbero mai incontrati. Ma Ellie aveva sentito l’urgenza di trarre di nuovo Kain dalla sua parte, di avere un contatto fisico che le mancava troppo.
E dopo una lieve esitazione lui annuì e posò la sua mano sul ventre materno.
Fu un’esperienza surreale per la donna. Aveva sentito il suo ventre toccato da Elisa, da Andrew e persino da Riza, ma quel contatto era totalmente diverso. La mano di Kain era caldissima, in qualche modo riusciva a superare  la sua camicia da notte: sentì quell’impronta sulla sua pelle e fu certa che arrivò anche al piccolo dentro di lei.
Se solo non fosse andata così – si disse la donna, trattenendo il fiato davanti a quella sensazione piacevolmente bruciante, certa che i due fratelli fossero in contatto in una strana ma tangibile maniera – se solo questo mio corpo fosse stato più forte.
“Lo senti?” gli chiese con un sussurro.
“Sento la tua pancia – ammise lui, ritraendo la mano – forse è troppo piccolo perché si muova”.
“Beh, ormai sono nel quarto mese, ma è vero che non è ancora così grande per far sentire troppo la sua presenza”.
“Mamma, tu… insomma tu – Kain scosse il capo, alzandosi in piedi. Sembrava che quel contatto l’avesse turbato più del previsto – per te va tutto bene, vero? Insomma col bambino e… e con me, no?”
“Ma certo, tesoro! Che cosa ci dovrebbe essere che non va tra noi?”
“Non lo so – confessò lui con desolazione – solo che… che non mi piace vederti stare male”.
E senza attendere risposta andò via dalla stanza materna.
 
