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Autore: Nirvana_04    02/08/2017    5 recensioni
PREQUEL DE "IL TREDICESIMO RE"
Sette capitoli dedicati al Primo Re della Casa di Venasta.
Agur è il più grande cacciatore tra i Figli di Cahar. Giovane avvenente, erede del regno: gloria, donne e ballate tra le assi della taverna sono il suo pane quotidiano. Alla vigilia del suo ventitreesimo compleanno, egli decide di partire verso le Pietre di Shaev, alla caccia del leggendario Caimhal. E quando si renderà conto che l'ira del Dio Agabar è stata scagliata come una maledizione su di lui, tutto ciò che rimarrà di Venasta sarà il suo sangue e la sua sete di riscatto.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Quarta Parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Erano risaliti verso la rocca, avevano convocato l’Adunanza nella stanza con la testa dell’Arakne quella notte stessa, e poi erano rimasti in attesa di spiegazioni, di cui nessuno sembrava essere in possesso. Tutto ciò che la cariatide aveva saputo fare era stato accusare il Re Ander di aver peccato di fatuità, mandando solo sette delle trentasette teste che servivano per placare la collera del Dio Agabar.
«Vi avevo avvertito!» aveva puntato il corto dito rachitico contro le sue maestà, quasi arrampicandosi sulla sedia per farsi scorgere bene in viso – cosa inutile dato che la pelle rugosa ricadeva in grosse pieghe, nascondendone i tratti somatici. «Avete sfidato il Dio e lui ha scagliato il Fato contro di noi! Avete peccato calpestando un luogo sacro e questa è la nemesi che cola, come veleno, dalle sue zanne!»
La sala era stata agghiacciata da quel responso, ma la rabbia di Agur era montata nel suo petto, fiammante e vendicativa verso colei che manifestava la potenza del nulla, una divinità che aveva chiesto senza dar loro qualcosa in cambio. Nessuno aggiunse altro, il silenzio della sala dimostrava l’accettazione del volere divino.
I Felichi si erano, non sarebbero rimasti al loro fianco durante l’imminente scontro. Il Pelìc aveva espresso il suo rammarico per la vicenda, lo sguardo accusatore rivolto verso la corte di Cahar, mentre con gesti affrettati aveva ordinato ai suoi di spiegare le vele. Le navi avevano lasciato la battigia prima dell’alba tra lo sconforto generale; il felica non si era neanche degnato di perdersi nei soliti convenevoli di congedo, la schiena dritta e lo sguardo puntato verso la sua terra, dando loro le spalle mentre le sue navi scivolavano sul fiume in piena, ali al vento che erano sparite presto dietro la prima curva.
A sorprendere Agur in tutta quella bolgia era stata la decisione del felica suonatore, il quale, in piedi sul lungo pontile, aveva guardato con sguardo fermo le imbarcazioni della sua gente allontanarsi dal male incombente, gli occhi tondi in fiamme sotto i raggi di Mal.
«Perché?» aveva chiesto sconvolto.
«Felica libero, vita o morte» era stata la risposta concisa. Il suo tono era stato placido, la sua risposta serena.
«Non ci sarà molto tempo per suonare qui» gli aveva fatto notare, la testa chiusa tra le spalle, un senso di afflizione che gravava sul suo corpo.
«Suono mai fine. È festa, è caccia, è acqua e vento. È anche sangue fuori, ferro che urla e morte, se essere.»
Adesso, risalendo la china, Agur sentì la fatica scacciare una parte del peso dal suo cuore e mentre giungeva in cima, la valle dove la sua città sorgeva sotto di lui, si ritrovò stranamente consolato dalle parole del felica. La musica non si sarebbe fermata, e loro avrebbero cantato con le spade e suonato con gli archi da battaglia.
«Hai detto che felica è libero» interloquì con l’altro, «Puèsigath non vi dice cosa fare?»
Il felica inarcò la fronte sprovvista di sopracciglia e gli lanciò un’occhiata sbieca. «Vita di Puèsigath, sua ancora a morte di felica, ma cosa vita essere, felica dice.»
Agur annuì, asserendo al significato della risposta ricevuta. «Andiamo! Ho appena deciso cosa fare della mia!»
