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Autore: IndianaJones25    03/08/2017    4 recensioni
Di ritorno da un’avventura a Ceylon, Indiana Jones può finalmente iniziare un nuovo anno accademico. Ma, proprio quando pensa che per qualche tempo le lezioni universitarie saranno la sua quotidianità, il celebre archeologo riceve un nuovo incarico: quello di ricostruire lo Specchio dei Sogni, l’unico oggetto in grado di condurre al Cuore del Drago, un antico artefatto che non deve cadere nelle mani sbagliate. Così, affiancato dal suo vecchio amico Wu Han e da un’affascinante e misteriosa ragazza, Jones si vedrà costretto a intraprendere un nuovo e rocambolesco viaggio attorno al mondo, in una corsa a ostacoli tra mille difficoltà e nemici senza scrupoli…
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harold Oxley, Henry Walton Jones Jr., Marcus Brody, Wu Han
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1 - ANTICHE ROVINE

   Ceylon, 1935

   I rumori ed i versi degli animali, uniti ai leggeri sciacquii dei piccoli corsi d’acqua, giungevano attutiti dalla fitta vegetazione, che filtrava i raggi del sole creando giochi di luce e di ombra in cui spiravano lenti i vapori leggeri che si levavano dal suolo; l’unico suono rimasto inalterato sembrava essere il ronzio emesso dalle zanzare, le quali non concedevano alcuna tregua all’uomo che camminava lentamente aprendosi, di quando in quando, un varco tra le foglie con un secco colpo del coltellaccio che stringeva tra le mani.
   Ma ad Indiana Jones non importava nulla delle zanzare; che gli succhiassero pure tutto il sangue che volevano: ormai era così vicino alla meta da poter quasi udire il rumore dell’adrenalina che gli si riversava a fiumi nelle vene.
   Dopo mesi e mesi di dura ricerca, finalmente, avrebbe raggiunto il Tempio; si era ripromesso di non arrendersi, ed eccolo infine a destinazione. Mancava veramente molto poco.
   Era solo, quindi non poteva condurre un vero e proprio scavo archeologico, come d’altra parte gli era già capitato in diverse occasioni, ma doveva proseguire, sforzandosi di ignorare tutto ciò che vedeva attorno a sé. Diversamente, si sarebbe senza alcun indugio e ben volentieri fermato ad ispezionare minuziosamente i resti delle rovine che sbucavano qua e là tra le piante; e sarebbe bastato quello a regalargli fama mondiale, perché avrebbe dimostrato di come i Vedda, gli antichi abitatori dell’isola, un popolo della foresta, fossero stati in antichi tempi passati molto più avanzati tecnologicamente di quanto si sarebbe potuto intuire. Ma, allo stato attuale delle cose, avrebbe dovuto rinunciare a studi di tale portata per dedicarsi esclusivamente alla missione affidatagli dall’amico Marcus Brody: recuperare l’idolo della Dea del Fiume, un prezioso manufatto che popolava le leggende dell’isola.
   Brody, curatore di un museo le cui collezioni dipendevano in larga misura dai recuperi archeologici di Jones, aveva scoperto che il leggendario oggetto era molto più concreto di una semplice storiella, ed aveva pertanto spedito a recuperarlo l’amico archeologo, prima che potessero farlo altri. Non gli aveva, però, fornito che pochi indizi da cui partire, per cui l’archeologo aveva dovuto fare quasi tutto da solo, come al solito.
   Eppure, nonostante le diverse traversie in cui era incorso, eccolo lì, ad addentrarsi tra i resti di una città che neppure sarebbe dovuta esistere, stando alla storia ufficiale.
   Sapeva bene, però, che le difficoltà affrontate per l’attraversata in solitaria della giungla non erano che una parte dei pericoli; era più che mai certo, infatti, che anche qualcun altro stesse tentando di mettere le mani sull’idolo. Qualcuno che, spinto dalla sola bramosia, non si sarebbe fatto alcuno scrupolo per raggiungere il tesoro, senza rendersi conto che il vero patrimonio erano quelle favolose mura, quelle pietre intagliate ed i resti delle statue che lo scrutavano da ogni direzione, quelle testimonianze di un grandioso passato. Doveva, pertanto, giungere per primo alla meta, facendo attenzione a non farsi scoprire; se fosse accaduto, ne sarebbero derivati guai molto seri. Come se non ci fosse abituato.