Per quanto la famiglia avesse cercato di proteggerlo, Kain aveva intuito che la gravidanza di sua madre era destinata a non andare a buon fine. A scuola divenne silenzioso, persino scontroso, tanto che la stessa Janet si offese e decise di non fare più la strada assieme a lui. Ma non si rendeva conto di questi cambiamenti esterni.
Man mano che questo senso d’angoscia si faceva più forte, prese ad uscire anche i pomeriggi, quasi volesse evitare di essere presente quando sarebbe accaduto l’inevitabile.
Un paio di giorni dopo approfittò dell’arrivo di Elisa per andare a prendere le tisane che la giovane dottoressa aveva dimenticato in ambulatorio.
E fu un vero colpo di fortuna per tutti perché una decina di minuti dopo la sua uscita iniziò l’aborto.
Ellie si ricordava molto bene dei dolori del parto di Kain, in particolare ancora la tormentava la prima fitta che era arrivata in maniera così improvvisa e violenta che l’aveva costretta a piegarsi in due come se fosse stata colpita da un pugno.
Questa volta, al contrario di tutti gli altri aborti, la contrazione arrivò in modo simile a quella che aveva dato inizio al disastroso parto di Kain.
Fu un attimo e nel suo viso tirato apparve una smorfia di dolore che la costrinse a piegarsi in due, proprio come quella volta, e a portarsi una mano sul ventre.
Stupida! Stupida! Stupida! – gridò mentalmente, mentre cercava di recuperare fiato davanti a quel dolore – Che cosa speravi di fare?
“Andrew!” ansimò con disperazione.
“Che cosa succede? – chiese subito Elisa, accostandosi alla sua paziente – è una contrazione?”
“Andrew! – chiamò di nuovo la donna, scuotendo il capo – Per favore, Riza, chiama Andrew!”
“Subito, mamma!” annuì la bionda, scuotendosi dal terrore per quell’improvviso cambiamento.
“Va bene – cercò di calmarla la dottoressa, scostando le coperte dalla sua figura – magari è solo un falso allarme, possiamo provare a…”
“È perduto… perduto! – singhiozzò Ellie, libera da quel primo dolore, ma consapevole che presto ne sarebbe arrivato uno nuovo – lo è sempre stato…”
“Ma no, non possiamo partire…”
“… Andrew, dov’è Andrew?”
“Ellie!” arrivò immediatamente lui, spalancando la porta e accostandosi alla moglie. Le prese le mani e la baciò con tenerezza in fronte: il suo viso era una maschera di sofferenza, eppure traspariva una grande tenerezza nei confronti della donna.
“Mi dispiace – le lacrime colavano senza parere sulle guance di lei – io… io ti giuro che ci ho provato!”
“Ehi, meraviglia – le sussurrò lui, spostando le mani per prenderle il viso – sono qui con te, non temere. Andrà tutto bene, coraggio. Non ti lascerò mai, Ellie Lyod, per nessun motivo al mondo”.
“Il nostro bambino…” mormorò la donna serrando gli occhi.
“Mi dispiace, amore… ti giuro, mi dispiace io…”
Dannazione! – sibilò Elisa, mentre una nuova contrazione faceva gemere la gestante – Riza, prendimi subito degli asciugamani! Devo provare a bloccare l’emorragia. E prendimi la valigetta, le somministrerò…”
“Niente!” la bloccò Ellie, dimenticandosi del dolore per fissarla con occhi lucidi.
“Niente? – la guardò stranita Elisa – Possiamo provare a bloccare le contrazioni e…”
“Non c’è niente da fare – sospirò lei, posandosi pesantemente contro Andrew, quasi a chiedergli forza – non… non lo sento più… non…”
Avrebbe detto altro, ma ci fu una nuova contrazione. Meno forte della prima, ma più prolungata e in qualche modo profonda: Ellie emise un lungo e straziante gemito, le sue mani che sbiancavano nel tenere stretta la camicia del marito.
“Sta già uscendo, vero?” chiese l’uomo.
“Sì – ammise Elisa, prendendo degli asciugamani e accogliendo quella creaturina che scivolava fuori dal grembo materno senza nessuna difficoltà – è… è minuscolo”.
Le mani della dottoressa tremavano mentre avvolgevano quel fagottino e lo sollevavano.
“Si… si muove…” balbettò Riza che era tornata e assisteva incredula ed inorridita a quella scena, tenendo ancora stretti a sé alcuni asciugamani puliti.
“È vivo, certo, andava tutto bene fino a cinque minuti fa… lo… lo volete tenere? Io… mi dispiace, morirà nel prossimo minuto, non ha gli organi sviluppati per…”
Ellie si posò tra i cuscini, incredula che i dolori del parto fossero già terminati, ma subito tutta la sua attenzione si rivolse al minuscolo bimbo che stava in braccio ad Elisa, così piccolo da non vedersi minimamente in mezzo all’asciugamano. L’unica sua traccia era il cordone che ancora era attaccato, una strana e sanguinolenta corda che non era riuscita a tenerlo aggrappato alla vita.
“Il mio piccolino – tese le braccia con voce rotta – ti prego, dammelo”.
Nessuno si chiese se era il caso di far vivere a quella donna un’esperienza così tremenda come la visione di un feto che annaspa disperatamente alla ricerca di un’aria che ancora non è in grado di respirare. Non ci fu esitazione in Elisa: con dolcezza passò il bambino alla madre e si alzò dal letto.
“La placenta è già espulsa – mormorò, accostandosi a Riza ed incitandola ad uscire – se usciamo per un minuto non succederà nulla. Vieni…”
La bionda si limitò ad annuire con le lacrime agli occhi.
 
Quando Kain era nato era così piccolo da poter stare nel palmo delle mani del padre.
Questo nuovo bambino era così minuscolo che un’unica mano materna era sufficiente ad accoglierlo. Nonostante questo era già incredibilmente umano: braccia, mani, testa, gambe, piedi… sebbene le dita non fossero ancora del tutto evidenti. Nella testolina poi, i tratti somatici non erano ancora del tutto sviluppati: un accenno di nasino, degli occhi e delle labbra che avrebbero avuto bisogno di più tempo per decidere se somigliare a quelle materne o paterne.
“Va bene, è maschio…” mormorò Andrew, sistemando meglio l’asciugamano intorno a quella creatura che si muoveva leggermente.
“Piccolino – sussurrò Ellie, trovando il coraggio di posare l’indice su quella manina minuscola. Forse si aspettava un miracolo, quel semplice riflesso per cui le dita dell’infante si stringono attorno alla presa, ma poi si rese conto che quella manina rossastra non era in grado di compiere un gesto simile – Andrew… Andrew… perché ci è successo questo? Io non… non…” scosse il capo con sfinimento e si accomodò meglio tra i cuscini, tenendo stretta la sua creatura, posandosela sul petto e accarezzandola con delicatezza.
L’uomo non rispose, non potendo trovare una minima spiegazione a quella grandissima bastardata che la vita aveva appena fatto loro. Li aveva fatti illudere il tanto giusto, facendo sviluppare il bimbo persino il tanto da poterne sapere il sesso: oltre al danno la beffa, come ad aggiungere un nuovo pugnale a delle anime già straziate.
Ha diritto di essere seppellito in cimitero? – si trovò a chiedersi, mentre osservava il suo secondogenito smettere di muoversi dopo nemmeno due minuti di fragile e sofferente esistenza.
Per un meccanismo di difesa, non riuscendo ad affrontare quella visione troppo a lungo, chiuse gli occhi e riportò alla memoria l’immagine di Kain neonato che, dopo alcuni giorni di esitazione, apriva finalmente gli occhi. Occhi di un azzurro cupo meraviglioso, destinati poi a diventare neri dopo il primo anno.
 