Ander era un uomo che aveva ricevuto il regno dal padre, che a sua volta lo aveva ereditato dal suo. La dinastia da cui discendeva era antica, risaliva ai tempi di Adurin il Bercio, non esattamente un epiteto dei più onorevoli, ma aveva la sua rispettabile storia alle spalle: egli aveva guidato l’Invincibile Armata contro le Bestie Nere, settecento anni orsono, maneggiando un’arcana magia che aveva decretato la sua vittoria. Sorvolando sul fatto che l’unica magia a cui Agur poteva rifarsi era quella pressoché inesistente della cariatide e dei seguaci del Dio, egli era molto interessato a quello scontro, letto di scorcio durante la sua breve ma intensa permanenza nel regno di Cammur, in uno dei papiri del vecchio bibliotecario.
Piegato sulle pagine di un vecchio tomo fragilmente rilegato con corde di bue ormai consunte, Agur volava tra le pagine, cercando il passaggio fondamentale scritto dal pugno di Adùrin. In mezzo alla pagina tamburellò con il dito e lesse ad alta voce per mettere a parte il felica e Jhann, che li aveva raggiunti in biblioteca: «Le Bestie Nere sono come le ombre degli alberi oscuri, sono il male ripudiato dalle profondità della terra, privi di etica o coscienza, nati dal sopruso e che vivono in onore di esso. I lapilli che bruciano nei loro occhi sono la vita del fuoco che scorre nel loro corpo, strappata ai fiumi di lava dei vulcani di Ambal. I loro busti sono corteccia arroventata e i loro arti fruste che non hanno mai fine. Sembrano abbracciare le tenebre, dondolare come liane pronte a sferzare l'aria e il corpo delle vittime. Non hanno piedi né zampe, solo pece che cola e artiglia la terra.
«Ne ho vista una ieri. Stava ritta contro il nero della notte. Era buio, molto buio, eppure potevo distinguere chiaramente la sua figura. Nera, troppo nera per essere una creatura di un qualche Dio. Dormiva, forse, chi può dirlo. Non ho mai visto una di quelle cose sedere o riposare. Non so neppure se sono vive o il Male le ha vomitate. Però hanno il fuoco, e quello lo sanno domare. Per questo la mia gente si dirige nella valle, tra i grandi corsi d'acqua. Là la terra sembra fertile, e l'acqua saprà domare l'energia di quegli esseri[…].
«Continua. Parla di come egli è rimasto indietro con la cariatide, ha invocato la Magia» scorse giù in fondo alla pagina. «Non narra il combattimento. Sentite qua: Stanotte ho perso un valoroso condottiero. Era forte e coraggioso, ha disubbidito ai miei ordini ed è tornato indietro. Ha combattuto – ho sentito le urla di guerra – e ha portato i suoi uomini alla morte. Ha Gridato, questo lo so per certo, perché dalla terra si è alzata la nebbia. La sua voce mi tormenterà a lungo: era il mio primogenito. Non sarebbe dovuto restare lui dall'altra parte, ma le mie ferite mi hanno accecato e la mia attenzione è venuta meno nel momento più importante. Mi hanno raccontato che prima che la Bianca Cortina lo celasse, l'hanno visto ghermire la sua arma e togliersi la vita. Le Belve non lo brandiranno contro di me e la mia patria. È finita.» Agur digrignò i denti. «Sì, ma come? Non dice nulla dello scontro, di come le hanno cacciate indietro. E dov'è che andato il figlio?»
Jhann si dondolava sulla vecchia sedia in equilibrio precario, il corpo penzolante in avanti come quello di un bradipo. Si grattò la barba e lanciò uno sguardo da cucciolo abbandonato verso di lui: non aveva risposta.
Il felica se ne stava ritto in piedi due passi dietro di lui, la postura rigida e servile, la sua ombra che lottava contro il riverbero della candela facente luce sulla pagina. «Magia.»
«Sì, certo, magia. Ci servirebbe una grazia dell'Agabar» mormorò Jhann.
«Non nominarlo!» inveì il principe, ancora scosso. Sapeva di aver disubbidito alla legge di Cahar, ma questo non gli impedì di incolpare l'indolenza del Dio per quella sciagura.