   Ne aveva già avuto un primo assaggio nella polverosa biblioteca di Colombo, la capitale dell’isola, dove si era recato per recuperare una vecchia mappa delle rovine disegnata da un mercante olandese, il quale le aveva esplorate alla fine del XVII secolo; per sua fortuna, era riuscito ad impossessarsi di quel carteggio per primo, ma i suoi avversari avevano lottato con i denti per riuscire a sottrarglielo. Se era ancora vivo, ed incolume, lo doveva solamente alla sua sfacciata fortuna; se non fosse riuscito a saltare al volo sul tettuccio di un furgoncino che passava a velocità sostenuta sulla strada proprio fuori dalla biblioteca, infatti, non sarebbe mai riuscito a seminare i suoi inseguitori.
   Nonostante egli possedesse adesso l’unica mappa, però, era sicuro che quegli uomini avrebbero raggiunto egualmente le rovine, per cui sarebbe stata una cosa saggia, che gli avrebbe permesso di vivere più a lungo, guardarsi le spalle.
   Adesso, tuttavia, non riusciva a fare altro che guardare davanti ed intorno a sé, meravigliato da tanta bellezza; in anni ed anni di viaggi ed esplorazioni, infatti, non gli era mai capitata l’incredibile occasione di visitare ed attraversare, per primo in questo secolo, una città perduta avvolta dalla foresta intricata. E sì che, a soli trentasei anni di età, aveva già vissuto più avventure di qualsiasi altro viaggiatore fosse mai comparso sulla faccia della Terra. In quel momento, comprese che cosa dovesse aver provato Hiram Bingham, suo conoscente nonché buon amico di suo padre e di Brody, allorquando in Perù scoperse la città di Machu Picchu, l’ultima frontiera dell’impero incaico, ventiquattro anni addietro.
   Ed ora lui stesso, tra rampicanti ed alti alberi secolari, contorti e nodosi, poteva ammirare quello che un tempo doveva essere stato un maestoso e gigantesco agglomerato urbano, al cui interno fiorivano templi e palazzi, attraversato da strade lastricate e, senza ombra di dubbio, culla di una civiltà progredita, ormai scomparsa e quasi dimenticata, non solo dagli storici, ma anche dai lontani discendenti dei suoi originari abitatori; guardando le acque fresche e dolci di una cascata che cadeva dall’alto di una rupe, andando a formare un magnifico laghetto cosparso di foglie di ninfea, nel mezzo di una radura tra gli alberi, e seguendo il volo di uccelli variopinti, si domandò cosa mai potesse essere accaduto di così catastrofico da far regredire allo stato selvaggio il popolo che aveva abitato quei luoghi, in seguito sopravvissuto solamente grazie ai frutti della foresta ed all’applicazione di una cultura ridotta al minimo, se paragonata al passato.
   Da questa riflessione, gliene nacque spontanea un’altra: se quello era stato il destino di una civiltà, dove stava scritto che non sarebbe potuto anche essere un fato comune? E se la prossima, a scomparire, fosse stata quella società americana tanto forte di cui lui stesso era membro? Per un attimo, immaginò gli alti grattacieli di New York avvolti di liane e le sue strade rettilinee invase dalle erbe, ormai abbandonate dai pochi uomini rimasti, costretti a vivere in capanne nel deserto, ormai dimentichi del proprio passato. Si domandò se la situazione internazionale, che andava precipitando sempre più, ed inesorabilmente, verso una sicura catastrofe, avrebbe condotto gli uomini a regredire ad uno stato selvaggio e primitivo.
