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Autore: Gwen Chan    31/07/2017    1 recensioni
Afghanistan, 1988.
Il soldato scelto Yuri Katsuki, entrato nell'esercito più per necessità che per vocazione, ha sempre ammirato il fiore all'occhiello dell'Armata Rossa, Victor Nikiforov.
Ma mai Yuri si sarebbe sognato di trovarsi ad affiancare l'uomo durante una missione di recupero.
Ovvero: la missione che non è mai accaduta e di cui nessuno deve parlare.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Il Successo Può Essere Amaro, Caro

La missione assegnata al Sergente de la Iglesia non era stata etichettata con un alto livello di pericolo. Certo, a Leo e ai suoi uomini era stato raccomandato di prestare attenzione all’ambiente circostante e di non scordare mai che avrebbero attraversato un territorio nemico. Tuttavia la missione era parsa facile, almeno sulla carta.

L’obiettivo era raggiungere un villaggio dove, secondo certe voci la cui fondatezza era parsa sufficiente, il capo avrebbe potuto rivelarsi un utile alleato.
Ma, del resto, quando mai la realtà ha rispettato un piano?

Così, nemmeno quattro giorni dopo l’inizio della missione, gli uomini di Leo si erano imbattuti in cinque bambini che frignavano perché si erano persi. Leo aveva il cuore tenero e prestò poca attenzione a chi sosteneva che avrebbe potuto trattarsi di una trappola. Al contrario ordinò di condividere alcune delle loro razioni con i bambini, affidandosi a Behrooz per scoprire da quale villaggio provenissero. Stabilito che avrebbero potuto aiutare i piccoli a tornare a casa con solo una piccola deviazione, ripresero la loro marcia.

Il giorno seguente la squadra di Leo era incappata in un’imboscata. Un uomo fu ucciso sul posto. Anche uno dei bambini fu ferito. Sarebbe morto poco dopo. Behrooz fu preso dal panico e fuggì. Leo e i sopravvissuti, scappando per non essere falciati, si ritrovarono soli in un territorio crudele e su un sentiero che conoscevano a malapena.
Decidere di aiutare i bambini, però, si rivelò la scelta giusta. La bambina più grandicella, la stessa che Yuri e gli altri avevano visto non molto tempo prima, conosceva molto bene la strada che portava al villaggio cui Leo era interessato. Il suo aiuto, aggiunto ai pezzi di informazioni che Behrooz aveva fornito prima di fuggire, fu sufficiente perché la squadra riuscisse a non perdersi.

Inoltre Leo era così desideroso di concludere la missione e portare ciò che rimaneva della sua squadra al sicuro, che li fece proseguire a marce forzate. Ordinò anche ai suoi uomini di portare i bambini e lo fece egli stesso quando le loro gambe corte non poterono più tenere il passo degli adulti. Soprattutto, nonostante le proteste di Chris, si rifiutò di smettere di ignorare il dolore causato dalla ferita fresca che aveva nell’addome. Quando questa s’infettò, strinse semplicemente i denti e si appoggiò a Guang Hong per avere un sostegno.
Leo de la Iglesia collassò prima che passassero altri tre giorni, cadendo a terra a poche miglia dal paese. Morì nelle ore successive, febbrile e delirante. Gli altri fecero l’unica cosa che poterono: seppellirono il corpo, registrarono le coordinate e procedettero. Era stato detto loro che il villaggio era controllato da una tribù locale che simpatizzava con un gruppo di mujaheddin. Si credeva che avrebbe potuto fornire un supporto valido nella lotta contro i sovietici.
Perciò nessuno tra gli uomini di Leo era pronto a essere accolto da una raffica di proiettili ai confini del paese.
Uno di loro fu ucciso proprio lì, sul posto. Sotto ordine di Chris, i sopravvissuti - tre, esclusi lui e Guang Hong - si ritirarono.
A quanto pareva - come avrebbero scoperto presto - l’ex capo era morto, lasciandosi dietro un figlio troppo debole per conservare il potere. Era rimasto in carica appena un giorno prima di venire ammazzato da una tribù rivale. Dal vuoto di potere un altro uomo aveva preso il controllo. Il nuovo capo auto-nominatosi aveva fatto leva sulla rabbia e l’orgoglio dei paesani per fomentare l’idea che chiunque altro fosse un nemico e incoraggiò la sua gente a chiudersi in un totale isolamento.
Trascorsa un’altra lunga notte di riflessione e di discussione, Christophe aveva deciso di trovare riparo in una caverna che aveva scorto nelle vicinanze, lanciare un segnale di soccorso via radio e aspettare.
Nelle loro condizioni cercare di tornare sarebbe stato un suicidio; erano in un territorio che conoscevano a malapena, soldati americani che non avrebbero dovuto trovarsi lì.
Sarebbe stato un suicidio considerando anche quanto poca acqua e razioni militari erano rimaste; abbastanza per sopravvivere se non si muovevano - Guang Hong aveva scoperto un torrente non ancora secco a poche miglia di distanza - ma troppo scarse per coprire distanze più grandi.

Preoccupati e indecisi su cosa fare, dopo un altro periodo di tormentata riflessione, Christophe decise di mandare i due bambini più grandi ad indagare. Non tornarono. A volte, tuttavia, li si potevano vedere gironzolare in lontananza. Fu almeno qualcosa che fece sperare a Chris che non fossero tenuti prigionieri. Per quanto riguardava i due bambini più piccoli che erano con loro, semplicemente sgattaiolarono via sotto i loro occhi per correre contro le gambe di una donna che in quel momento passava di lì con il proprio figlioletto legato alla schiena. A quanto pareva non tutti gli abitanti del villaggio erano ostili - o forse veniva da qualche altra parte - perché, dopo aver esaminato e ascoltato i bambini, li prese ciascuno per una mano e li condusse via. Chris li seguì con lo sguardo finché non divennero piccoli come puntini sulla carta.
A volte uno dei bambini che avevano mandato la prima volta, l’unica ragazza del gruppo, una sorella dal fare materno che aveva sempre il fratellino attaccato alle gambe, usciva di nascosto dal villaggio e portava loro da mangiare. Tuttavia, ogni volta che cercavano di chiedere informazioni sulla situazione, si scontravano con un silenzio pieno di paura. Eppure sembrava ben nutrita, pulita, e non mostrava alcun segno visibile di essere stato picchiata. E comunque, nella loro situazione avrebbero potuto fare ben poco per aiutarla.
Soprattutto, col passare dei giorni, le speranze che qualcuno venisse a salvarli si riducevano sempre più. Alcuni dei sopravvissuti divennero inquieti.