Jhann si corrucciò. «Amico. Non sono mai stato un fedele del culto, ma al potere divino credo. Sciocco io se mi facessi beffe del Fato!» Si leccò la mano per lungo e poi se la passò sul collo orizzontalmente, per scongiurare. «Che cada una scaglia del suo corpo sulla mia gola…»
Agur lo fece trasalire sbattendo un pugno sul tavolo. La sedia ricadde in avanti. «A morte il Fato! Non resterò a guardare il cielo, aspettando un suo segno. Vuoi che la nostra gente muoia?»
Jhann sputò per terra, incurante del luogo in cui si trovava. «Per il nero iddio, no! Per questo ti ho fermato. Ma a cosa…?» Si morse la lingua. «Bah!»
Agur non si fece abbattere dall'accusa malcelata. Invece chiese: «Notizie da Der e Nor?»
Jhann si grattò la testa e istintivamente sporse la mano sul tavolo, come per afferrare una caraffa che non c'era. Sbuffò. «Nessuna. Sarà difficile far arrivare il messaggio alle altre corti, quando tuo padre rema dalla parte inversa.»
Già, suo padre!
Il Re Ander una decisione l'aveva presa: aspettare il volere dell'Agabar. La cariatide e il culto avevano potere, troppo, sull'Adunanza; il re era sottomesso alla loro influenza, Agur non sapeva se per fede o per volere del popolo. Fatto stava che l'esercito se ne restava chiuso tra le mura, aspettando che una manna divina indicasse la strada. Perché l'uomo si aggrappava sempre al cielo quando era disperato? Perché credere che le stelle fossero qualcosa di più di semplice luce?
Il felica schioccò la lunga lingua e fece sentire nuovamente la sua voce: «Magia.»
Jhann scattò, una mano alla spada. Agur si mise in mezzo e affrontò l'uomo blu. Avevano tutti i nervi a fior di pelle, lui più di tutti. Il peso della colpa era difficile da reggere. «Con tutto il rispetto, la cariatide non ha nessuna magia in mano che possa salvarci. Non vedo come…» Si azzittì vedendo il felica aggirarlo e avvicinarsi al libro. Il suo dito indicò un punto nella pagina ancora aperta. «Il primogenito. E allora?»
«Magia.» Indicò le lettere e poi puntò il dito ammonitore verso la finestra che dava a nord. Non era difficile capire qual era la meta ultima. «Shaev.»
Agur non voleva credere. Tornò al tomo e lesse ancora una volta il passaggio: Adurin il Bercio diceva che il figlio aveva Gridato e che dalla terra si era alzata la nebbia. La stessa nebbia che fino a pochi giorni prima aveva nascosto il varco tra i monti, quello sorvegliato dalle lastre di perion. «Magia… Era questa la battaglia, ecco dove andò. Oltre le pietre, si sacrificò per alzare la nebbia. E cos'è la nebbia se non acqua fumosa? Cos'altro diceva Adurin?» Lesse di nuovo il passaggio ad alta voce: «[…]L'acqua saprà domare l'energia di quegli esseri. Jhann!» ruggì. «Andiamo da mio padre!»
La sedia cadde rumorosamente al suolo e Agur si fiondò alla porta, mandando un appena ricomparso Cammur a sbattere contro i battenti. Jhann svicolò dietro di lui, evitando la furia del bibliotecario. In maniera più composta, il felica li seguì.
Trovarono il re nella sala dell'Adunanza, con il volto pallido rivolto verso le mura, in compagnia della vecchia cariatide.
«Ah» gracchiò quella non appena furono entrati, «il fautore della sventura.»
«Taci!» l'apostrofò con veemenza il principe. Quella sollevò con fatica le sopracciglia e sgranò gli occhi, offesa. Nessuno metteva mai in discussione il verbo del culto o di un suo rappresentante, figuriamoci se qualcuno osasse avanzare ordini con la carica più alta. Agur aveva smesso di tollerare quei giochi di potere nel momento in cui era stata l'ennesima corbelleria tutto l'aiuto giunto dai cieli. Si rivolse invece al sovrano. «Ho bisogno di parlarvi, padre.»
Re Ander strinse le mani dietro la schiena e si sforzò di tenere alta la testa. «Il volere del Fato s'incarna nella cariatide. Porta ossequio.» I suoi occhi individuarono la figura del felica e un barlume di speranza si accese negli occhi del monarca. «Il Pocshà ha mandato soccorso?»