In quel medesimo istante proprio gli occhi neri di Kain leggevano con ansia le ultime righe di una vecchia relazione medica che lo riguardava, la scatola con le tisane dimenticata nella scrivania dell’ambulatorio.
Era entrato qualche minuto prima, chiamando il medico, ma scoprendo che non c’era nessuno. Tuttavia Elisa gli aveva detto che la scatoletta stava sopra la scrivania e così aveva deciso di superare la piccola sala d’attesa e di entrare nella sala visite vera e propria, con l’intenzione di prendere il medicinale e andare via.
Ma come aveva allungato la mano per prendere la scatolina di cartoncino, il suo sguardo era caduto su dei fogli leggermente ingialliti che stavano sotto di essa e subito aveva letto il suo nome.
“… conseguenze permanenti nel grembo materno… – lesse con un sussurro, mentre arrivava alle ultime righe – impossibilità di portare avanti una gravidanza oltre il secondo/terzo mese…”
Qualche altra annotazione, la firma del vecchio dottor Lewis, e poi c’era un altro foglio compilato per tre quarti con una grafia più inclinata ed elegante, questa volta nuovo, come testimoniava il bianco immacolato della carta. I dati della nuova gravidanza di Ellie Lyod, i sintomi, la scoperta che aveva avuto almeno altri quattro aborti entro il secondo mese, i referti giornalieri, i pareri sulla possibilità di aborto in stato di gestazione avanzato…
Al ragazzo venne un forte giramento di testa e fu costretto ad aggrapparsi con forza alla scrivania di legno scuro e trarre diversi profondi respiri. Sentiva le sue gambe tremare, improvvisamente molli come la gelatina, ma soprattutto finalmente capiva il senso di sbagliato che aveva provato per quelle ultime settimane.
Vigliacco! Vigliacco! Dentro di te lo sapevi già! Sapevi già di averla rovinata con la tua nascita!
Non erano morti entrambi per miracolo. Come poteva pensare di non aver causato qualche danno irreversibile al corpo minuto di sua madre? Tutti quegli aborti di cui parlava la nuova relazione erano esclusivamente colpa sua.
E tu che le dicevi che ti sarebbe piaciuto avere un fratello o una sorella… non avevi capito di averli uccisi ancora prima che nascessero? Dio mio! E lei… e lei…
… e lei mai una volta che gli avesse rinfacciato tutto quanto. Né lei né suo padre… mai lo avevano reso partecipe di questi dettagli della sua nascita. Lei sorrideva sempre e lui non si era mai accorto quando quel sorriso era crepato dal dolore, nella sua ingenua idea che sua madre fosse la creatura perfetta.
“Merda!” sibilò, battendo le mani sul tavolo e uscendo di corsa da quell’ambulatorio il cui odore di disinfettante lo stava nauseando.
Si dimenticò completamente della scatola di tisane.
 
