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Autore: cliffordsjuliet    31/07/2017    2 recensioni
Era così, la Periferia. Io non ero Kendra Saint, non ero la figlia di Missi e Jackson.
Non c’erano nomi, in periferia. Eravamo tutti numeri, volti un po’ scambiati, copie sbiadite di chi, prima di noi, in quel posto ci era marcito.
Io non facevo differenza.
**
Me ne sarei tornata a casa, con calma, senza correre. Sarei arrivata lì e a quel punto non ci sarebbe stato Luke ad aspettarmi.
Pensavo che mi sarei sentita sollevata, invece mi sentivo solamente miserabile.

**
Pensavo che avrei smesso di odiarlo, di disprezzarlo con tutta la forza che avevo in corpo.
Pensavo che mi sarei abituata a quell'affetto sordo e un po' cieco che lentamente si stava facendo spazio in me.
Non mi abituai mai. In fondo io ero Kendra e lui era Ashton, ed era questo che sapevamo fare.
L'odio era l'unica cosa che non potevano toglierci.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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I. GONE
 
Ero stata abituata all’odio sin dalla nascita.
Quando vivi nelle periferie una cosa la sai: alle tue cose ti ci devi attaccare.
Diventi possessivo, diventi cattivo. Del mondo non te ne frega niente, quando hai qualcosa da perdere e vivi ogni giorno con il rischio di perderle davvero, quelle cose.
Inizi a farti delle domande, a guardarti in giro, ma quello che vedi non ti piace e allora fai finta di niente. Era così che andava, a casa mia. Ogni giorno facevamo finta di non sentire le urla provenienti dall’abitazione accanto alla nostra, fingevamo di essere immuni a quelle grida. Ogni giorno mio padre mi baciava sulla fronte e mia madre mi intrecciava i capelli, ed io tenevo gli occhi chiusi, cercando di scomparire.
Perché quelle urla della casa vicina io me le sentivo dentro. Mi strappavano l’anima, mi sconquassavano le viscere, portavano alla mia mente ricordi passati.
La casa accanto alla nostra era quella del mio maledettissimo miglior amico, Luke.
Erano sue le urla. Sue, di sua madre, di suo padre: che differenza faceva?
Le conosceva tutto il vicinato. Eravamo abituati, lì, a quel tipo di dolore. Quel tipo di sporcizia che ti si infila tra le costole, e inizia a renderti insoddisfatto.
Sapevo che anche i miei genitori gridavano, spesso, ma almeno lo facevano quando io non ero in casa. Con me fingevano che andasse tutto bene, che fossimo una famiglia normale. Non volevano capissi che anche noi, in fondo, eravamo come tutti i poveracci di quel quartiere: dimenticati da Dio, poveri in canna a cui non è rimasto nulla se non odiare. Almeno ci provavano, i miei genitori, a tenermi lontana da quello schifo.
Peccato che a me, l’odio, lo aveva insegnato proprio Luke.
Eravamo cresciuti insieme, lo avevo accolto nel mio letto tutte le notti in cui le urla dei suoi genitori si facevano un po’ più forti, più aspre. Lui scappava dalla finestra e poi bussava al mio balcone a pianterreno, scalzo e col pigiama.
Lo strapazzavo per bene, da piccola. Gli dicevo che era una storia inaccettabile, doveva chiamare i servizi sociali. Non poteva mica svegliarmi ogni sera, ogni volta che i suoi litigavano. Ché poi io mi concentravo sulle urla e non riprendevo più sonno.
Era quello che dicevo ma, in realtà, avevo solo paura per lui.
E quindi ogni volta il mio balcone era spalancato, e lui si issava dentro e poi restava a dormire insieme a me, nel mio stesso letto, il mio odore che diventava un po’ anche il suo. Restavamo così finché mia madre non veniva a svegliarmi e allora lo notava; faceva scenate, all’inizio, diceva che non era una cosa accettabile.
Penso capì abbastanza in fretta che a noi non importava molto di quello che era accettabile e ciò che non lo era.
Iniziò ben presto a limitarsi a scuotere la testa, a dirci “non fatevi scoprire da papà”.
Papà si arrabbierebbe, pensavo. Papà mi impedirebbe di rivedere Luke.
Avevo sempre paura, e la paura la mascheravo dietro la rabbia che scaricavo su Luke.