L'espressione del felica si aprì in un sorriso accondiscendente. «Felica libero e uno.»
Il Re, avvezzo al parlato ostico degli stranieri, comprese. «Qualunque forza alleata è ben accetta a Cahar, ora più che mai.»
«Ci facciamo poco con un felica, padre. Dovete ascoltarmi!»
Ander soppesò la figura del figlio, e Agur sapeva cosa avrebbe visto: un cacciatore, non un sovrano. Egli per primo non si sentiva pronto a quel ruolo. Il Re di Cahar non era libero, non se poi doveva sottostare alle baggianate di quella strega. Agur le lanciò un'occhiataccia. «Ci sono molte cose che ho rimandato della tua istruzione, Agur. Il tempo sta punendomi per questo.»
Agur tenne la testa alta. «C'è poco che il tempo può rimproverare a voi, padre.» Ander tornò a guardare fuori dalla grande finestra. «Ho bisogno di parlarvi. Da solo.»
La cariatide tese un braccio rachitico verso il polso del re. Anche in punta di piedi, la sua testa faticava a raggiungere la vita dell'uomo. «Agabar dev'essere testimone, ora più che mai, per poter decidere al meglio!»
Ander annuì con sguardo duro. «Parla, Agur.»
Le mani del principe fremettero: avrebbe tanto voluto strangolarla, eliminare il simbolo in terra di quella falsità. «Le Pietre di Shaev» iniziò. Ebbe un groppo in gola e dovette fermarsi un momento. «Le Pietre di Shaev sono la chiave. Hanno eretto una barriera di acqua e vento tra noi e le belve, ed è stata questa magia a tenerci al sicuro. Le belve non tollerano la vicinanza con l'acqua. Se noi riuscissimo a rialzare quella barriera…»
«Oh, blasfemia!» strillò la vecchia, tirando le vesti del re. «Ingiuria. L'Agabar non avrà pietà di un simile crimine. Re» s'appellò con forza, «il potere divino è proprio degli dei. Le sue manifestazioni sono segreti del culto. Quale magia può essere richiamata da un uomo senza la loro benedizione?»
Fu Jhann, poggiando una mano sul braccio dell'amico, a impedire l'ennesimo scontro in materia. Agur surclassò la voce della donna. «Bisogna tornare lì, invocare il potere.»
«Gli Dei non risponderanno all'appello di un eretico!»
«Il popolo non è pronto a combattere contro un simile nemico…»
«E io non sfiderò la loro volontà in nome di un miscredente!»
«Per il nero iddio, sta’ zitta!»
Jhann fermò la sua mano, corsa alla spada. Persino il felica dovette intervenire per trattenerlo. La donna si rifugiò dietro l'alta figura del re, invocando il perdono del Fato. Qualcuno bussò alla porta prima che venisse aggiunta un'altra parola. Il messaggero non attese risposta e, trafelato, entrò. Si guardò intorno, per un attimo un po' spaesato, poi incontrò lo sguardo severo del sovrano e s'inginocchiò.
«Mio sire, il generale Fagher…»
«Continua.»
«È appena rientrato in città, mio sire. È stato ferito gravemente. L'esercito si è dovuto ritirare dai monti, l'ultima notizia informava di una fiumana di cre-crea-ture che sfilavano sotto le antiche pietre, mio sire.»
«Si dirigono nella valle, dritti verso di noi, verso Cahar» mormorò Agur tra i denti.
A un cenno del re la mano di Jhann lo strattonò indietro, spingendolo al silenzio.
«Molto bene. Farò personalmente visita al generale. Cominciate a sgomberare i pascoli e a spopolare i piccoli villaggi. Voglio che i portoni di Cahar vengano chiusi entro domani, all'imbrunire.»
Il messaggero abbassò il capo e scattò fuori, chiudendosi la porta alle spalle.
«Volete chiudervi all'interno delle mura? Perché?» si sconvolse il principe.
Ander non rispose. Invece guardò gli altri uomini riuniti nella stanza. «Lasciatemi solo con il principe» ordinò infine il Re.
Jhann tolse la mano e uscì, seguito a breve distanza dal felica. La cariatide esitò. «Vi ho già messo in guardia, re. Il torto è stato grande e commesso due volte. Il sacrificio non può essere inferiore.»