“Umm, Yuri, non riesco a respirare!”
Era forse la terza volta che Guang Hong cercava di sottolineare questo fatto, alzando la voce a ogni tentativo, ma Yuri non aveva ancora mostrato alcun segno di volerlo lasciarlo andare.
“È qualcosa che fa normalmente?” Chiese Victor a JJ in un sussurro. JJ scrollò le spalle, perplesso tanto quanto Victor.
“Yuri!”
Questa volta l’esclamazione fu accompagnata dalla sottile minaccia di un calcio nei testicoli. Sospirando Yuri liberò Guang Hong. Guang Hong barcollò un poco e si guardò intorno. Un diluvio di domande eruttò dalla sua bocca, un fiume che poteva essere riassunto con un “perché sei qui” e un “perché sei con i sovietici?”
“È una lunga storia” rispose Yuri. Guang Hong annuì. Guardò con avidità la borraccia di Yuri mentre i suoi occhi andavano su e giù. Yuri gliela passò. Guang Hong deglutì l’acqua in lunghi sorsi, ignorando del tutto il consiglio di rallentare.
“Soldato Katsuki, comprendo l’importanza di questo momento, ma non possiamo rimanere qui” intervenne Georgi. Tutti gli altri annuirono il proprio accordo.
“Vero, dobbiamo avvisare gli altri. Hai detto che c’è stato un problema con il villaggio? Dovremo discutere della situazione” riassunse Victor. Mentre la sua voce si riduceva al silenzio, Guang Hong afferrò il braccio di Yuri.
“È quello che penso?” sibilò, camminando lungo il sentiero. Yuri scrollò le spalle.
“Dipende. Cosa pensi?”
“Che Victor Nikiforov ha appena parlato con noi!”
“Allora, sì, è quello che pensi.”

Ci fu una pausa, un silenzio pieno di curiosità repressa, nell’angoscia che impregnava il momento. Certo, avendo trovato qualcuno della squadra di Leo, la missione non si era dimostrata un completo fallimento. Eppure, nessuno osava nemmeno immaginare che fosse tutto finito lì. Soprattutto, considerando come gli abitanti del villaggio avevano trattato Yuri e JJ, soldati in uniforme dell’esercito americano che avrebbero dovuto essere alleati. Tuttavia erano in guerra e le alleanze potevano cambiare rapidamente come il vento. Poi c’erano Yuri, Otabek, e il prigioniero che erano rimasto e con cui il gruppo doveva riunirsi.
Yuri fece un respiro profondo. Un passo alla volta.
E il primo passo, apparentemente, fu quello di rimettere insieme la squadra.
“Rimanere qui non è sicuro. Torniamo indietro!” Ordinò Victor, cominciando a camminare lungo il sentiero. Tutti gli altri lo seguirono in fretta. Yuri si tenne vicino a Guang Hong, felice di vederlo provato, ma vivo e tutto sommato in salute.
“E gli altri?” chiese finalmente Yuri. Guang Hong rallentò il ritmo, una nuova pesantezza nelle sue parole.
“Eravamo otto. Uno è stato ucciso nell’imboscata. Leo è morto pochi giorni dopo, setticemia. Gli altri hanno disobbedito agli ordini di Chris di rimanere uniti e hanno disertato un paio di giorni fa. Siamo solo io e Chris adesso”, riepilogò con voce monotona, come se stesse ripetendo un rapporto militare. Yuri ascoltò in silenzio.
Gli fece perdere contatto con la realtà per una frazione di secondo. Le informazioni, però, erano lontane, come se destinate a qualcun altro. Leo era morto, proprio come Phichit, come Emil, come il soldato Yegorov, come tutti i soldati in quella giungla boliviana. Ma la morte suonava come un sogno, una leggenda in una terra lontana. La morte era solo una parola, un suono e inchiostro su carta. Significava tutto e niente
Leo era morto. Phichit era morto. Guang non aveva chiesto a Yuri notizie sul Caporale Chulanont. Yuri temeva quel momento. Deglutì, indeciso se dire subito a Guang Hong la verità o se aspettare un momento più tranquillo. Non che ci fosse un momento giusto per dire a qualcuno che un caro amico era saltato in aria. Nel ricordare il fatto Yuri sentì lo stomaco torcersi.
Qualsiasi altro possibile pensiero sull’argomento fu bloccato sul nascere dalla voce severa di Plisetsky che li stava aspettando. C’era una familiare rabbia nel suo tono, qualcosa che Yuri aveva imparato ad accettare come parte della personalità dell’uomo. C’era anche una nota di preoccupazione e di sollievo. Ora Yuri non aveva dubbi che Plisetsky si preoccupasse per tutti. I suoi modi bruschi erano solo il suo modo di mostrarlo.
“Per favore, dimmi che non ho aspettato per niente!” sbuffò verso Victor.
L’uomo scosse la testa. “Negativo” e mentre lo diceva, sollevò l’indice verso Guang Hong. Plisetsky strizzò gli occhi.
“Sergente de la Iglesia?” domandò, abbastanza forte perché Guang Hong lo sentisse.
“Soldato semplice Ji” rispose Guang Hong. Plisetsky corrugò la fronte, frugando nei suoi ricordi per associare alcuni dettagli a un nome che non sentiva per la prima volta. Quando ricordò, non più di dieci secondi più tardi, annuì il proprio riconoscimento.
“È...” Victor gli lanciò un’occhiataccia: “Sei l’unico sopravvissuto?” riprese Plisetsky parlando direttamente a Guang Hong. L’uomo ripeté quello che aveva detto a Yuri. Mentre parlava, lo sguardo si muoveva di qua e di là, finché non si fermò su Otabek e Behrooz, in attesa a un paio di metri di distanza. Sentendosi osservati, ricambiarono lo sguardo. Non ebbe nemmeno il tempo di sbattere le palpebre che Behrooz aveva coperto la distanza e ora stava in piedi di fronte a Guang Hong.

Aprì la bocca, ma se fosse per scusarsi di averli abbandonati o per dire qualcos’altro, nessuno lo seppe perché l’intervento di Victor lo interruppe.

