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Autore: Thewritingpenguins_    28/07/2017    0 recensioni
Brighton, East Sussex, 1823
Accanto ai campi traboccanti di coltivazioni sorge una rustica abitazione.
Qui crescono a vista d'occhio sei ragazzini, ognuno con la propria storia, passioni e desideri.
Margaret ed Heyden, due giovani incontratasi per caso e abitanti della stessa lugubre dimora, si godono la loro tenera infanzia, costellata di baci struggenti e frasi sussurrate.
Un giorno però, nel biancore del cielo invernale, l'avvento delle prime responsabilità e il senso del dovere, segnerà le vite di entrambi.
Ma ciò che il destino decide di unire non si separa così facilmente.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
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la signora di bri.

Quando non sarai più parte di me ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle allora il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte.

~ Romeo e Giulietta





1823


Quella fetta d'Inghilterra era come una fresca brezza in una giornata afosa.

Gli sterminati campi, infarciti di bionde spighe mature, rispecchiavano abbondanza e prosperità, un'apparenza in parte vera.

Il centro di Brighton, moderno per l'epoca, ospitava edifici di addirittura quattro piani con forti fondamenta e ampie finestre, attraverso le quali il profumo pungente della brezza marina pervadeva strade e abitazioni.

Nel corso degli anni le strutture si erano evolute, come anche il savoir-faire degli uomini inglesi.

La città, fondata sulla sapiente attività della pesca, era divenuta un centro d’affari ricercato e per il clima mite del luogo che invogliava i turisti a rifugiarvisi ogni qualvolta ne avessero avuto l'occasione.

Attorno a quell'anno edifici audaci come il Bedford Hotel iniziavano a vedere la luce mentre altri, come le obsolete e crepitanti abitazioni frutto del sudore di antichi e saggi fondatori, precipitavano nel buio.

La striscia di sabbia che proteggeva la città, simile ad una inefficace muraglia, regrediva di anno in anno divorata dalla costante fame del mare che, con inesorabile lentezza, erodeva la terra circostante. Dalla costa della baia si ergeva un ponte metallico che cominciava a somigliare sempre più ad un grosso ammasso di ferraglia arrugginita e abbandonata in mezzo al mare per pigrizia.

Superato l'energico centro cittadino, seguendo il tortuoso percorso di una ristretta strada sterrata, ci si ritrovava immersi nell'area più rurale e pacifica della regione inglese: una zona ricca, non molto distante dalla frastornante Brighton, e puntualmente esclusa dagli interessi degli indaffarati turisti o, più semplicemente, dal chiacchiericcio borghese del centro.

Si trattava di un'area piuttosto estesa che ospitava antiche costruzioni che, per puro miracolo, sembravano resistere alla crudeltà del tempo; l’orizzonte era disseminato dalle decadenti abitazioni degli instancabili contadini, adornate da alcune isolate regge ed edifici trascurati per cui bisognava saldare una retta tutt'altro che alta.

Quel giorno, una nevicata tardiva aveva ammantato di bianco i tetti di tutta la città, che parevano dissolversi nel cielo color tapioca. Il gelo pungente dell'inverno aleggiava nell'aria. I piedi affondavano nella fanghiglia del cortile e Margaret, poco più che dodicenne, nonostante la segatura sparsa sui ciottoli a formare un sentiero improvvisato, poteva sentire l'umidità gelida infiltrarsi nelle scarpe sporche di fango e l'orlo inzuppato delle vesti schioccare con forza contro le caviglie umidicce. Tutta tremante, si stringeva nella fine mantellina che portava indosso, avvolta frettolosamente sulle spalle affusolate.

“Che freddo!” disse in tono allegro, mentre rincasava. Circondata dalla visuale sul mare cristallino, una casupola dall’aria malaticcia, posizionata nel bel mezzo di un rigoglioso campo, si ergeva sopra un modesto colle con alcuni sporadici arbusti.

Al suo interno aleggiava come di consueto un retrogusto marino, salmastro, che impregnava le tende, le lenzuola e persino i mobili. L’aroma salino e quello erboso, quasi selvaggio, della radura circostante che cercava di conquistare l'abitazione, si combattevano costantemente in una battaglia senza apparente fine.