Non gli avevano dato un nome.
Troppo penoso e non avrebbe nemmeno avuto senso: l’unico risultato sarebbe stato soffrire di più per un ricordo già troppo penoso da portarsi dietro. I feti non potevano essere seppelliti nel cimitero e per quanto quella creaturina avesse annaspato poco meno di due minuti alla ricerca della vita, non rientrava nei canoni per aver diritto ad un funerale ed essere segnata nei registri del municipio.
Alla fine Riza procurò una graziosa scatola di cartone bianco, un ricordo del suo viaggio ad East City, e con una copertina vi fece una piccola bara per il fratellino appena spirato.
Ellie osservò ancora una volta il corpicino ormai freddo tra le sue braccia e poi lo consegnò al marito, girando la testa di lato e rifiutandosi di guardare oltre. Andrew stava per dire qualcosa, ma poi capì che sua moglie aveva già dato troppo e non poteva sopportare altre sofferenze: aveva detto addio a suo figlio.
“Taglio il cordone – mormorò Elisa con delicatezza, nonostante dalla sua espressione fosse chiaro che anche per lei l’esperienza era stata orribile – e poi penso a lei. Le do un sedativo così smaltisce gli ultimi residui dell’aborto”.
Liberato il piccolo da quell’ultimo legame, Andrew lo depose con cura nella scatola, coprendolo con delicatezza con i lembi della coperta. Si sentì un vigliacco, ma sentì una strana forma di sollievo quando il coperchio di cartone lo nascose alla sua vista.
“E ora?” chiese Riza, mentre usciva dalla stanza matrimoniale assieme al genitore.
“Lo seppelliamo in giardino – decise Andrew, tenendo quella piccola improvvisata bara – e poi… non lo so, se tua madre vorrà piantarci sopra qualche fiore lo deciderà in seguito. Adesso… ti va di venire con me? O vuoi stare con lei?”
“Credo che sia giusto dire addio al bambino” disse la ragazza dopo qualche esitazione, stringendo con la mano il braccio del padre in un gesto di conforto.
Fu un funerale? Né Andrew né Riza seppero mai dirlo: per quanto provassero pena e dolore per quella creaturina, nessuno di loro due aveva qualcosa da dire in merito. Era solo una speranza che non si era avverata, una promessa spezzata troppo presto era un dolore troppo generico per poterlo in qualche modo incanalare con delle parole.
Si risolse tutto in dieci minuti.
Andrew recuperò una pala dal capanno degli attrezzi e si recò in un angolo del giardino, proprio al confine con la pineta che circondava parte della casa. Scelse un punto facilmente ritrovabile vicino ad un albero e scavò una buca abbastanza profonda. Poi prese la scatola che Riza teneva con fare esitante e la depose con attenzione in quella terra smossa.
Padre e figlia si guardarono, chiedendosi se era il caso di dire qualche cosa, ma dopo qualche secondo di silenzio, l’uomo prese la pala e provvide a ricoprire la sepoltura di quel piccolo bimbo senza nome. Riza vi depose alcuni fiori presi da un cespuglio e poi tornarono entrambi a casa.
“Mi sento da schifo…” riuscì a dire la giovane, come andarono in cucina. Si strinse ad Andrew con rabbia, permettendo alle lacrime di uscire.
“Credo che non ci si possa sentire in altro modo – annuì Andrew, tenendola contro di sé – ma per l’amor del cielo, cerchiamo di essere forti per Ellie, va bene? Lo so che ti sto chiedendo tanto, figlia mia, ma sei il mio miglior sostegno in questa triste vicenda ed io…”
La frase si interruppe per il rumore della porta d’ingresso che veniva aperta e poi chiusa con particolare violenza.
“Dannazione, è già tornato Kain – mormorò Andrew, sciogliendosi dall’abbraccio di Riza – adesso gli parlo io. Tu preparati una camomilla sul serio, ne hai bisogno”.
 