Mi metterai nei casini, gli dicevo. La verità era che poteva procurarmi quanti guai voleva lui, ma era il mio migliore amico, e gli volevo bene. Anche se non glielo avevo mai detto. Anche se non lo abbracciavo mai, pensavo lo sapesse.
Pensavo avesse capito che per lui avrei accettato qualsiasi peso.
Era per questo che mi incazzai, quella sera di settembre. Luke bussò al mio balcone, non ci volle molto perché gli aprissi. Mi limitai ad alzare gli occhi al cielo mentre superava l’inferriata scavalcandola con le sue gambe lunghe, per poi intrufolarsi malamente nella mia stanza.
«Vedi di non fare troppo rumore, idiota, ché i miei dormono già da un pezzo» lo apostrofai annoiata, buttandomi nuovamente sul letto di peso. Luke sbuffò, aggiustandosi l’enorme maglia nera – una delle tante con una qualche stampa di gruppi metal, quelli che lui adorava e che a volte aveva provato a far ascoltare anche a me, senza successo.
«Come la fai lunga, K» borbottò, stendendosi al mio fianco «Tanto tuo padre non ci scopre mica, lo sai. Potremmo fare sesso qui e ora e neanche ci sentirebbe»
Mi voltai verso di lui di scatto, gli occhi spalancati e sorpresi. Luke mi rivolse un sorrisetto insolente, uno dei suoi, uno di quelli che sapeva mi dessero fastidio da morire.
Gli tirai un pugno sul braccio. Sapevo che non l’avrei neanche scalfito, ma era così che mi facevo capire. Facendogli male. Facendomi male.
«Ahi, Kendra, che cazzo fai?» prese a massaggiarsi la parte colpita, lanciandomi un’occhiataccia. Inarcai le sopracciglia in risposta, mi scostai più lontana da lui.
«Certo che tu ne spari, di puttanate» lo rimbrottai poi decisa, puntando lo sguardo sul soffitto della mia stanza.
C’era qualche stella fosforescente ancora attaccata, ma la maggior parte di esse era caduta giù con gli anni. L’intonaco grigio era scrostato e veniva via a pezzi pure quello, ma i soldi per aggiustarlo di sicuro non c’erano.
«Cos’è successo stavolta?» domandai poi, visto che Luke non accennava a parlare.
Spesso era così, con lui: le cose dovevi cavargliele di bocca, col rischio che morisse a dire una frase di più. Io però sapevo farlo parlare. Lo conoscevo, sapevo quali fossero i suoi punti deboli.
«Niente» si strinse nelle spalle, a disagio.  
Sbuffai. Pensavo che finché se ne stava comodo nel mio letto me la dovesse, la verità, e invece lui taceva, e ogni volta era una battaglia per capire poi poco o niente.
«E allora cosa?» incalzai indispettita. Non mi piaceva che non mi parlasse. Se non con me, con chi voleva farlo? Gli tirai la maglietta, aspettavo la sua risposta.
«Che cazzo, Kendra, non sono cose che ti riguardano» Luke, come ogni volta, sbuffava e si girava su un lato, mi dava le spalle.
Mi faceva incazzare da morire, e lo sapeva. Gli diedi uno spintone con tutta la forza che avevo in corpo, cercavo di farlo cadere. Ci riuscii quasi, e mi sentii immediatamente meglio.
«Che palle, se devi fare così me ne vado. Ti ho capita, che c’hai voglia di farti gli affari miei solo per farmi la paternale»
«Gli affari tuoi sono affari miei, Luke. Sei nel mio fottutissimo letto, e poi che cazzo, sei il mio migliore amico!»
Luke si strinse nelle spalle, non si voltò a guardarmi.
«Ho preso una decisione riguardo a quello che farò dopo»
Dopo. Era un discorso che non avevamo affrontato mai, ma mi terrorizzava e Luke probabilmente lo sapeva. Avendo concluso appena le superiori ci si aspettava da me che io decidessi del mio futuro e di ciò che avrei fatto nella vita, ma io non lo sapevo mica.
Tutto ciò che sapevo era che volevo andarmene di là. Non ero come Luke, non avrei continuato a studiare. Io volevo andarmene da quella tristissima periferia e lavorare, avere i miei soldi. Vedere il mondo. Non ne avevamo mai parlato perché entrambi temevamo il momento in cui ci saremmo accorti che i nostri piani erano troppo diversi, ritrovandoci costretti a separarci. Io ce l’avrei fatta senza Luke, probabilmente.