“Puoi guidare me e il Soldato Katsuki al Maggiore Giacometti?” Chiese Victor. Guang Hong cominciò a muoversi, gesticolando per invitare il Generale a seguirlo.
“Nel frattempo, confido che il Capitano Popovich e il capitano Plisetsky trovino un piano per condurci tutti al sicuro!” aggiunse.
“Vengo con te!” gli disse Plisetsky. Vittorio accettò senza ulteriori remore, limitandosi a lanciare a Georgi un’occhiata significativa.
Guang Hong li condusse lungo un sentiero secondario fino a una grotta semi-nascosta che egli e Giacometti avevano eletto a loro rifugio. Della cenere indicava i resti di un fuoco acceso di notte per tenerli al caldo o bollire l’acqua. Impronte di stivali erano sparse su tutto il pavimento coperto di sabbia, tra qualche pacchetto di cibo ormai vuoto. Una radio forse rotta ronzava in sottofondo.

Il Maggior Giacometti invece stava aspettando davanti alla grotta, un fucile armato e puntato verso l’esterno. Guang Hong, che aveva detto agli altri tre uomini di aspettare un momento, gli fece segno di abbassarlo. Giacometti lo fece con sospetto nei suoi occhi. Proprio come era accaduto con Guang Hong, stava diventando paranoico.
“È tutto a posto!” lo rassicurò Guang Hong, forzando allegria nella sua voce. “Ci hanno trovato!” continuò. Come se si fosse trattato di un segnale, Yuri si avvicinò. Vedendo la sua uniforme, il viso di Chris s’illuminò.
Poi Plisetsky imitò Yuri - Chris curvò un dito sul grilletto. Yuri spiegò in fretta che i sovietici, in via straordinaria, erano dalla loro parte.
Infine arrivò Victor. Di fronte a un vecchio amico di cui aveva da tempo perso le tracce, Chris si trovò senza parole. Egli e Victor stettero lì, in silenzio.
Christophe fu il primo a romperlo.
“Victor Nikiforov, è passato molto tempo” esordì, avanzando, le braccia incrociate sul petto.
“Davvero molto tempo” ammise Victor, timidamente.
“Venti anni” sottolineò Christophe, le braccia ancora incrociate. “Guardati, dove è andato a finire il vecchio Vitya?”
“Potrei farti la stessa domanda.”
Christophe sollevò un sopracciglio. “Non sono mai andato da nessuna parte. Non dimenticarlo.”
Non mostrò alcun segno di voler districare le braccia.
“Ascolta, Chris, mi dispiace. Volevo scriverti, ma mi conosci. Sai quanto sia pessima la mia memoria” le scuse di Victor suonavano più come una supplica.
“Sì, lo so troppo bene” ammise l’altro. Poi, per grande sorpresa e sollievo di Victor, scoppiò in una risata. Circondò Victor in un abbraccio da orso.
“Mi sei mancato, amico mio” esclamò Chris, dandogli delle grandi pacche sulla schiena. Stava per chiedere notizie sulla sua vita, quando il tossicchiare discreto di Katsuki e le urla più irate di Plisetsky attirarono la loro attenzione.
“Buon Dio. Ora possiamo concentrarci? Non vedo l’ora di porre fine a questo casino” gridò il primo.
Poiché le preoccupazioni di Yuri Plisetsky erano fondate, si affrettarono a riunirsi con chi era rimasto indietro e mettere qualche miglia tra loro e il villaggio.

Tra una cosa e l’altra, il tardo pomeriggio arrivò presto, con il sole che già scendeva sull’orizzonte, lontano nel cielo occidentale. Era stata una giornata piena di eventi, dalla lotta tra i due Yuri a Plisetsky che per poco non si era fatto un volo di cento metri nel vuoto. Senza considerare l’ondata di emozioni causata dal fatto che solo Guang Hong e Chris erano sopravvissuti, mentre Leo non era stato così fortunato. Tutto sommato, a Yuri pareva che fosse più tardi di quanto indicassero davvero le lancette.
“Sai. È stata una sorpresa non vederti con Phichit” iniziò Guang Hong, una mano amichevole sulla spalla di Yuri. Yuri ebbe un sussulto. Sentì la bocca seccarsi e le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi
“Voglio dire, eravate quasi inseparabili” continuò Guang Hong, il tono di una persona che finalmente si lascia andare dopo un lungo periodo di tensione.
Yuri si sentì soffocare. Le parole gli si bloccarono in gola. Lo strozzavano
“Il Caporale Chulanont è morto ieri” intervenne Plisetsky. Guang Hong lo fissò. Guardò Yuri come se si aspettasse una confutazione.
“Cosa?” Esclamò, lentamente. Ogni lettera grondava della speranza di una contraddizione.

“Gli ho sparato io” sottolineò Plisetsky. Guang Hong afferrò Yuri per le spalle. Le sue dita agitate scavarono nella carne. Lo scosse.
“Cosa sta dicendo? Perché stai con questi uomini? Cosa sta succedendo?”
C’erano lacrime negli occhi di Guang Hong.
Guardarli faceva male. Ha fatto schiacciare il torace di Yuri. Quando parlò, la sua voce era piatta, come se stesse ricordando qualcosa successo a uno sconosciuto.
“Ha dovuto farlo. È stato per pietà. Phichit aveva calpestato una mina. Non sarebbe sopravvissuto. Lui ...” non poté continuare. Tirò su col naso.

Il tema più pressante era di certo decidere come separarsi e riportare ogni gruppo al sicuro. Siccome l’Armata Rossa era ancora in territorio afghano, imbattersi in soldati americani avrebbe avuto effetti disastrosi. Di ciò erano stati ben consapevoli per tutta la durata della missione. Era quindi indispensabile che gli americani lasciassero il Paese appena possibile.

Il Capitano Popovich, che nonostante la sua animosità verso Victor, aveva effettivamente obbedito al suo velato ordine di pensare a un buon piano per risolvere la situazione, stava ancora discutendo con Otabek e Michele per prepararsi per quanti più eventi imprevisti possibile. Aveva suggerito agli americani di raggiungere il confine pakistano, dicendo che una volta attraversato, sarebbero stati al sicuro; più al sicuro di quanto non fossero allora, almeno. Il problema era come raggiungerlo. Camminare fino al confine era fuori questione. Né potevano usare veicoli militari. Chiamare via radio un elicottero per raccoglierli era un’opzione ancora meno percorribile. Quanto più discutevano, la mappa a portata di mano, più si sentivano perduti. Victor, rimanendo fedele alla sua fama di essere uno stratega, suggerì di usare macchine civili. La proposta fu accolta da un mormorio di assenso. Tuttavia il vero come fu lasciato a ulteriori dibattiti.