Kain rimase fermo all’ingresso, indeciso sul da farsi.
Si sentiva pronto ad esplodere, eppure se ne stava fermo lì, in piedi, ansante per la corsa che si era fatto. Non sapeva nemmeno perché era tornato in quella casa piena di menzogne che ora gli sembrava così soffocante tanto che si dovette allentare la sciarpa che portava al collo.
Guardò le scale e per un secondo pensò di rifugiarsi in camera sua, chiudere a chiave, e creare la più meravigliosa radio di questo mondo per far vedere a tutti di cosa era capace. Ma subito si rese conto che la sola idea di pensare ai circuiti lo faceva stare male… qualunque cosa lo faceva stare male.
Rabbia, rabbia, rabbia!
“Kain…”
La vista appannata del ragazzo colse appena la figura che proveniva dalla cucina. Riconobbe maggiormente la voce, identificando così il padre.
“Dovevi dirmelo…” sibilò, serrando i pugni con violenza.
“Kain, ascolta, dobbiamo parlare – disse con voce pacata Andrew, prendendolo per le spalle – è successa una cosa mentre eri via. Tua madre…”
“Non mi dire, ha abortito, eh?”
Aveva usato un tono di voce gelido che nemmeno lui sospettava di avere. Così come non sospettava di essere capace di un furore simile che ora stava rompendo anche le ultime sottili barriere che lo trattenevano, facendogli dimenticare persino che la persona davanti a lui era suo padre.
“Kain…”
“Non poteva andare diversamente! – gridò con tutta la forza che aveva in corpo. Si lanciò con tutta la forza della sua adolescenza contro Andrew, finendo a terra assieme a lui. Lo prese per il colletto della camicia ed iniziò a strattonarlo – Lo sapevate! Lo sapevate da sempre! L’ho ridotta io così! E non mi avete mai detto niente…tu  non mi hai mai detto niente! Perché tanto sapevi che lei non l’avrebbe mai fatto!”
“Kain!” Riza intervenne, scostando il fratello dall’uomo che si rialzò in piedi.
Era assurdo vedere quel ragazzino così a modo comportarsi come una bestia impazzita, tanto da sbavare per la rabbia. Non si avventò contro la sorella solo perché si allontanò verso il muro, per dare una manata impotente che sicuramente gli creò un gran dolore.
“Adesso calmati!” gli disse Andrew, andando verso di lui senza alcuna esitazione, senza nemmeno fare caso alla camicia in parte strappata e ai segni rossi che aveva sul collo.
“Calmarmi? Calmarmi!” Kain si rivolse di nuovo contro di lui.
Ma prima che potesse dire o fare qualcosa, lo schiaffo del padre lo colpì in pieno volto.
Nel salotto di casa Fury si fece silenzio, interrotto solo dai respiri ansimanti di tutti e tre i presenti.
“Sì, calmarti – disse Andrew con voce piatta, nonostante la mano gli tremasse: mai in quei quindici anni aveva dato uno schiaffo a suo figlio – perché sopra c’è tua madre sotto sedativi, distrutta dato che nemmeno una mezz’ora fa ha dato alla luce un bambino che le è morto tra le braccia, va bene? Vuoi essere arrabbiato? Ne hai tutto il diritto, non sarò io a negartelo, ma ti proibisco di sconvolgere tua madre più di quanto lo sia… e anche tua sorella già che ci siamo!”
“Mi avete mentito per tutte queste settimane! – sibilò il ragazzo, lacrimando senza parere – E io lì, come uno scemo, a chiedermi che cosa non andasse… una dannata macabra recita che non portava da nessuna parte! Che cavolo costava dirmi che tutto era destinato ad andare male?”
Andrew fissò il figlio con rassegnazione, rendendosi conto che con tutta probabilità aveva ragione: sarebbe stato meglio dirgli subito come stavano le cose, affrontare immediatamente gli anni di silenzio, ma almeno prepararlo a quanto stava per accadere. Invece si erano tutti rifugiati nell’idea di proteggere almeno lui.
Da cosa poi? Finché era piccolo era un conto, ma adesso era perfettamente in grado di comprendere la storia della sua nascita.
Osservò il ragazzo, così schiumante, così vivo da costituire comunque una strana ed orgogliosa consolazione contro la creaturina che era spirata poco prima. Quel furore prepotente strideva nel silenzio della casa, ma per Andrew era come quando quella stessa persona aveva lanciato uno strillo di protesta quando pensava che fosse morto poche ore dopo il parto.
“Tu sei… incredibilmente vivo – si trovò a dire, superando quei pochi passi che lo separavano da Kain e abbracciandolo con foga. Non gli importava della resistenza che incontrava, delle proteste incomprensibili di suo figlio: sentire quel corpo era l’unica cosa che in quel momento gli dava una strana forma di felicità di cui aveva disperato bisogno – sei vivo…”
Perse il conto di quante volte pronunciò quella parola.
 