Ero brava a fingere forza, a mantenere insieme i miei pezzi.
Lui no. Lui perdeva sicurezza ad ogni insulto, ogni litigio con i suoi. Aveva la mente di un folle, Luke, ma l’anima di un bambino. Un bambino aggrappato a me come fossi stata la sua ancora di salvezza. Lo ero stata, fino a quel momento. L’idea di lasciarlo, però, non mi era mai sembrata così concreta.
«Ah, sì?» simulavo indifferenza, l’unica emozione che mi era sempre riuscito di mostrare, se così potevo chiamarla. «Hai deciso cosa studiare?»
Sentii chiaramente la rigidità impossessarsi del corpo di Luke. La percepii sotto le mani che ancora stringevano la sua maglia, mentre la sua schiena si tendeva, rispecchiando il suo nervosismo. Scattai a sedere, guardinga. Conoscevo troppo bene quel corpo e le sue reazioni, sapevo che stavo per scoprire qualcosa che non mi sarebbe piaciuto.
«Perché tu vuoi studiare, vero, Luke?» ripresi, costringendolo a voltarsi per guardarmi in faccia. Erano azzurri, i suoi occhi, sembravano due squarci di cielo e in quel momento mi stavano urlando, gridando contro la verità. Ed io invece preferivo ignorarli, perché mi sarei fatta male, altrimenti.
«Ho cambiato idea» buttò lì semplicemente, abbassando lo sguardo.
Mi bloccai. «Che significa che hai cambiato idea?»
«Tu cosa pensi che significhi?»
«Stronzo, non provarci neanche, con me. Rispondi alla mia domanda» la voce mi tremava, immaginavo i miei occhi iniettati di sangue, da pazza. In quel momento avrei fatto paura a chiunque, anche a Luke. Lo sapevo. Lo percepivo, che aveva paura di me e della mia possibile reazione.
Quando riprese il suo tono era cauto. «Credo che lavorerò…»
«Lavorare? Che lavoro vuoi fare tu, scusa? A quelli come noi mica lo danno, un lavoro. Devi toglierti di dosso la puzza di queste strade, Luke, altrimenti col cazzo che puoi lavorare» sbottai, cattiva ed egoista. Gli rinfacciai la verità perché solo quello mi era rimasto. Perché io potevo sprecarlo, il mio futuro, ma Luke no. Luke in fondo era buono. Lui non si era fatto contaminare da quello sporco, quell’odio che invece aveva insegnato a me semplicemente volendomi bene. Era ancora pulito, volevo lo rimanesse.
«Grazie per la fiducia, K»
Gli tirai un calcio. «Lo sai che ho ragione, Luke, tu lo sai. Che lavoro vuoi fare?»
«Cristo, Kendra, con Ashton, va bene? Io lavorerò con Ashton»


Non ne parlammo più.
Non c’era molto da dire, a riguardo. Gli avevo riso in faccia quando me lo aveva detto, era una risata brutta, da psicopatica. La risata di una che stava prendendo le cose alla leggera, ma che in realtà avrebbe volentieri spaccato qualcosa. Gli dissi di stare zitto, che ne avevo abbastanza di cazzate. Ché non poteva fare sul serio. E lui mi aveva dato ascolto, lo stronzo, si era zittito e poco dopo si era addormentato. Nel mio letto, con la testa sul mio cuscino, le gambe intrecciate alle mie. Io no. Io non ero riuscita a dormire, quella notte, troppo terrorizzata all’idea che Luke potesse star facendo sul serio.
Ero uscita dalla stanza alle sei del mattino, prima che lui si svegliasse. Era camera mia, ma me ne stavo scappando come una ladra. Ero uscita da quella stanza ed ero rientrata solo quando mi ero sentita sicura che non l’avrei incontrato. Nei giorni seguenti feci di tutto per evitarlo, non volevo vederlo. Avevo paura di incontrare quegli occhi e scoprire la verità, e trovarmi ferita come mai. Avrei sentito l’impulso di distruggerlo.
Mi conoscevo, sapevo che ci avrei provato in tutti i modi: era il mio migliore amico, avrei saputo come e dove colpire.
Per cui lo evitai. Lo schivavo come la peste, smisi di frequentare i luoghi nei quali di solito ci incontravamo. Ogni sera abbassavo le persiane del mio balcone, le chiudevo ermeticamente, affinché non gli venisse in mente di venirmi a trovare.