“C’è un villaggio neutrale qui a valle. Tre giorni di cammino al massimo. La strada sarà in discesa” intervenne Behrooz ad un certo punto, dopo l’ennesima discussione inutile. Parlò in un inglese incerto, dando a Otabek la responsabilità di tradurre le parti in Pashtu e, così facendo, indicò il percorso sulla mappa.
La promessa di un compenso, forse un pizzico di corruzione, avrebbero garantito loro una macchina o due con cui viaggiare fino al confine. Behrooz continuò poi suggerire ciò che, come locale, considerava la strada più sicura al confine. Ancora una volta l’ha tracciato sulla mappa.
Il sentiero verso la valle fu per Yuri una vago ricordo. Behrooz li guidò su nuove vie, scorciatoie nascoste e rapide, lungo le quali corsero quasi senza interruzioni per due giorni. I muscoli di Yuri gridarono di dolore e i polmoni bruciarono. Sentì l'intorpidimento strisciare sotto pelle.

All’alba del terzo giorno, raggiunsero un punto in cui il sentiero si biforcava. Da un lato scendeva fino alla valle. Dall’altro curvava di nuovo in salita lungo un sul pendio. Come spiegato da Behrooz, riscendeva nuovamente a pochi chilometri di distanza.
“Il villaggio è a circa quindici miglia nell’entroterra” precisò. Yuri annuì. Sovietici e americani si fissarono a vicenda. Il tempo dei saluti era arrivato. Questioni ancora lasciate in sospeso richiesero improvvisamente la loro attenzione. Una di esse era il destino di Behrooz.
Yuri aveva promesso ingenuamente - assicurato - che Behrooz avrebbe rivisto presto la sua famiglia, ma si era trattato di secoli prima. Guardò i sovietici, diventati così familiari in poco più di una settimana. Distolse lo sguardo da Victor perché gli faceva male al petto, saltò Georgi e si fermò sull’altro Yuri.
Rimasero lì in uno scomodo silenzio. Fu Behrooz a romperlo. Fece un passo verso Plisetsky e, mentre lo faceva, Yuri notò come la sorveglianza sull’uomo fosse diventata sempre meno rigorosa di giorno in giorno. Il capitano Plisetsky aveva da tempo smesso di lanciare minacce sulla vita del prigioniero.
Così, quando le loro strade si separarono, Yuri non seppe che tornando alla base sovietica, Plisetsky girò la testa dall’altra parte, mormorando a a Behrooz di correre e non guardare indietro. La storia ufficiale fu che era morto cadendo in un crepaccio.
“Beh, lo so che è strano da dire, ma grazie di tutto” ripeté Yuri, non riferendosi a nessuno in particolare. Né si aspettava una risposta o quel genere di promesse che accompagnano sempre il salutare un buon amico. Infatti, senza dire una parola, Yuri Plisetsky gli diede la schiena e si avviò, il tacito segnale che per gli altri era giunto il il momento di seguire il suo esempio. Presto il Tenente Altin fu al suo fianco, Behrooz un poco avanti. Il Capitano Popovich sembrò ruminare su qualcosa da dire, ma alla fine scartò l’idea che gli aveva attraversato la sua mente.
Solo Victor non si mosse. Al contrario, si avvicinò a Yuri, annunciando che li avrebbe accompagnati fino al villaggio e al confine pakistano. Fece poi orecchie da mercante alle proteste di Plisetsky su quanto fosse pericoloso.
“Sono sotto la mia responsabilità” affermò. La sua voce aveva un suono severo e duro che Yuri aveva imparato a riconoscere, quello dedicato alle occasioni in cui Victor non concedeva alcuna mancanza di rispetto alla sua autorità. Era il tono che aveva usato durante la tempesta di sabbia. Era il tono di quando voleva usare il potere che gli derivava dall’essere il fiore all’occhiello dell’Armata Rossa.
Avrebbe accompagnato gli americani fino al confine e oltre, lasciandoli solo quando era sicuro della loro sicurezza.
“Capisci che non sono dei bambini, vero?” Esclamò Plisetsky. “Non sono cadetti che non hanno mai fatto una missione in solitaria!”
Victor rispose che, sì, era ben consapevole del fatto che Plisetsky aveva così gentilmente sottolineato. Questo, tuttavia, non cambiava nulla. Aveva preso la sua decisione e Yuri Plisetsky era libero di pensare che si trattasse di una supplementare misura di sicurezza, se lo desiderava. Coì Victor gli disse quando l’altro lamentò di dover trovare una buona scusa per giustificare l’assenza di Victor.
“Sicurezza per cosa? Alla base nessuno a parte di Yakov sa di loro,” indicò in fretta Yuri e gli altri - “Sanno solo che siamo partiti per consegnare il prigioniero e fare un po’ di addestramento sul campo.”
“Allora dovrai inventarti qualcos’altro. Hai un sacco di tempo, Capitano “disse Victor, in un tono che non ammetteva repliche. I suoi occhi lanciarono Plisetsky un’occhiata quasi di supplica. Non era il Generale che parlava, ma l’uomo, quel Victor Nikiforov, che si era innamorato nel momento sbagliato con un uomo che non avrebbe dovuto amare. Non aveva detto a Yuri nulla sui suoi sentimenti per dimostrare rispetto verso suo dolore; quell’ultimo viaggio poteva essere la sua ultima occasione. Plisetsky lo accettò in silenzio.
“Bene!” gridò.
“Spero che i camion che abbiamo lasciato siano ancora lì e funzionanti” gli disse Victor. Poi continuò: “Ti manderò un messaggio una volta attraversato il confine.”
Plisetsky sbuffò la sua approvazione.
Per una frazione di secondo, Yuri fu contento per la decisione di Victor per nessun altro motivo se non che avrebbe avuto più tempo per confessare ciò che sentiva il suo cuore. Le sue preghiere silenziose rivolte al vuoto erano state accolte. Poteva avere ancora qualche giorno in più con Victor, godendo anche solo nella sensazione che la sua vicinanza gli provocava. Yuri si sentiva come un morto di fame, e Victor era l’unica cosa in grado di soddisfarlo. Desiderò di poter indulgere in un’altra chiacchierata tranquilla, proprio come quella di poche notti prima e poi un’altra e un’altra ancora. Il suo corpo, le sue mani, il suo volto dolevano per la perdita di quel tocco da cui prima si era schermito.
Poi, mentre Yuri gioiva dell’inaspettata opportunità, ricordò che era stato Phichit a spingerlo a confessare i propri sentimenti. Ricordò che il suo amico non c’era più, quanto orribile fosse la sua morte e tutto il resto. Speranze e desideri crollarono in un opaco nulla. Non aveva alcun diritto di usare il suo tempo supplementare con Victor per i suoi egoistici scopi. L’amore di Victor non era qualcosa di cui fosse degno.
“Non sei così male” l’inaspettato complimento di Plisetsky lo riportò alla realtà. Aveva le mani sollevate a mezz’aria come se non sapesse cosa farci. La mente di Yuri tornò di nuovo al loro primo incontro, quando lo stesso uomo lo aveva preso in giro e dubitato delle sue capacità. Non credeva che Plisetsky fosse completamente cambiato o lo considerasse già un amico, ma certamente qualcosa era diverso. Yuri non sapeva nulla dell’altro, ma lo aveva osservato. Aveva assistito a come Plisetsky era lentamente uscito dal proprio isolamento. Aveva visto il suo muro di reticenza aprirsi a poco a poco.
Negli ultimi giorni, Plisetsky aveva mangiato con loro la sera. Parlava ancora nel suo linguaggio colorito, ma con meno insulti indirizzati a Behrooz o agli americani. La rabbia era mutata in schiettezza e in un forte senso di giustizia. Soprattutto Yuri vide un giovane che teneva la testa e le spalle alte nonostante la grande responsabilità che riposava su di esse.
Qualunque cosa Yuri vide nel suo omonimo, né amico né nemico, non gli impedì di stringere l’altro in un improvviso abbraccio spaccaossa.
“La prossima volta ti farò pagare per questo!” giurò Plisetsky quando Yuri lo lasciò andare.
“Sarò pronto!”
Poi tutto andò avanti veloce.