Sembrava di alloggiare su di una sporgenza divisa tra terra e mare, unendo i loro aromi e creando un piacevole contrasto che a volte faceva girare la testa.

Dall'esterno, il malinconico grigio torbido delle pareti attirava sempre l’attenzione di Margaret, specialmente negli angoli in cui il colore si era eroso, staccandosi e sbriciolandosi a terra, denudando così l'edificio.

Nascosti in un angolo sul retro, giacevano ancora i due piccoli cumuli scomposti di tegole che, qualche mese prima, erano precipitate, schiantandosi al suolo in decine di cocci.

Il muschio rinsecchito adornava il tetto come una folta chioma, facendo assomigliare le tegole rimanenti a vecchi volti ombrosi puniti dagli anni.

Il comignolo da cui fuoriusciva il fumo del camino si ergeva titubante al centro del tetto.

Nel corso degli anni alcune pietre si erano consumate fino a staccarsi del tutto e rotolare giù, verso l'orlo della rigida copertura, atterrando con un sonoro botto davanti alla porta scricchiolante dell’ingresso. Quest’ultima, del resto, era stata costruita tempo addietro, con legno di scarsa qualità che con il passare degli anni aveva finito per sfilacciarsi, minacciando chiunque lo toccasse con le sue legnose spine acuminate.

“Sono a casa!” Nel modesto soggiorno adibito a sala da pranzo, lo scuro tavolo in legno screziato aveva ospitato così tanti pasti da avere impregnate nel legno innumerevoli macchie appiccicose dalle più disparate tonalità che, nonostante i tentativi di rimozione, non avevano mai accennato ad andarsene. Lì, Lilith, intenta a preparare la cena, aveva guance e naso arrossati per via del freddo. Il rossore metteva in risalto i suoi occhi castani, rendendoli ancora più profondi del solito. Aveva l'aria dolce e un po' sbigottita. E le mani sporche di farina.

Lilith si occupava di Elizabeth dal giorno in cui aveva ricevuto il dono della memoria, e se fosse stato solo per il Signor Durk sapeva che quella bambina che era lei non sarebbe sopravvissuta una sola settimana. Il suo viso dolce ricordava a Lilith quello di sua sorella minore, Catherine, che sperava avrebbe rivisto un giorno, magari non troppo lontano. La separazione era stata dura ma il padre, a cui piaceva intrattenersi con donne di ogni rango e bivaccare al bancone delle osterie, era stato categorico: una delle figlie doveva allontanarsi, non poteva certo mantenerle tutte. Così lei aveva deciso di sacrificarsi, tutto pur di non mettere in pericolo le sorelle.

Come se le avesse appena letto nel pensiero, lo sguardo di Lilith si fermò sulla cesta in vimini che Margaret stringeva tra le braccia. Le fece cenno con la testa. “Poggialo lì” disse, indicando il camino tempestato dai vasi di Margaret e un paio di rudimentali cucchiai spezzati nella foga di preparare un impasto più compatto del solito.

Accanto al focolare, massicci pentoloni di rame sostavano pazienti sopra una traballante sedia di legno usurato. I mobili della cucina erano di seconda mano e le assi di legno, incastonate tra loro nel mobile che supportava stancamente il lavandino logoro, si erano a poco a poco sfondate con il tempo, rientrando e incurvandosi sotto il loro peso. Con il passare degli anni le ragazze avevano edulcorato quell’ambiente, aggiungendo una presina con l'immagine di un campo di lavanda fatta a maglia da Caroline, un quadretto dipinto con colori tenui e smorti da Lilith, qualche vasetto di terracotta su cui vi erano dipinti dei girasoli trovati da Margaret in un vecchia cassetta di legno, ed un infantile disegno di Elizabeth realizzato con gli unici pastelli viola e neri che possedeva.

Al lato opposto della cucina, si intravedeva la stanzetta di Caroline ed Elizabeth. Era piuttosto ristretto come ambiente ma per due bambine rientrava ancora nella sufficienza.