Da qualche parte avevo anche un cellulare, ma conoscendomi dubitavo che Luke avrebbe mai potuto provare a contattarmi tramite quello. Odiavo quei cosi, mi facevano sentire costantemente spiata, sotto controllo. Ero paranoica, e gli aggeggi elettronici non facevano altro che aumentare la mia ansia patologica.
Riuscii ad evitarlo per due settimane intere. Ogni tanto veniva a trovarmi a casa Calum, che pure era mio amico. Mi chiedeva se era tutto okay. Voleva sapere se stavo bene, se fosse successo qualcosa di particolare negli ultimi tempi: io negavo, serafica, e poi cambiavo argomento. Sapevo che le domande non erano sue, ma era Luke che lo obbligava a chiedermi quelle cose. Orgoglioso com’era, in tanti anni non aveva mai avuto il coraggio di presentarsi alla porta di casa mia, farsi conoscere da mia madre più ufficialmente, da mio padre per la prima volta. Orgoglioso, si definiva. Per me era solo un codardo. Mio padre faceva abbastanza paura, per i suoi 38 anni: era alto, sapevo che da ragazzo aveva giocato a pallacanestro ed era anche abbastanza bravo. Aveva l’aria sempre incazzata, mio padre, era peggio di me. E Luke non ce le aveva, le palle di affrontarlo.
Lo avevo sempre dato per scontato, e in quelle due settimane cercai di starmene in casa il più possibile, che tanto stavo sicura, non lo avrei incontrato. Se pure i miei se ne erano accorti, poi, avevano fatto finta di niente. Mio padre era sempre troppo occupato a lavorare a chissà cosa per prestare attenzione a ciò che facevo io, e mia madre si limitava a sospirare e scuotere la testa, apprensiva. Forse sapeva che cosa stavo facendo.
Forse in me stessa, quella sua figlia dai diciott’anni fatti di rabbia e odio freddo, rivedeva i suoi fallimenti. Me lo sono sempre chiesta, ma non gliel’ho mai domandato davvero.
Fu anche per questo che, quando sentii quella voce, gelai sul posto.
«Salve, signora Saint. Cercavo Kendra, è in casa?»
Non avevo pensato. Non mi ero fermata a riflettere, non lo avevo fatto.
Ero corsa in camera mia, avevo indossato un paio di infradito chiare, al volo. Ero corsa al balcone e lo avevo spalancato, mi ero tuffata fuori di lì col rischio di rompermi qualcosa.
Il mio unico modo di preservarmi da quello che mi faceva male era scappare, ed era quello che stavo facendo. Scappavo da Luke, il mio migliore amico, perché la sua verità mi faceva male. Scappavo perché avevo paura anche io.
Scivolai sull’asfalto, mi scorticai un ginocchio ma non mi fermai. Correvo, non sapevo neanche dove stessi andando ma correvo. Mi sembrava di star facendo qualcosa.
Mi sembrava che avrei risolto qualcosa, così. Svoltai l’angolo della strada, superai due isolati di asfalto polveroso e appartamenti in decadenza, uscii dalla periferia, stavo correndo verso la campagna. Mi fermai in un vecchio parcheggio, piegata in due.
I polmoni deliravano, mi chiedevano aria. Il ginocchio scorticato bruciava da morire e i muscoli mi tremavano, che fiacca com’ero non ce la facevo mica a correre per così tanto tempo. Mi fermai, stremata, e solo in quel momento mi concessi di respirare.
Fosse dipeso da me io Luke non lo avrei guardato più in faccia fino all’anno dopo.
«Però, Kendra Saint. Chi lo avrebbe detto che le sapevi muovere così velocemente, le gambe?»
Mi voltai di scatto, pietrificata. Dio fa’ che non sia lui. Fa’ che non io non abbia corso per niente, non sono pronta, non sono pronta.
Non era Luke, però. Non era lui che se ne stava in piedi, appoggiato contro una moto, il sorriso bastardo e un piercing al sopracciglio a riflettere i raggi del sole pomeridiano, attirando l’attenzione su uno sguardo da pazzo.
Michael Clifford era sicuramente una delle ultime persone che avrei desiderato incontrare, in ogni caso. Ma non mi sarei mostrata debole.
«Cosa ti fa pensare di sapere qualcosa di me, Clifford?» Ero altezzosa, sdegnosa come mio solito. La solita rabbia trapelava dalle mie parole e a me stava bene, perché era così che avevo imparato a farmi scudo.