Siccome era più facile che camminare, praticamente corsero giù per il sentiero, con gli zaini che rimbalzano sulle spalle ad ogni passo. Polvere e piccole rocce saltavano intorno agli stivali quando le suole sbattevano contro il terreno. Essendo i più alti, Victor e Chris erano anche i più veloci. Le loro falcate coprivano quasi due metri alla volta. Per rimanere sul sicuro, si erano disposti in una formazione a colonna, per quanto lo permettessero le dimensioni della strada.
Victor, JJ e Michele coprivano i lati esterni, essendo meno stanchi, almeno rispetto agli altri. Tuttavia, questioni come la formazione da adottare sembravano aver perso importanza quando l’unica cosa che il gruppo desiderava era mettere fine a una missione che, come Plisetsky aveva detto una volta tempo prima, era condannata fin dall’inizio.
Si fermarono a malapena di notte, concedendosi poche ore per prendere il fiato e lasciare che le menti vagassero in uno stato di dormiveglia, ognuno perso nel suo piccolo mondo. Yuri e Guang Hong trovarono conforto nella reciproca compagnia, abbandonandosi ai ricordi di quando erano ancora dei giovani in addestramento, il dolore che si trasformava in malinconia per ogni aneddoto condiviso.
Ti ricordi quando?

Ci furono deboli sorrisi sotto occhi pieni di lacrime.
Non lontano, profili appena visibili nella notte quasi nera, la luna nascosta dietro alcune nuvole di passaggio, Victor e Chris chiacchieravano col calma. Parlarono metà in inglese, metà in francese, con alcune parole russe gettate qua e là come ricordo dei tempi trascorsi insieme a Leningrado durante la loro giovinezza. Non tanto sconosciuti, ma non più amici intimi, tentando ciascuno di raggiungere la persona che l’altro era stato un tempo, cercarono un terreno comune per riempire il divario di vent’anni o ricominciare da capo.
Dove sei stato? Cos’hai fatto? Come siamo finiti così?

Soprattutto c’era una tensione palpabile che crebbe nell’aria a ogni passo, ogni parola. Era la tensione che spesso accompagnava la fine di un compito, quando si osa abbassare la guardia e il disastro colpisce. Quindi, quando il villaggio di cui Behrooz aveva parlato apparve davanti ai loro occhi, iniettati di sangue per il non aver dormito in giorni, nessuno ebbe il coraggio di sentirsi sollevato. Era come una maledizione, l’idea che nel momento in cui avrebbero osato provare gioia, qualcosa sarebbe arrivato a strapparla via.
Scelsero Yuri per approcciarsi agli abitanti del villaggio. Le ragioni dietro a una simile scelta erano molteplici. Dopo Giacometti Yuri era il secondo in ordine di anzianità, non contando Victor, e più esperto di Michele o JJ o Guang Hong.
“Inoltre, hai un talento per gestire la gente”, affermò Guang Hong per rassicurare le sue preoccupazioni inespresse. Forse, aggiunse Guang Hong, era perché Yuri era cresciuto in un resort.
Yuri non ebbe né il cuore né la forza per ricordargli che l’ultima volta che aveva visitato le terme era stato quando aveva diciassette anni, metà della sua età ora. Anche allora tra scuola e le ore trascorse allo studio di ballo, la quantità di lavoro fatto presso il resort era stato minimo.
Eppure Yuri fece un respiro profondo e annuì. Era vero che era stato educato alla cortesia. Anni nel duro ambiente militare non erano stati sufficienti perché Yuri se ne dimenticasse.