La loro cameretta di recente aveva subìto delle modifiche e da ambiente distaccato e privo di calore umano aveva tradizionalmente attraversato la fase che portava una stanza asettica a diventare calda e famigliare, quel passaggio silenzioso che trasforma gli ambienti e le persone al loro interno. Eppure, se qualcun altro si fosse aggiunto al rumoroso gruppetto di ragazzi e bambini che in quegli anni abitavano la casa, l'ambiente si sarebbe di certo trasformato in un qualcosa di asfissiante.

Percorrendo le scale, Margaret raggiunse il piano superiore, quello delle camere da letto. La prima, la stanza più grande, apparteneva al Signor Durk, ed era da lì che proveniva il solito lezzo di calzini puzzolenti e sudore seccato dall'aria.

Accanto, c'era la stanza di Lilith e Margaret, dalle dimensioni piuttosto ridotte, completa di un'ampia finestra sotto la quale era stato disposto orizzontalmente un baule tarlato. Margaret era solita sedercisi sopra e restava ad ammirare abbagliata le suggestive visioni di un acqua marina non troppo lontana.

Una lampada di ottone mezza rotta stava ancora nella nicchia annerita, in una delle pareti, e sull'altra uno stretto scaffale era macchiato di tracce di cera.

D'un tratto Margaret diresse lo sguardo su una serie di impronte, alcune di scarpe, alcune di calze. Si fermò a studiare le impronte sulla polvere che copriva il pavimento. "Caroline!" pensò, e giunta nella camera che divideva con la compagna, la trovò seduta alla finestra, lo sguardo perso in lontananza.

Caroline era particolarmente bella, aveva un viso grazioso e due occhi penetranti color del cielo. Quel giorno indossava un'ampia gonna marrone, quella che le aveva regalato Lilith il giorno in cui arrivò tra quelle quattro spoglie e rigide mura. Pareva abituata a camminare scalza, e le sue impronte erano presenti ovunque nella casa.

"Così ti prenderai un malanno!" disse Margaret, preoccupata. Non potevano permettersi di ammalarsi, altrimenti il Signor Durk le avrebbe sbattute fuori.

"Io non mi ammalo mai" Aveva compiuto da poco dieci anni quando un giorno Caroline, con sua sorella Elizabeth ancora in fasce, aveva bussato al portone, giù in cortile. La bambina, stremata e affamata, le aveva rivelato di essere fuggita di casa dopo la morte della madre. Non aveva voluto assistere ai luridi giochi di potere che si erano innescati in famiglia dopo la scomparsa della donna, il pensiero infido del voler lucrare su un qualcosa di così indefinito come la morte, così era scappata.

Caroline era una ragazza di poche parole a cui piaceva rifugiarsi in camera da letto e sostare lì per ore, in un silenzio quasi sacrale. Margaret da questo punto di vista, non le assomigliava affatto, girava come una trottola canticchiando instancabilmente, come pervasa da una costante allegria molte volte immotivata. Era una bambina felice per natura, la maggior parte del tempo lo trascorreva evitando di pensare a quello che aveva affrontato negli ultimi anni, il percorso che l'aveva portata lì, assieme a quelli che ora considerava suoi fratelli. Era dotata di quel tipo di personalità che nei momenti di tensione, creati sopratutto da Durk, riportava la quiete con una battuta sagace o un morbido e caldo sorriso.

Qualche giorno dopo il suo arrivo, ricordava ancora come, a causa di una lite sorta sul riuscire a scrostare nel migliore dei modi la più larga delle padelle di rame, avesse ricevuto un sonoro schiaffo a mano aperta da un Durk più alterato del solito.

La faccenda era terminata con lei che, ritrovatasi in ginocchio sul pavimento usurato, si era rialzata ordinatamente e avvicinatasi di soppiatto a Durk, gli aveva scagliato un calcio con tutta la forza che possedeva. Dopo di chè aveva preso a correre, fuori dalla porta, poi in mezzo ai campi rincorsa da un Durk quasi del tutto ripiegato su se stesso. Anche quella volta, Margaret era stata in città per qualche ora, aveva girovagato come un randagio poi, con il sonno che incombeva minaccioso, si era diretta a casa dove, aiutata da Lilith, si era coricata a letto come un sasso si corica sul letto di un lago.