«Io so tante cose di te, ragazzina. Alcune di queste sono sconosciute anche a te»
Michael gettò la testa indietro e rise. Non vedevo cosa ci fosse da ridere, eppure lui lo faceva, e aveva una risata troppo cristallina, troppo limpida. Era diversa dalla risata che ti aspetteresti da uno come Michael Clifford.
«Di cosa stai parlando non lo sai neanche tu, Clifford» chiarii lapidaria.
«Perché, tu sì? Giochi a fare la grande, ma poi scappi davanti ad ogni cosa»
Le sue parole mi si conficcarono dentro come coltelli intrisi di rancore. Accesero la parte sporca di me, la peggiore che ci fosse. Quella che era venuta insieme a me in mezzo allo sporco della mia periferia, il luogo dove niente aveva un nome.
Era così, la Periferia. Io non ero Kendra Saint, non ero la figlia di Missi e Jackson.
Non c’erano nomi, in periferia. Eravamo tutti numeri, volti un po’ scambiati, copie sbiadite di chi, prima di noi, in quel posto ci era marcito.
Io non facevo differenza. Clifford nemmeno, ma lui dentro era più marcio di me.
«Non sai che merda stai dicendo» ribadii, dandogli le spalle. Me ne sarei tornata a casa, con calma, senza correre. Sarei arrivata lì e a quel punto non ci sarebbe stato Luke ad aspettarmi.
Pensavo che mi sarei sentita sollevata, invece mi sentivo solamente miserabile.
Le parole di Michael mi si erano conficcate dentro, facevano male. Mi impedivano di respirare.
Fu allora che lui riprese, quando ormai credevo di essere al sicuro, pronta ad andarmene.
«Quindi non è vero che sono due settimane che scappi da Luke, giusto?»
Arrestai i miei passi. Arrestai i miei passi e mi voltai, e gli occhi di ghiaccio di Michael erano lì, che mi perforavano il volto divertiti e crudeli, pronti a scorgere la minima traccia del mio cedimento. La verità era che Clifford non mi era mai piaciuto, lui e il suo amichetto, Ashton Irwin. Lo sapevamo, in Periferia, che erano coinvolti in qualcosa di pesante. Non sapevamo cosa, ma non ci piacevano, e noi non piacevamo a loro.
Lo avrei ammazzato volentieri, in quel momento. Luke, l’aveva chiamato, come se il mio amico fosse stata roba sua. Come se fossero stati compagni da tempo, in confidenza.
Luke. La sua voce che pronunciava quel nome continuava a girarmi in testa, mi dava la nausea.
«Che cazzo hai detto, scusa?»
«La verità. Nient’altro che la verità, Saint, e lo sai pure tu. Puoi sbraitare quanto vuoi, tanto lo sai che ho ragione»
Desiderai togliergli quel sorriso insolente dalla faccia. Volevo prenderlo a schiaffi, pugni, avrei gioito del suo dolore. Mi sarei divertita nel vederlo soffrire.
Mi avventai contro di lui di corsa, coprendo quei pochi metri di distanza che ci separavano già pronta per tirargli uno schiaffo, ma lui fu veloce a bloccarmi il polso.
Le sue dita riuscivano a circondarlo per intero, stringevano tanto da farmi male.
Mi stava facendo male. Mi stava facendo male, ma non glielo avrei mai dimostrato.
«Avanti, ragazzina, provaci. Cosa vuoi fare? Fammi vedere» mi schernì, e quella sua presa in giro mi mandò il sangue alla testa.
«Devi stargli lontano!» gridai, fuori controllo. «Tu e quell’altro coglione di Irwin, avete capito? Dovete stargli lontano. Per voi non è Luke, non è Hemmings, non è niente!
Non dovete toccarlo!»
Scalciavo, cercavo di tirare via il braccio. Clifford strinse ancora un po’, poi mi lasciò andare. Dove prima c’erano le sue dita aleggiava un segno scuro, brutto.
«Non sembrava te fregasse tanto, mentre lo evitavi» mi rinfacciò cattivo.
«Te lo dico un’ultima volta, non devi toccare il mio amico» sottolineai quel “mio” con talmente tanta forza che risultai più decisa di quanto già non fossi. Sembravo forte.
«Non è mica tuo, Kendra Saint. Ormai non lo è più da tanto tempo»
Disse quelle parole con uno sguardo che poteva significare: e quindi? Lo dovevi capire prima.