Con i locali discusse l’acquisto di due automobili, previa promessa di future compensazioni. Le auto erano vecchie, con la carrozzeria rigata dalla sabbia e una sbuffò fumo nero quando fu accesa. Tuttavia, sembravano funzionare. Yuri negoziò col loro anche per qualche tanica di benzina. Comunicò poi con gli altri via radio per informarli dell’esito positivo della trattativa. Gli abitanti del villaggio furono accoglienti e gentili, così gli altri poterono raggiungere Yuri. Tutti, tranne Victor, perché Yuri ritenne più sicuro non lasciare che gli afgani locali venissero a conoscenza della presenza di un russo nelle vicinanze. Potevano anche essere tranquilli, ma preferiva non rischiare. Quindi Victor fu momentaneamente lasciato indietro, in attesa di essere recuperato una volta che lo scambio per le automobili fu completato. Michele e Chris si assunsero l’onere del primo turno di guida.
Victor nel frattempo aveva riposto la giacca dell’afganka nello zaino per sicurezza. Una volta in macchina, tolse la sicura al fucile, puntandolo verso il finestrino dell’auto, quale ricordo della minaccia che ancora persisteva sulle loro teste.
La cosa che Yuri ricordava di più del viaggio fino in Pakistan fu la sua disperata lotta per non addormentarsi. Sentiva l’esaurimento penetrare fino alle ossa e il detto “troppo stanco per dormire” di certo non si applicava a lui. Al contrario, sarebbe entrato nel dolce abbraccio di Morfeo nell’istante in cui avesse chiuso gli occhi per più di due secondi. I movimenti dell’automobile dalla strada accidentata non lo infastidivano. Invece erano come il dondolio di una culla, che lo ninnava e lo attirava in un sonno a cui non poteva abbandonarsi.
Tuttavia, nonostante i propri sforzi, a volte il sonno aveva la meglio. Allora Yuri si ridestava a ogni buca e roccia con cui l’auto si scontrava. I suoi occhi si aprivano, le mani strette intorno al fucile grazie alla memoria muscolare. Ogni volta che accadeva Yuri si pizzicava le guance e le braccia per tenersi sveglio.
Una volta il corpo di Yuri ondeggiò di lato mentre scivolava involontariamente nel sonno così che la sua testa pesante finisse posata sulla spalla di Victor. Se il Generale sorrise con affetto, Yuri non lo seppe. Si svegliò ancora una volta, scoprendo di avere il viso pressato nell’incavo del collo di Victor, e si profuse in scuse. Si conficcò le unghie nel palmo così forte da far stillare gocce di sangue.
“Non è un problema se dormi un po’ di più” cercò di rassicurarlo Victor, senza successo.
“Dormirò quando sarò a casa” rispose Yuri semplicemente.

Il viaggio durò diversi giorni, guidando quasi senza interruzioni, a parte le soste inevitabili per darsi il cambio per evitare incidenti. Tuttavia, ogni turno durava ore - quello di Yuri fu di sei ore. Durante il viaggio non prestò attenzione ad altro se non alla polvere e alla sabbia sulla strada davanti a lui e alle voci soffocate che venivano dall’autoradio. Talvolta dei villaggi anonimi entravano nella sua visione periferica, ma Yuri si preoccupava poco di loro, più interessato a farsi notare il meno possibile. Ogni volta che un veicolo militare sospetto appariva in lontananza, gli saltava il cuore in gola, solo per ridiscendere nella sua normale sede quando passava il pericolo.
Come se la Dea Bendata avesse finalmente rivolto un occhio gentile su di loro, raggiunsero il confine senza ulteriori complicazioni, sicuri dietro l’apparenza di due vecchie automobili che si facevano gli affari propri nel vasto nulla delle pianure afgane.

Attraversarono il confine in un punto in cui la sorveglianza era più debole. Nel momento in cui passarono la linea immaginaria che divideva i due Paesi, Yuri osò guardarsi indietro un’ultima volta. Poi volse gli occhi davanti a lui, quasi prevedendo una chiara differenza nel paesaggio come prova dell’essere in una nazione diversa. Ma i dintorni non cambiarono affatto: le stesse montagne nude e le colline, le stesse distese coperte di sabbia, gli stessi villaggi e lo stesso filo spinato.
Si diressero verso un aeroporto piccolo e abbandonato non lontano da Quetta, le luci dell’auto che brillavano luminose nella notte stellata. Avevano guidato tutta la notte, il sole stava per salire sull’orizzonte quando finalmente raggiunsero la città. Dopo essere stato seduto per così tanto tempo in uno spazio ristretto, a Yuri facevano male le gambe, tutte un formicolio. Si toccò con attenzione il polpaccio. Il gesto mandò una spiacevole scossa per tutto il resto corpo. Poter finalmente allungare gli arti fu un sollievo. Yuri barcollò nel momento in cui i piedi toccarono l’asfalto.

“Contatterò il Capitano Plisetsky” li informò Victor, dopo aver preso la radio dal baule dell’auto. Piegato sul cofano, con una mappa stesa davanti a lui, tenuta in posizione con il gomito, e una torcia elettrica nell’altra mano, calcolò le coordinate da riferire al superiore dei soldati americani.
“Potete iniziare a trovare un posto dove riposarvi” continuò, puntando un dito verso la struttura in cemento che ospitava il terminal principale dell’aeroporto. Il vecchio parcheggio fuori dall’edificio era ancora metà riconoscibile, le linee sul pavimento sbiadite a causa del sole e dalle piogge occasionali.
L’interno dell’aeroporto era vuoto. Quasi tutto il mobilio era stato portati via o distrutto per l’abbandono e il vandalismo umano. C’erano ancora alcune sedie di plastica attaccate al pavimento dove l’area delle partenze e degli arrivi si era trovata un tempo. Yuri si avvicinò alla più a imitato presto dagli altri. Michele si guardò intorno.
“Pensi che questo posto abbia un gabinetto?” Chiese ad alta voce.
“Be’, è un aeroporto. Dovrebbe.”
“Intendevo un gabinetto che funzioni” chiarì Michele.
Yuri scrollò le spalle. “Penso che tu debba scoprirlo. Non ho grandi speranze, ma sarebbe fantastico. Il mio regno per una doccia “.
Gli altri ridacchiarono.

Il maggiore Cialdini li raggiunse dopo cinque giorni, vestito in semplici abiti civili e guidando una macchina anonima. Sembrava stanco, ma in generale stava bene. Nel vederlo Yuri lasciò che il suo corpo rilassarsi un poco dalla tensione che aveva mantenuto fino ad allora. La possibilità di tornare a casa si diffondeva già in bocca col suo piacevole sapore. Scattò sull’attenti quando il suo superiore si avvicinò. Gli altri fecero lo stesso. Victor si limitò ad annuire.
Il Maggiore si avvicinò, l’espressione indecifrabile. “Vedo che ti sei preso cura dei miei ragazzi!” Disse.
Victor fece una smorfia: “Non abbastanza, temo.”
Più che altro lo feriva vedere il guscio di essere umano che Yuri era sul punto di diventare. I suoi sorrisi stanchi erano vuoti. I suoi occhi erano sempre fissati in un punto lontano come se non volesse affrontare la realtà. Quando rispondeva, lo faceva a monosillabi, gentile ma monotono.