"Tieni, copriti almeno le spalle" fece Margaret, cedendole lo scialle che portava sulle spalle affusolate. Il ricordo degli ultimi avvenimenti bruciava ancora in Margaret, come un ferita sanguinolenta su cui si getta sale e allora riprende a dolere, infuocata come i tizzi dei carboni ardenti. E rimirando, con lo sguardo assorto, la dolce e piccola Caroline, i suoi boccoli biondi e il suo naso dritto, Margaret si rendeva conto di quanto il tempo volasse. Persino quella neonata che era la piccola Elizabeth era cresciuta, e sembrava che fosse successo tutto così in fretta.

"A breve sarà pronta la cena, vedi di non farti aspettare, intesi?"

Improvvisamente, un tonfo familiare ridestò Margaret dal torpore dei primi freddi. Il corridoio era scuro, illuminato soltanto da una luce fioca che saliva dalle scale. Quando le raggiunse, udì un altro tonfo provenire da sotto, poi un soffio di aria fredda.

"C'è qualcuno alla porta" La voce di Lilith risuonò in un eco limpido e forte, su per le scale. “Vado io” disse Margaret , sistemandosi il corpetto, lanciò un'ultima occhiata verso Caroline e si diresse giù in giardino. “Chi è?” Margaret si lanciò a capofitto, giù lungo la scricchiolante rampa di all'incirca nove scalini, così velocemente da rischiare di inciampare sull’unico scalino che, un anno prima aveva ceduto. Prima di ripararlo Durk aveva iniziato a sbattere martello e chiodi sul pavimento, infuriato, inveendo contro l'industria del legno che si divertiva a truffare gli onesti compratori sostituendolo con prodotti sempre più scadenti.

Si sentiva in diritto di criticare le industrie, non che le avesse acquistate lui quelle assi, perché una decina di anni prima era stato assunto come operaio nella nuova falegnameria salvo poi essere stato liquidato sgarbatamente dal titolare in seguito ad un’azzuffata che era costata un naso rotto allo sfidante.

Attraversando a grandi falcate il soggiorno, arredato dai mobili recuperati dal Signor Durk durante le sue esplorazioni clandestine in qualche mobilificio abbandonato o in qualche sperduta casa di campagna, Margaret raggiunse la porta sul retro. Improvvisamente, un rumore sordo, proveniente dalla cantina adiacente il sotto scala, la fece trasalire. Si voltò, cauta e assorbì un odore aspro e pungente, un'essenza familiare. “Hayden?" Margaret infilò le mani nelle maniche del mantello, mentre un ricciolo corposo le ricadeva dolcemente sul naso alla parigina. “Sei tu, Hayden?” aggiunse pigramente, allungando il palmo della mano destra in segno di pace.

Margaret non si era ancora accorta della figura incappucciata che, nascosta dietro l’alta credenza, stava saggiando con malizia la sua silhouette da donna. Stretta tra le spalle spigolose e la morsa del freddo pungente di Gennaio, Margaret vestiva di un abito semplice, ma soprattutto umile, come lo era anche lei del resto. Un’ampia gonna sbiadita e rattoppata metteva in risalto le curve acerbe del suo corpicino esile, l’ancora poco procace seno che, sotto l’esile stoffa logora, si muoveva libero dalla costrizione del reggiseno che, puntualmente, Margaret toglieva la sera prima di andare a letto per poi dimenticare di indossarlo l’indomani.

Hayden, sedici anni e un futuro da vendere, la guardava, ammaliato dalla sua beltà celestiale, i capelli fulvi color delle albicocche mature, il profumo della sua carne tenera, l’essenza del suo sguardo caldo come miele.

Mark, qualche anno in meno di Hayden, si vantava di conoscere ogni centimetro di quella casa come il palmo della propria mano, ed era da lui che aveva appreso a nascondersi così bene, come una volpe.

Da bambini gironzolavano sempre per i campi attorno all'abitazione facendo visita ai contadini, rimanevano da loro per ore e ogni volta che Hayden gli domandava cosa ci trovasse nel passasse il tempo con quei vecchi signori lui rispondeva: “Hai idea di quante avventure hanno vissuto? E' affascinante!” A Mark piacevano le storie, ascoltava tutto e tutti, rimaneva in silenzio anche per ore se era necessario, non interrompeva mai un racconto e se gli sorgevano spontanee alcune domande le riservava per dopo, appuntandole accuratamente in un angolo della sua memoria.