«Conosco il verdetto del culto, cariatide. Ora, lasciaci.»
La donna parve sentirsene. Socchiuse gli occhietti minacciosi e indietreggiò fino alla porta. Prima di uscire, il suo sguardo si posò su Agur. Lo investì con rabbia e poi, con gesto deciso, portò due dita al ventre e le allontanò con veemenza: il culto lo aveva appena rinnegato.
«Perché ti lasci comandare da quella lì?» sbottò nello stesso momento in cui la porta si richiuse.
Il Re Ander sollevò un braccio per chiedere silenzio. Si avvicinò al figlio e lo studiò. C'era una luce strana negli occhi del padre, sembrava assorbire forza dalla sua presenza. Il sovrano appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle e inspirò. Agur sentì il grande peso che l'uomo reggeva, ne percepì l'onere, e per un attimo quello gravò anche su di lui. «Ci sono delle cose che devi capire adesso. È importante che sia adesso!» sembrò autoconvincersi. Per quanto ardore cercasse di ispirare, la sua figura parve rimpicciolire, contorcersi su se stessa. Agur capì che il re non aveva più speranza, per questo aveva bisogno della fede. «Un re non ha potere se il popolo non glielo concede. Un re è un uomo, ed è saggio che sia il più forte, perché un regno ha bisogno di forza per prosperare e dominare. La forza è necessaria sia nei momenti di pace che in quelli di guerra. Non sempre un uomo è forte in entrambe le circostanze.» S'interruppe, sembrò molto stanco. Dov'era finito l'uomo vigoroso e austero che aveva guidato il regno negli ultimi tre decenni? Agur si spaventò e il senso di colpa divenne più pesante: era lui la causa di quel malessere. «Il popolo è grande ma è fatto di molte teste piccole. Le teste piccole, da sole, sono suggestionabili e contagiano facilmente il gruppo. Se tu mostri debolezza o togli loro speranza, questi si disperdono impaurite. Il popolo ha bisogno della fede…»
«Ma tu non puoi credere, non puoi sperare…»
«Il re ha bisogno del popolo, e il popolo ha bisogno del re» si sovrappose al figlio. «È importante che tu capisca adesso!» La sua voce si fece pressante, il tono urgente. «E se il popolo necessita di una fede, il re deve concedergliela. Il culto ha molto potere sul popolo, perché parla la lingua della speranza. Ed è l'unica che il popolo ascolta nei momenti bui.»
Agur si sentì in trappola. Che potere aveva il Re se era prigioniero di un altro potere? Odiò quella donna, odiò quelle stupide credenze, e odiò la sensazione che stavano facendo nascere in lui. Stava iniziando a sentirsi prigioniero della sua stessa città. Cahar si stava preparando a chiudersi a riccio, si stava seppellendo in onore di un Dio, solo perché era più facile chiedere il suo perdono che guardare la morte in faccia.
«Padre» cercò di ragionare, «io ho visto quelle creature, e credimi se ti dico che non potrai difendere Cahar da dentro queste mura. Non c'è difesa che un uomo possa erigere contro di loro.» La sua voce ebbe un tremito, la paura per un attimo tentò d'impadronirsi delle sue viscere. Deglutì. «Fa la cosa più giusta per il bene del popolo, non per la loro fede. La fede non gli salverà, la fede ha bisogno di diventare azione e non solo una stupida preghiera» si aizzò incalzante. «Il perion può ferirli, padre, io lo so, l'ho visto. La mia cotta di maglia mi ha protetto, il mio pugnale ha reciso il corpo di quell'essere. Dirigiamoci a Serinut, verso i giacimenti. Da lì potremo avanzare con le giuste armi. Ma dobbiamo salvarci adesso!»
Ander chiuse gli occhi, la fronte aggrottata e la schiena piegata davanti, aggravata dal peso di un'età che andava oltre quella fisica. L'età del suo regno, dal tempo di Adurin il Bercio, ricadde interamente sul suo corpo, lo piegò e lo sconfisse. Il Re di Cahar si eresse in tutta la sua altezza, più alto e lontano che mai, e sancì: «Cahar non cadrà nella miseria e nell'abbandono. I suoi figli la proteggeranno, dovessimo venire distrutti insieme a lei.» Agur aprì la bocca per interromperlo, ma il re sbatté un pugno sul tavolo, con tanta ferocia da richiamare gli uomini fuori dalla porta e le guardie dappresso. La sua voce tuonò su tutti loro come tamburo di guerra: «Suonate i corni, scaldate la pece. Il fuoco illuminerà a giorno la valle, e che sia dannato colui che abbandonerà questa terra senza aver versato una goccia di sangue!»