Se una risata sfuggiva mai dalle sue labbra in risposta a una battuta di Guang Hong o Chris, perché anche nel dolore ci può essere spazio per divertimento, una ombra scura calava su di lui nel momento in cui si accorgeva di quello che stava facendo. La tristezza sui suoi tratti era così evidente. Non era la prima volta che Victor vedeva qualcuno nella stessa condizione di Yuri. Sapeva che non era il primo a subire la perdita di un amico, né sarebbe stato l’ultimo. Sapeva anche che un giorno sarebbe guarito, l’immagine del Caporale Chulanont spazzato via da una mina ridotta a un ricordo sbiadito, il profondo senso di colpa trasformato nella volontà di non sprecare la propria vita.
Tuttavia, tale consapevolezza forniva poca consolazione, quando sotto i suoi occhi l’uomo che inconsapevolmente gli aveva restituito la vita stava scivolando lentamente nella profonda fossa della depressione.
Yuri era così diverso dalla persona che si era ubriacata e gli aveva detto ridendo che avrebbe anche fatto la spia per fargli piacere. L’uomo che aveva conquistato l’interesse di Victor era stato un ammasso balbettante che aveva portato luce nel momento più oscuro della sua vita. Era stato una novità e un alito di aria fresca in mezzo a tanti polverosi burocrati. La persona davanti a lui sembrava aver perso la capacità di sorridere. I suoi occhi castani, una volta caldi e scintillanti di vita, fissavano il nulla.
E Victor non era ancora pronto a lasciarlo andare. Alcuni giorni prima, in procinto di attraversare il confine pakistano, Victor aveva abbassato la voce perché Yuri fosse l’unico a sentirlo sul sedile posteriore.
Aveva allungato una mano e l’aveva posata sul ginocchio di Yuri. L’uomo aveva sussultato, ma non aveva né rifiutato né ricambiato il gesto.
“Sai, non devi andare con gli altri. Se vuoi, posso trovare un modo per farti rimanere. Mila lavora per il KGB, posso ottenere un nuovo passaporto, una nuova identità. Posso farti apparire morto. Posso ...” continuò, la voce sull’orlo di una disperata supplica.
Ma Yuri aveva alzato la mano per farlo tacere. Si era agitato sul sedile e aveva distolto lo sguardo. Nonostante i suoi sforzi per nasconderlo, Victor aveva percepito il lieve tremito delle sue membra. Non aveva bisogno di vedere il viso di Yuri per immaginare i denti stretti, i pugni chiusi nell’afferrare la camicia dove batteva il suo cuore. Poteva quasi immaginare quali pensieri stessero vagando nella mente di Yuri.
Gettare via il suo passato per una debole speranza, la vaga illusione che il suo idolo provasse qualcosa per lui. Assurdo.
“Ho una famiglia. Non posso far loro questo” fu la risposta che ricevette alla fine.
Se Yuri aveva mai creduto nei sogni, aveva smesso molto tempo fa, e se era rimasto una scintilla di fantasie, la testa maciullata di Phichit l’aveva spazzata via.
In profondità, Victor non poté che accettare. Pensò alla sua famiglia, a quel padre che lo aveva perseguitato tutta la sua vita e che ora era sottoterra, sotto una lapide uguale a centinaia di altri in un cimitero di Mosca. Pensò alla madre, ancora viva, ma piccola e forte.
“Capisco.”
Non avevano più affrontato l’argomento. Finora
Sapendo di non poter più rimanere in Pakistan, Victor si avvicinò a Yuri quando l’uomo si fu seduto da solo per mangiare alcune razioni. In preda alla disperazione, si chinò vicino a lui e ripeté la propria proposta. Non era il Generale Nikiforov, l’orgoglio dell’Armata Rossa. Era Victor. Era Vitya .Era un uomo innamorato e le persone fanno follie quando sono innamorate.
“Sei sicuro della mia proposta? Abbiamo ancora tempo, se vuoi - "
“Sì, Generale, sono sicuro.”
Victor tacque all’istante. Il fatto che Yuri si fosse rivolto a lui col suo grado quando aveva sperato di essere ormai in confidenza, fu per Victor una doccia gelida.
“Capisco.”
Yuri aveva lo zaino tra le gambe, la tasca anteriore rimasta aperta. Senza dire una parola, Victor fece scivolare un pezzo di carta al suo interno, facendo attenzione a non essere visto da nessuno tranne Yuri.
Yuri non commentò il gesto. Si limitò ad alzarsi e se ne andò senza guardarsi indietro.
“Se non lo avessi visto, non crederei che vi sia saltato addosso, tre anni fa” giunse la voce di Cialdini alle spalle di Victor. Si voltò.
“Neanche io” rispose, distrattamente.
“Sapete, Generale, Katsuki ha sempre parlato di voi. Tenta di essere discreto. Immagino che abbiate notato quanto sia riservato. Ma la sua passione per voi è più visibile di quanto immagini.”
“Sì, l’essere il più giovane Generale nella storia nell’Armata Rossa è una di quelle cose che attira l’attenzione della gente e degli altri soldati” disse Victor. Non c’era emozione nella sua voce.
“Sì, immagino che sia così”.

Victor se ne andò la notte stessa, senza nessun preavviso o ulteriori addii. Avendo informato il Maggiore Cialdini della propria decisione non c’era più bisogno di ritardare la partenza.
“Dov’è Victor?” domandò Yuri il mattino seguente, stropicciandosi gli occhi. Per la prima volta da giorni aveva potuto dormire per otto ore filate e non era abituato a sentirsi intorpidito. Guang Hong stava ancora approfittando degli ultimi minuti disponibili di sonno, mentre JJ e Chris stavano facendo colazione e Michele era al bagno.
“È partito ieri sera” rispose il Maggiore Cialdini. “Sto sistemando le ultime cose per la nostra partenza. Ce ne andiamo domani al più tardi” aggiunse.
Yuri annuì. Poi si scusò per ritirarsi di nuovo nel suo dolore. Dopo il disastro in Bolivia, aveva trovato consolazione pensando che fosse impossibile sentirsi in maniera peggiore di come si era sentito allora. Cavolo se si sbagliava.
Appoggiò la schiena al muro, intontito, poiché il suo cervello ancora immerso nel sonno non riusciva ad afferrare del tutto il senso della partenza di Victor.