Hayden era simile a lui per certi aspetti, quando voleva rimanere solo pensando a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Al tramonto raggiungeva la spiaggia di Brighton e correva da un lato all'altro fino a quando iniziava a sentire le ginocchia cedere e i polmoni scoppiargli nelle tempie. Aveva sedici anni e il futuro incombeva come un'ombra nerastra su un muro bianco: le settimane passavano monotone e lui raggiungeva il posto di lavoro, giorno dopo giorno, con l'impressione che quell'ombra si facesse sempre più grande, pronta ad inghiottirlo. A volte sentiva il bisogno di stare solo anche se rinunciare alla compagnia di Margaret era un'impresa piuttosto ardua.

Era certo che l’avrebbe guardata per ore, giorni forse, se non fosse stato per via del lavoro che lo teneva lontano da casa intere settimane. E ogni volta che lei era lontana, altri erano i passatempi per tenersi impegnati dopo una lunga sessione onirica su di lei. Margaret. La bella e dolce Margaret. La sua Margaret.

Hayden intrufolava piano un mano lungo l’apertura dei pantaloni, scioglieva il laccio di corda che usava al posto della cintura e abbassava la cerniera. Infilava le dita lungo il tessuto grezzo delle mutande di cotone e, con dovuta gentilezza, strusciava i polpastrelli contro la pelle calda e umida, quella pelle che tante, troppe volte gli aveva procurato piacere e desiderio immensi. I suoi palmi callosi navigavano tra le lussuriose cosce e il suo petto scarno e glabro. Iniziava piano, dolcemente, poi qualcosa nel suo petto lo riportava a Margaret e la sua mano si muoveva frenetica, come impazzita. Poi, quando si sentiva svuotato di ogni possibile pensiero o memoria, una strana e melanconica depressione finiva di prendersi Hayden e quel poco di lucidità che gli restava. Quando avrebbe voluto che fossero le mani di Margaret a fargli tutto quello.

Bastava un suo solo sguardo, per mandare in cortocircuito l’intero sistema nervoso di Hayden. Un solo istante, e quegli occhi verdi e burrosi lo avrebbero inghiottito, trangugiandosi lui e la sua tremenda ingordigia.

Anche allora, da dietro la siepe, Hayden la guardava. Sembrava come immobilizzato, intento a studiare ogni sua movenza, ogni suo gesto così gentile. L’aveva sempre guardava a quel modo, e non si era mai chiesto il perché di tutto quel casino che gli fracassava i timpani e quel turbinio di farfalle, o forse falene, che gli attanagliavano lo stomaco vuoto.

La prima volta che l’aveva incontrata, Hayden pensò di aver visto un angelo di fronte a sé: rosso e buono. Un angelo femmina. Eppure Hayden non era poi così certo che esistessero angeli donna in Paradiso.

Ora che la guardava meglio, si accorgeva e si stupiva per l’ennesima volta della pelle candida e profumato di Margaret, che sembrava indossare un manto fatto di latte e vene. La sua Margaret era sempre stata una bambina di salute cagionevole, dalla carnagione pallida ma dai pensieri rivoluzioni. Gli anni avevano forgiato il suo carattere e all’arrivo dei fatidici undici anni, Margaret si era trasformata, sbocciando come un fiore in festa per via della Primavera. Le sue forme, sterili e innocenti, si erano gonfiate e ingrossate, fino a diventare un bel paio di cosce sode e fianchi larghi e duri. “Fianchi larghi, da donna. Fianchi da madre.” Aveva detto una volta la moglie del farmacista. I suoi capelli, color caramello, rilucevano degli sporadici raggi di sole nascosti negli anfratti della città. Il vento sembrava danzare, giocoso, con quella chioma animalina.

Anche quel giorno, Margaret era bella. Aveva gli occhi caldi, come miele, e la bocca corrucciata in una smorfia bambinesca. Le guance, piene malgrado la scarsa alimentazione, tradivano una parlantina loquace e scaltra.