Come in risposta alle sue parole, un corno squillò dal torrione più alto della cittadella. Agur indietreggiò mentre la mole del padre si faceva largo verso la porta, fuori, sulle mura. Nella stanza calò il silenzio. La presenza di Jhann era un calore certo alle sue spalle, lo avrebbe riconosciuto ovunque; persino la figura allampanata del felica gli era familiare ormai. Della stanza e del paesaggio fuori dalla finestra, però, ritrovava ben poco di ciò che era stata la sua casa. I bracieri attizzarono in poco tempo e le mura abbagliarono i limiti della città: Cahar si preparava al rogo, il proprio.
«Agur…»
«Che sia dannato il mio nome se lascerò morire la nostra discendenza per follia e codardia.» Si voltò verso l'amico, lo sguardo di pietra. «Abbi fiducia in me e rinnega il tuo Dio, Jhann.» L'omone sgranò gli occhi, ma rimase in silenzio. «Se la gente ha bisogno di una fede, che creda in ciò che può vedere: la forza di un uomo e la strada che è irta davanti a lui. La scaleremo, dovesse essere l'ultima cosa che faccio come principe di questa terra dannata.» Si allacciò più stretta la cinghia intorno alla vita, assicurandosi che il pugnale e la corta spada di perion che si era procurato fossero ben saldi al suo fianco. «Va’ alla locanda. Da lì la voce balzerà più in fretta. Assicurati che le mie parole giungano a più gente possibile. Se è il popolo il vero potere di un sovrano, allora che sia esso a chiamare la salvezza. Che sappiano qual è la scelta: morire qui o trovare un luogo da cui riprenderci un giorno quello che ci è stato tolto. All'imbrunire, domani, noi partiremo alla volta di Serinut. Dobbiamo assicurarci le cave di Derr. Jhann, ho bisogno del soldato adesso, non dell'uomo fidato di mio padre.»
L'omone si strinse più volte nelle spalle, saggiando a più riprese l'aria pungente della sera. «Mi stai chiedendo di tradire il mio Re.»
«Ti sto chiedendo di prestare fedeltà a un Figlio di Cahar, discendente diretto di Adurin il Bercio, in nome di colui che quelle belve le sconfisse, sotto la promessa che verranno sconfitte di nuovo.»
Jhann lanciò un'occhiata interdetta alla sua espressione. Non c'era paura o boriosa arroganza nella sua voce, ma poté vedere l'ira e il furore scoppiettare sotto quelle lastre di tempesta. Sospirò. «Cosa vuoi che faccia?»
 
 
I grandi portoni della cerchia esterna si chiusero come pietre tombali su una fossa comune, la gente murata viva all'interno della cittadella. Non c'era centimetro delle mura che non rifulgesse nella notte, non c'era lancia che non brillasse agguerrita ai posti di guardia dei bastioni. Era calata una strana calma su tutta Cahar, un sudario oscuro che inghiottiva persino le stelle. La gente – coloro che avevano deciso di restare – si erano radunati ai lati della via meridionale, quella più stretta e sinuosa, che conduceva al portoncino usato dalle ronde per pattugliare il perimetro esterno, per guardare quella parte di popolazione che aveva annuito al richiamo del loro principe.
Il Re Ander non sembrava essersi sconvolto più di tanto, ma Agur sapeva che suo padre sapeva mostrare il lato più necessario quando era in pubblico; e in quel momento, la gente aveva bisogna di una roccia a cui aggrapparsi. Agur invece era l'onda che si ritirava, seguirne la corrente significava remare con tutte le proprie forze per non restare indietro e trovarsi in mezzo quando quella stessa onda avrebbe galoppato di nuovo verso la loro terra natia con furia e potenza inaudita.