Le pronunciò con noncuranza, prima di salire a bordo di quell’assurda ed enorme moto nera, tirata a lucido. Una cosa da signori, non da ragazzini psicopatici sempre presi a far la guerra al mondo. Prima che potessi anche solo obiettare era già lì che sgommava via, ed io rimasi come una cretina a guardare la polvere sollevata da quella bestia di mezzo, scombussolata come non mi ero mai sentita.
Perché Michael Clifford aveva ragione.
Quanto, però, io non l’avevo ancora capito.
 
Il Paladar era il locale preferito dai ragazzi della periferia.
Era in piazza, questa piazzetta brutta e sporca di asfalto, l’odore della polvere che si mischiava a quello del catrame. Era un locale piccolo, ma tanto noi non è che eravamo chissà quanti. Poche anime abbandonate dal mondo, ecco cosa eravamo.
Quando entrai quella sera indossavo una felpa di Luke. Era estate ma faceva quasi freddo, e le mie gambe scoperte erano in preda alla pelle d’oca.
Mi strinsi nella felpa, inspirandone l’odore così conosciuto. Dovevo parlargli.
Dovevo farlo, perché avevo bisogno di capire cosa stava succedendo.
Perché Ashton, perché Michael. Cos’era tutta quella storia che mi faceva male, che mi stava dilaniando dall’interno. Le parole di Clifford ancora mi bruciavano dentro, erano una coltellata nuova ogni volta che ci pensavo.
Lo trovai che se ne stava seduto su un divanetto con Calum, il nostro solito angolo, all’interno e nella zona più buia. Era lì che beveva un drink dal colore scuro, e Calum annuiva a qualcosa che gli stava dicendo.
«… Io ci ho provato, capisci, ma non so che diavolo fare se lei neanche mi parla, io ho paura…» in quel momento alzò gli occhi, mi vide. Le parole gli morirono in gola mentre gli lanciavo un’occhiata delle mie, una di quelle che sembravano dire “scusa?” e anche
“in questo momento ti farei a pezzi”.
Si alzò dal divano, era cauto e io capivo anche perché. Lo capivo e mi dava incredibilmente fastidio, ma questo non glielo dissi.
«Quella felpa è mia» esordì, a un passo da me.
Inarcai un sopracciglio. «Davvero? Beh, adesso non più»
«Non puoi venire qui e fare finta di nulla, Kendra, e con la mia felpa per di più. Non puoi fottere così il cervello delle persone»
Era incazzato, Luke. Se ne stava lì con quei suoi occhi pieni di rancore, e le labbra screpolate e la sua voce roca, come quella di uno che non dorme da giorni.
Se ne stava lì e mi guardava, e nel frattempo aspettava una mia mossa.
Aspettava la prossima frase che avrei utilizzato per ferirlo.
Non feci niente del genere. Per la prima volta da chissà quanto tempo, mi gettai contro di lui e lo strinsi forte. Era un po’ ironico quell’abbraccio, visto che ero alta la metà di lui, ma non ci volle molto prima che Luke ricambiasse. Aveva bisogno di me.
Aveva bisogno di quel contatto fisico, aveva bisogno di credere, sperare che non mi aveva persa. Affondai il viso nel suo petto e mi sentii meglio, inalando il suo odore così familiare, un po’ alterato dall’alcool. Sapeva così tanto di Luke, quell’odore.
«Dai, sediamoci, che voglio bere qualcosa» dettai poi, staccandomi.
Che okay le dimostrazioni d’affetto, ma non ero così abituata. Semplicemente non erano cose che facevo, quelle. Non sapevo gestirle, io, le emozioni.
Senti Luke ridere amaramente, prima di percepire la sua mano sulla mia schiena, a sospingermi verso i divanetti.
«Ehi, K!» Calum mi salutò con il suo solito entusiasmo, mi diede il cinque.
Era bella, l’allegria di Calum. Ti faceva credere che le cose potessero davvero andare per il verso giusto.
«Ehi, Cal» ricambiai il saluto con un mezzo sorriso e poi feci scontrare il mio pugno con il suo. Non ero brava, a sorridere, non era qualcosa che facevo spesso. Le mie labbra sembravano quasi atrofizzate, gli angoli sempre piegati verso il basso. Era qualcosa che mia madre mi aveva fatto notare spesso, durante i nostri litigi, chiamandomi ingrata.