Hayden non sopportava il pensiero che ogni volta che si trovava fuori casa Durk avrebbe potuto mettere le mani addosso a lei, o alle altre ragazze. Portava ancora il segno violaceo di un livido piuttosto ampio sul fianco sinistro, l'ultima azzuffata con Durk aveva prodotto risultati orribili e se lo avesse beccato lì, a bighellonare piuttosto che lavorare, le conseguenze sarebbero state di gran lunga peggiori. Una volta, aveva perso il controllo dopo aver visto Margaret in un angolo della cucina che, rannicchiata su se stessa, premeva con forza la guancia sinistra, dipinta di un rosso lancinante che somigliava a lava. Seduto sulla poltrona sfondata del soggiorno Durk stringeva nel palmo una bottiglia di vetro del suo whisky preferito, di un color cuoio intenso, lo sorseggiava con furia, la bocca stretta e gli occhi macchiati dalle vene rossastre ed evidenti. Il ragazzo era corso a grandi passi da Margaret, stringendole la spalla e domandandole in modo concitato cosa fosse successo prima del suo arrivo. Lei aveva alzato lo sguardo pregno di disprezzo e aveva urlato: "Quel porco ubriacone mi ha messo le mani addosso perché pensava avessi buttato il suo alcool marcio!"

Durk non si era mosso e di un millimetro, continuando a sorseggiare il forte liquore avvertendo la pungente stretta alla gola ogni volta che deglutiva.

Hayden si era alzato in direzione del salotto, si era frapposto fra l'uomo e il muro che quest'ultimo stava fissando e si mise a sbraitare: "Cosa lei ha fatto!?"

Mentre pronunciava quelle parole iniziò a toccare Durk, dandogli delle leggere spinte sul braccio, quello occupato a sorreggere il whisky.

L'uomo, dopo aver bevuto più del solito, somigliava ad un essere bizzarro, una creatura dalle fattezze innaturali che al secondo bicchiere già farfugliava di paesi che non esistevano sulle cartine geografiche e di persone che esistevano solo nella sua fantasia.

Con la sua camicia color nocciola tartassata di fori, Durk si era alzato di scatto, barcollando leggermente, con lo sguardo fisso, gli occhi vacui e incoscienti.

Non disse una parola ma scagliò la bottiglia mezza vuota sul volto del giovane che d'istinto si spostò di lato evitando per una frazione di secondo i vetri della bottiglia.

Grazie ai riflessi pronti e decisamente più reattivi di quelli dell'uomo, Hayden si ricompose subito per poi scagliarsi con violenza addosso a Durk che, ancora confuso dal rumore dei vetri rotti sparsi sul pavimento, non si era accorto di come il giovane scapestrato si fosse scaraventato su di lui colpendolo sull’addome, sempre più forte.

Durk, malgrado la testa gli girasse vorticosamente e gli arti reagissero in ritardo, rispose a quell'assalto colpendolo di rimando sulla schiena e sul fianco. L’azzuffata continuò fino a quando Lilith irruppe nella stanza con Elizabeth per mano. Corse dai due e afferrò per le spalle Hayden supplicandolo di fermarsi. Dal canto suo il giovane, stremato, non voleva far assistere alla piccola Elizabeth tutta quella violenza, così decise di mettere fine all’ennesima baruffa. L'uomo, d'altronde, era già stato ripagato per quello che aveva fatto: Durk giaceva a terra, svenuto e con il viso piegato, la bocca socchiusa e un taglio sullo zigomo destro. Il suo grasso corpo ne era risultato martoriato e i segni sarebbero comparsi solo qualche giorno dopo, lo stesso valeva per Hayden che si trascinò fino alla porta principale per poi uscire e dirigersi chissà dove. Avrebbe voluto proteggerle da tutto quello ma ancora una volta era arrivato tardi e con il corpo pervaso dal dolore non era riuscito a perdonarsi.

Sommerso da quella ingente quantità di pensieri vorticanti, Hayden si sporse lentamente da dietro l'odoroso legno della credenza e, senza rendersene conto, le sue gambe muscolose e agili lo avevano portato al capezzale della sua dolce musa. La volle cogliere di sorpresa, afferrandola da dietro, stringendola per i fianchi e costringendola tra le sue braccia, forti a forza di alzare carbone nella miniera. La prese con facilità e Margaret sembrò in un primo momento lasciarsi stropicciare da quel paio di mani callose e così familiari.