Elisa tornò in paese circa un’ora dopo.
Aveva lasciato una famiglia distrutta che aveva bisogno di trovare un nuovo equilibrio tra i suoi componenti e che aveva stretto una momentanea tregua a beneficio di Ellie. L’unica cosa confortante era che il corpo della donna aveva retto bene l’aborto e non c’erano state complicazioni, complice anche la rapidità dell’evento.
Per il resto la dottoressa Meril si sentiva sfinita e demoralizzata, consapevole di aver appena sbattuto il viso contro il più grosso fallimento della sua carriera medica. Aveva messo tutta se stessa in quel suo primo caso importante, ripromettendosi di fare di Ellie Fury quel miracolo che avrebbe consacrato la medicina moderna contro quella ancora rustica del dottor Lewis.
Ed invece il farmaco che aveva fatto venire direttamente da East City giaceva ancora nella sua valigetta, senza che nessuna occasione gli fosse stata data. Avrebbe dovuto essere più persuasiva e convincere la signora ad assumerlo già da tempo, avrebbe dovuto far valere maggiormente il suo parere medico, in questo modo il bambino avrebbe avuto qualche possibilità in più.
Sicuramente il dottor Lewis le avrebbe detto che era una lotta persa in partenza e le cose sarebbero andate così in ogni caso, ma il giovane animo di Elisa non poteva venire a patti con quell’idea di fatalità.
Sono io che ho sbagliato… ho sbagliato da principio la gestione di questo caso!
Non sapeva come, non sapeva perché, non sapeva nemmeno lei il primo germe di errore.
Ma aveva fallito.
Arrivata in paese deviò dalla via principale ed andò alla libreria di suo nonno.
Senza salutare nessuno si diresse verso il magazzino, sicurissima che lui era là.
“Ehi – salutò Vato con un sorriso, posando una pila di libri – non pensavo che saresti… Eli, ma che hai?”
La donna lasciò cadere la valigetta di cuoio  e si strinse al fidanzato.
Nessuna lacrima, nessun lamento, solo una silenziosa rabbia contro se stessa con cui avrebbe dovuto combattere per molto tempo.
“Giurami che tra noi andrà bene – si limitò a dire con un sussurrò, ignorando le domande preoccupate che lui le rivolgeva – giurami che ci sposiamo e che saremo felici. Non ti chiedo altro!”
 
Ellie si svegliò quella sera, profondamente stordita dal sedativo che le era stato somministrato.
Recuperando conoscenza si accorse che le lenzuola non erano le stesse di quella mattina e che in tutta la stanza c’era uno strano odore di pulito, come se qualcuno si fosse premurato di lavare per bene il pavimento ed i mobili.
Si ricordò subito di aver abortito ed intuì che quell’opera di pulizia doveva esser stata merito di Riza, per cancellare l’odore di sangue e di morte. Chiuse gli occhi e sospirò, una piccola parte di lei sollevata che quel calvario fosse finito. Solo adesso poteva ammettere quanto quella gravidanza di pochi mesi l’avesse provata emotivamente. Per quanto si sentisse un mostro, per quanto il suo cuore dolesse al ricordo di quella creaturina tra le sue braccia, l’idea di lasciarlo andare non era così orribile… anzi l’aveva accettata con fin troppa facilità.
Ci aveva provato ed aveva perso, ma in fondo era pronta alla sconfitta.
Quel bambino non era mai stato davvero suo.
“Ciao…” la salutò Kain, sdraiato accanto a lei.
“Ciao, pulcino” rispose Ellie, nemmeno troppo sorpresa di trovarselo accanto. Perché era una cosa completamente naturale per il figlio che era davvero suo.
Lo fissò, trovandolo bellissimo come sempre, preferendo ignorare quella nuova rabbiosa e dolorosa maturità che traspariva dagli occhi e dall’espressione. Preferiva concentrarsi su quell’amore assoluto che niente avrebbe cancellato: il muro tra loro due era sparito.
“Non me l’avresti mai detto, lo so – mormorò Kain – ma avresti dovuto”.
“Non sarebbe mai dovuta andare così, a partire dalla tua nascita – rispose placidamente Ellie – ma è successo. Non posso vincere tutte le battaglie contro la vita, Kain, ma la più importante l’ho stravinta, credimi”.
Non si dissero altro, ciascuno con uno strano senso di colpa dentro di sé che preferivano non esternare.
Per ora, in quel letto, loro due erano certi di avere le solide basi del loro legame che nemmeno un bambino morto poco prima poteva spezzare.

 






_________________
Finalmente sono riuscita a terminare questo capitolo, forse uno dei più "tosti" che mi sia mai trovata a scrivere.
Parlare di queste tematiche non è mai semplice e spero di essere riuscita a rendere bene il turbinio di sentimenti che avvolge i vari protagonisti. Spero che non siate rimasti troppo spiazzati dallo strano "sollievo" che ha pervaso sia Andrew che Ellie alla fine di questa vicenda: credo che nonostante la speranza fossero consapevoli che le cose non sarebbero andate bene. Per loro è stato meglio chiudere questa ferita (se mai è possibile) il prima possibile.

Bene, intanto vi avviso che questo è l'ultimo aggiornamento per un paio di settimane. Dal 3 sino al 16 agosto non sarò a casa.
Se ce la faccio aggiornerò l'altra long che sto scrivendo nel fandom di AoT :)
In ogni caso farò in modo di rispodere alle recensioni in tempi tranquilli

Ciao ciao



 
  
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