Che almeno noi avevamo un tetto sulla testa, e loro si sforzavano di non urlarmi contro, di non fare scenate. Mica come gli Hemmings di là. I miei ci provavano, a fingere di non essere anche loro bestie di quel posto marcio.
Un cameriere dall’aria svogliata si avvicinò al tavolo ed io ordinai una birra sale e limone, una tradizione mia e di Luke. Lui sorrideva, mi guardava e sorrideva, e tutta la stanchezza sembrava essersi volatizzata dai suoi occhi stanchi.
Questo finché non li vidi.
Erano appena entrati, Michael e Ashton. Erano diversissimi tra loro, ma avevano quel modo di camminare – indolente, strascicato, quasi flemmatico – che li avrebbe fatti passare per fratelli. Quei due erano cresciuti insieme in mezzo allo schifo di quei palazzi, esattamente come me e Luke. Solo che loro erano finiti peggio. Erano i ragazzi del «mostro», come li chiamavano lì. Quelli che non sai cosa fanno, ma qualcosa lo fanno.
Si avvicinarono al nostro tavolo con la calma di vecchi amici, mezzi sorrisi e mozziconi di sigaretta spenti in bocca. Michael occhieggiò nella mia direzione, mi lanciò un sorriso ammiccante ed io sentii il sangue andarmi al cervello.
«Che miseria vogliono, questi due?» sbottai sprezzante, mi rivolgevo al mio migliore amico che però non mi guardava in faccia. Luke fissava il proprio bicchiere e Calum si passava una mano tra i capelli, a disagio.
«Hey, ragazzi»
Ashton Irwin che ci salutava davvero come ci fosse qualcosa che ci legasse, come se fossimo stati seriamente amici, mi dava la nausea.
«Ehi, Ash» fu la risposta breve di Luke. Ash? Sgranai gli occhi, aspettando una risposta, ma tanto quel vigliacco del mio migliore amico mica mi guardava in faccia.
«Luke? Che cazzo succede?» Non gliel’avrei fatta passare, non gli avrei permesso di evitarmi. Luke si girò verso di me, mi faceva paura ma non glielo dissi, aveva gli occhi spalancati e uno sguardo così perso da fare male anche a me.
«Senti, K, loro sono…»
«Suoi amici» chiarì Michael, prendendo posto sul divanetto. Mi mandò in bestia.
«Voi non siete amici proprio di nessuno, stronzo»
«Attenta con il linguaggio, ragazzina» stavolta era stato Ashton, a parlare, e a me quella voce metteva i brividi. Non sapevo neanche perché, mi spaventava e basta.
Il che significava che semplicemente lo odiavo di più.
«Io vado a farmi un altro drink» annunciò Calum, alzandosi. Il piccolo Calum, il mio amico così buono che non sopportava nessun tipo di tensione. Mi chiesi cosa ne sapesse di tutta quella storia e nel frattempo dentro di me tremavo, avevo paura della risposta.
Non volevo credere che fossi stata tradita dalle uniche persone di cui mi fidavo.
Non volevo pensare che Luke stesse facendo qualcosa in cui io non ero compresa, mi faceva male, perché Luke era roba mia. L’idea di perderlo prima del previsto era inaccettabile. Soprattutto per colpa di quei due.
«Luke, com’è andata l’altra sera?» Ashton si rivolse al mio amico, lo sguardo serio.
Luke scrollò le spalle. «Come al solito»
«Com’è andata cosa?» m’intromisi. Proprio non ce la facevo, a stare fuori dalle faccende di Luke.
Irwin sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Cristo santo, ragazzina, fai troppe domande»
«Te l’avevo detto che era una rompipalle, Ash» Michael rise, neanche ci fosse qualcosa di divertente in tutta quella situazione di merda.
Mi alzai dal divanetto, stava diventando tutto troppo, per me.
«Quando stasera ti ritroverai da solo, ricordati che io almeno ci ho provato» pronunciai impietosa in direzione di Luke. Poi, senza un saluto, mi allontanai. Sapevo che lui avrebbe capito il significato delle mie parole. Sapevo che ci sarebbe stato male. E sapevo che, per una volta, non me ne importava.
Se erano i guai, che voleva, avrebbero portato il mio nome, non quelli di quei due idioti patentati che adesso, seduti lì su quel divanetto, sembravano i suoi nuovi migliori amici.
Se era il dolore che voleva, sarei stata io a fargli male.
  
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