“Hayden!” Il sussulto che scosse il corpo di Margaret, mando su di giri il giovane che, distrattamente, la afferrò per il bavero del colletto bianco. Se lo rigirava tra le dita, sfiorando appena con l’avambraccio il tessuto liscio e scuro dell’abito di Margaret. Con una gamba, spingeva verso il suo fondo schiena, imprimendo la durezza del suo corpo rigido su quello di lei che, sgomenta, si agitava e si contorceva come una biscia.

“Beh, che c’è? Non si usa più neanche salutare?!” Hayden la costrinse a voltarsi, mentre con le braccia si stringeva su di lei, stritolandola per sentirla più vicina, per sentire l’odore fruttato dei suoi capelli fondersi con quello speziato e pungente dell’aria invernale. Era stata fuori, lo sapeva.

“È questo il modo di salutare una Signora?” Lentamente, Hayden scoprì il volto che teneva nascosto nella sciarpa e le sorrise con gratitudine. Alzò gli occhi al cielo, oltre la massiccia porta e i suoi cardini arruggini, sbuffando. Un alito di vapore s'innalzò nell'aria fredda di Novembre.

La giovane gli si accoccolò accanto, investendo il giovane dell'odore acre di taverna e neve. Quando gli fu vicina, Margaret notò con stupore che Hayden stava crescendo davvero, non era molto più grande di lui, con quel suo viso affusolato, il naso all'insù e la bocca ben fatta.

La ragazza battè il tacco dello stivale sporco di terra e avvicinò talmente il viso a quello di Hayden che riuscì a distinguere il colore dei suoi occhi, verdi, e le radici dei suoi capelli, lunghi e del colore della corteccia degli alberi maturati al sole.

“Piuttosto, non dovresti essere a lavorare?” mormorò Margaret. Le sue labbra carnose e rosate si distesero e si arricciarono su loro stesse, scoprendo una dozzina di denti bianchi e lucenti. Così splendenti che Hayden avrebbe potuto intravedere il suo riflesso su quella superficie liscia e cangiante.

“E da quando in qua, tu saresti diventata una Signora?” Hayden le strinse i polsi, alzandoglieli all’altezza delle orecchie. La spinse contro il muro adiacente la porta d’ingresso. Per via degli spifferi di aria gelida, i loro sbuffi vaporosi si mescolarono nell’aria, in una nuvoletta di condensa biancastra.

Hayden le rubò un bacio a fior di labbra, strappandole una smorfia di dissenso seguita da un lungo gemito sommesso. Le mordicchiò il labbro inferiore, corposo e screpolato, chiedendosi perché le labbra di una donna, le labbra di Margaret, fossero così dannatamente morbide e succulente. Simili a due enormi pesche dorate e mature.

Mentre la baciava, lui la guardava teneramente, poteva sentire la sua pelle, ispida e bruciata dal sole, infrangersi contro quella candida e liscia di Margaret, solleticato da un paio di ciuffi sbarazzini che erano scivolati fuori dalla cuffietta bianca in cui teneva racchiusi i lunghi capelli.

“Hayden!” Uno sbuffo accennato riportò Hayden alla realtà. “Se qualcuno ci vedesse…”

Il ragazzo, alto e di bell'aspetto, la teneva ancora stretta stretta a sé, come si tiene tra le mani un passerotto gracile, che potrebbe rompersi o volare via da un momento all’altro. “Vieni, devo mostrarti una cosa...” Hayden afferrò Margaret per la mano, in procinto di trascinarsela dietro per tutta la città, ma la voce illibata e soave di Margaret gli pervase la mente. “Sai che non è ammesso uscire di casa dopo il coprifuoco!” I suoi occhi si riversarono in quelli di lei, minuta come un topolino. “Se il Signor Durk lo venisse a sapere...”

“Non lo verrà mai a sapere.” Il tono canzonante di Hayden sembrò più un modo per convincersi, piuttosto che una vera affermazione. “E tu, ora, vieni con me!” Hayden la attirò a sé con un movimento deciso seppur brusco. La tirava per le mani, euforico per via del piccolo gesto sconsiderato: se il Signor Durk li avesse scoperti, sarebbero rimasti senza cibo né acqua per giorni.



   
 
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