“Andato?” ripeté sottovoce, cominciando a vagare per l’aeroporto con la speranza di schiarirsi la testa. Era ovvio che Victor fosse partito, la tempistica era perfetta. Tuttavia nel profondo, Yuri non credeva che sarebbe successo davvero. Una parte di lui era convinta che Victor avrebbe combattuto più per lui. Dopo essere stato una componente immaginaria per metà della sua vita, Victor ne era diventato parte per un caso fortuito. Poi l’aveva abbandonata di nuovo. E nulla era successo.

Victor se ne era andato per sempre. Per sempre fuori dalla portata di Yuri. Aveva avuto l’occasione di una vita e l’aveva sprecata, ma era giusto, era come doveva essere. Non aveva mai avuto alcuna possibilità. Certe persone sono destinate a rimanere sole e Yuri era uno di loro.
Ora Victor era come se fosse morto. Dentro di sé, Yuri non era ancora pronto ad accettare l’idea. Non poteva. Si lasciò cadere sul pavimento, le mani lasciate penzoloni tra le cosce e chinò la testa. Desiderò di poter tornare indietro nel tempo, di poter riavviare tutto ancora una volta, con tutti gli errori e le opportunità sprecate che sfilavano davanti a lui.
Più tardi, in qualche modo, muovendosi come in trance, Yuri salì su un aereo che avrebbe fatto rotta verso casa. Si sedette al suo posto e, con dita tremanti, aprì il foglio che Victor aveva infilato segretamente nella zaino. Era una lettera.
Soldato Katsuki
A: Yuri Katsuki

Mio caro, Caro Yuri,
Spero che mi perdonerai se ti confesso che sono contento di aver avuto la fortuna di trascorrere questi giorni con te. So che potrebbe sembrare inopportuno alla luce degli ultimi eventi - non ci sono parole per esprimere il mio profondo cordoglio- ma questi giorni sono stati veramente i più belli della mia vita dopo un lungo periodo. Li conserverò gelosamente nella mia memoria per tutto il tempo che mi sarà concesso su questa Terra. Sono consapevole che non ti ricordi del nostro vero primo incontro, al banchetto di Ginevra nel 1985, ma lasciami dire che se il prezzo da pagare per quello che la mia vita è diventata era di incontrarti, non cambierei nulla.

Sono un uomo troppo intelligente per confondere l’amore con l’infatuazione e so che gli uomini - soprattutto se vecchi e stanchi come me - amano circondarsi di illusioni per sopravvivere in questo mondo. Ma so anche che l’amore in grado di legare una persona per sempre ad un altro può anche nascere da un infatuazione ben coltivata .
Credo di averti amato sin da notte che ci siamo incontrati.
Purtroppo il Fato non ci aveva concesso le condizioni giuste per coltivare questo sentimento ancora in boccio. Mi rammarica profondamente. Ma il mio amore è stato in ogni piccolo gesto che hai accettato, in tutte le volte in cui hai accolto il mio tocco.

Yuri dovette smettere di leggere perché le parole avevano cominciato a muoversi sulla pagina e la sua vista stava diventando sfocata. Abbassò la testa, portò la lettera al petto, là dove il suo cuore stava battendo più velocemente del solito. Poteva sentirlo pulsare nelle orecchie

Se vivessimo in un mondo diverso, oserei invitarti a cena e sarei già in un aereo diretto in America. O in Giappone. O dovunque tu voglia andare. Invece ci separano una cortina di ferro, una guerra e tanti pregiudizi.

Yuri sentì il suo respiro bloccarsi in gola. Tossì una volta per sbarazzarsi di un groppo immaginario. Poi tossì una seconda volta perché si sentiva la gola stretta. La sensazione era familiare ed estranea allo stesso tempo, come qualcosa che non aveva sperimentato da molto tempo. Yuri portò una mano sotto il mento, sul pomo d’Adamo. Mentre la gola si stringeva, il cuore si faceva pesante. Se la tristezza aveva un sapore, non poteva essere diverso da quello che sentiva in bocca in quel momento.
Subito dopo la morte di Phichit, Yuri aveva provato dolore e disperazione. Ora non aveva altre parole per descrivere la sensazione, se non tristezza. Pura, semplice, necessaria tristezza.

Nella mia arroganza, voglio credere che i miei sentimenti siano ricambiati. Se no, brucia questa lettera e fai di me un ricordo destinato a svanire. Ma se ho ragione, prego di raggiungerti prima che qualcun altro rubi il tuo cuore. Un giorno.
Con affetto,
Victor

Quando infine lesse la firma, Yuri aveva già le lacrime che gli solcavano le guance. Appallottolò la lettera nel pugno. Il suo petto fu scosso da singhiozzi irregolari. Tutte le emozioni che aveva represso nei giorni precedenti, il dolore che aveva cacciato nel profondo dello stomaco, stavano tornando a pieno vigore in quel momento. Fu un’onda che minacciò di annegarlo.
Yuri pianse per Phichit. Piangeva per Leo. Piangeva per Chris e Guang Hong, che avrebbero dovuto imparare a vivere col senso di colpa dei sopravvissuti. Pianse per Emi. Piangeva Michele.
Piangeva per lo straniero che aveva ucciso. Pianse per Yuri Plisetsky e per la sua gioventù rubata. Pianse per Victor, per un destino che era crudele e forse non esisteva neppure, ma era un perfetto capro espiatorio.
Alla fine, pianse per se stesso

Note:
Niente panico, andrà tutto bene.
Quindi la missione è finita, con i suoi alti e i suoi bassi. Qualcuno prova come me una sensazione di nostalgia? Qualcuno sta ripensando ai primi capitoli? Per citare “The Scientist”, “nessuno ha detto che sarebbe stato facile, ma nessuno ha detto che sarebbe stato così difficile.”

Poi ascoltatevi “You are my sunshine” (è un ordine), perché è la colonna sonora perfetta per la fine di questo capitolo.

E il prossimo capitolo sarà l’ultimo prima dell’epilogo. Yuri rimette insieme i suoi pezzi e quando il Destino gli concede una terza occasione è ben intenzionato a non sprecarla.
   
 
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