La cariatide se ne stava circondata dai suoi fedeli, tra le gambe degli uomini e le sacerdotesse del Culto. Nella mente del principe rinnegato s'impresse a fuoco il simbolo di quelle catene mortifere: la donna se ne stava con le mani raggrinzite piegate ad artiglio davanti al volto, sputacchiando maledizioni e invocando l'ira dell'Agabar perché si riversasse solo sui figli infedeli, risparmiando loro, i suoi diletti. Agur guardò le sacerdotesse formare un capannello intorno alla vecchia, le gonne sfruscianti che insinuavano il male tra le strade, bisbigli che avvelenavano la mente. Nessun Dio avrebbe dovuto mai servirsi della lingua dei serpenti per poter guidare il suo popolo, egli ne era convinto.
Jhann cavalcava al suo fianco, le spalle un po’ incurvate, la bocca semiaperta mormorava qualcosa: preghiere verso l’Agabar, forse, o verso le puttane della taverna, dove aveva lasciato anche il suo boccale preferito. Legata alla sella dell’amico c’era lo spadone a due mani, pesante quanto una vena di perion, ed era proprio fatta di questo materiale. Il felica aveva rifiutato di salire in groppa a un quadrupede e li seguiva a piedi, insieme a tutta quell’altra gente sprovvista di animali da soma. Quelli con i carri avevano prestato il posto ai bambini e alle provviste dell’intero gruppo. I pochi animali, asini per lo più, erano caricati al limite delle loro possibilità. I bambini dormivano o piangevano, legati sulle schiene delle madri; quelli più grandi si tenevano stretti ai vestiti dei genitori, molto più spesso dei fratelli. La verità era che a seguire il principe erano per lo più ragazzi e fanciulli che la popolazione di Cahar aveva voluto mettere in salvo. I vecchi erano troppo stanchi per rincorrere una flebile speranza e quelli in forza per combattere avrebbero dato la vita per la città e la sua fede malcorrisposta.
«Mio signore» lo interpellò Jhann con tono ossequioso, come mai aveva fatto, «dove ci stiamo dirigendo?»
Agur tenne lo sguardo dritto davanti a sé, sull’antica strada che tutti conoscevano portare a est, verso il Volor. «Vitahj è la nostra meta.»
«Chiediamo asilo agli Spettri?» mormorò più piano, quasi con paura.
«Vitahj è una città di Venasta, fedele al suo Re. Gli Spettri sono miei sudditi. Prenderemo dimora lì, per un po’.» Il suo tono mise a tacere qualsiasi obiezione.
Agur strinse le redini e si costrinse a tenere la schiena dritta, la postura rigida e i piedi saldi nelle staffe, proprio come suo padre si obbligava a mostrarsi imperturbabile davanti al suo popolo fantasma. Erano già tutti morti, e la rabbia del principe aumentò schiumante. Non si sarebbe voltato, ma sapeva già che i fuochi erano stati accesi e che presto tutto sarebbe stato dato alle fiamme. Il fuoco era l’arma delle bestie, lo aveva avvertito. A suo padre aveva detto tutto ciò che sapeva, Cammur aveva indicato a lui la sua strada. A Vitahj, aveva detto il vecchio bibliotecario quando era rientrato nel suo regno, avrebbe trovato un altro credo che concedeva molto potere agli uomini; lì avrebbe trovato la magia.
«Vieni con me» gli aveva detto.
Ma Cammur era stato irremovibile. «Sono un custode. La mia tomba è la mia casa. Va’, principe rinnegato, e diventa Re di un popolo maledetto. Che tu possa trovare la lama che spezzi tale sortilegio.»
Gli occhi minacciarono di luccicare ma Agur scacciò il ricordo di quelle ultime parole d’addio e salutò il mentore che non aveva mai apprezzato. Poi avanzò deciso tra le tenebre del bosco e non vide l’incendio divampare.


 
 
N.d.A.

Dizionario aggiornato a CAPITOLO 5 - L'ultimo tra gli ultimi de "Il Tredicesimo Re"

Ringrazio chi ha letto, commentato, messo la storia tra le seguite, ricordate, preferite.
Per qualunque domanda o dubbio, mandate un MP, risponderò volentieri.
Non siate timidi e dateci sotto con tutto ciò che vi passa per la testa: ho le spalle larghe e non vedo l'ora di affrontare pane per i miei denti.
N.B. Picchio duro, ma non so ancora uccidere con una tastiera tra le mani.
   
 
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