   Scuotendo la testa, allontanò quei pensieri e si concentrò sull’attimo; non poteva permettersi il lusso di perdersi in questioni filosofiche, adesso, anche perché lui era un archeologo e doveva occuparsi dei semplici fatti, non delle varie possibilità sul destino finale dell’uomo, nonostante fosse costretto ad ammettere che quei ragionamenti lo affascinassero. Ma, quelli, non erano né il luogo né il momento adatti. Chissà, avrebbe potuto rifletterci una volta fatto ritorno a casa, con l’idolo finalmente al sicuro in una teca del museo.
   «In tempo per l’inizio del semestre, magari» borbottò tra sé, «oppure questa è la volta che il rettore mi licenzia davvero.»
   Egli era, infatti, professore ordinario di Metodi di scavo e di ricerca archeologica presso il Marshall College di Bedford, nel Connecticut, sulla costa orientale degli Stati Uniti, ma aveva la cattiva abitudine di saltare costantemente le prime lezioni di ogni anno accademico, perché sempre impegnato in una qualche missione negli angoli più remoti del globo, costringendo sempre, così, il rettore a dover ricorrere ad un supplente per non far perdere troppo tempo prezioso agli studenti. Questa volta, però, era più che mai determinato a presentarsi addirittura all’inaugurazione del semestre, ossia prima ancora dell’inizio delle lezioni; non ricordava di aver mai presenziato a tale cerimonia, prima d’allora. Non essendoci mai stato neppure da studente, in effetti, non sapeva neppure bene in che cosa essa consistesse precisamente.
   Per riuscirci, però, doveva affrettarsi; così, distolto lo sguardo dalle meraviglie che lo circondavano, riprese la marcia attraverso la boscaglia.
   Dopo una svolta, tuttavia, fu costretto a fermarsi nuovamente, colto dallo stupore.
   Di fronte a lui, testimone silente della storia, si ergeva un palazzo in perfetto stato di conservazione, non fosse stato per qualche calcinaccio franato a terra e per i rampicanti che ne avevano avvolto la facciata.
   «Altro che studi stratigrafici alla ricerca di semini» disse a bassa voce.
   Quel luogo gli incuteva un rispetto tale che avvertì il bisogno di sfilarsi il cappello dalla testa e di portarselo al cuore, come se stesse entrando in una chiesa.
   Si incamminò lentamente verso il palazzo che, essendo circondato da una radura in cui crescevano solo piante molto basse, era facilmente raggiungibile e ben visibile. Si trattava di una maestosa costruzione di pietra a più piani, le cui grandi finestre superiori sembravano occhi intenti a fissarlo con una certa severità; le porte di accesso al piano inferiore, invece, erano molto piccole, evidentemente costruite a livello della statura degli antichi abitanti.
   Capì immediatamente, però, che quel palazzo doveva essere stato un centro di potere, non una normale abitazione; oltre che dalle dimensioni, lo intuì anche dai bassorilievi che correvano lungo tutta la facciata e che, seppure rovinati, mostravano ancora scene di battaglie e di incontri tra funzionari e tributari, che recavano in dono prodotti della terra od animali, alcuni dei quali facilmente riconoscibili - come scimmie, elefanti, orsi, bufali o varie specie di uccelli - ed altri, invece, impossibili da identificare; doveva trattarsi di bestie ormai estinte, oppure esseri mitologici, di quelli che certamente avevano popolato le leggende dell’antica popolazione. Si chiese se gli antichi abitanti dell’isola avessero creato anche una propria letteratura; magari ne sarebbe stato rinvenuto qualche frammento, prima o dopo.
   Gli sarebbe piaciuto studiare e copiare uno ad uno quei fantastici esempi di antica arte dell’isola, ma sapeva bene di non averne il tempo. Pertanto, si diresse verso una delle entrate del palazzo: stando alla carta del mercante olandese, infatti, da lì avrebbe avuto accesso ad un cortile e ad altri edifici, superati i quali avrebbe finalmente incontrato il Tempio della Dea del Fiume, il luogo in cui era custodito l’idolo che andava cercando.
   Con un poderoso colpo di coltello, tagliò i rami di una pianta rampicante quel tanto che bastava per riuscire a passare senza doversi chinare. Come fu entrato, cominciò a sudare ancora più abbondantemente di quanto già non stesse facendo perché l’umidità, intrappolata tra le pareti di pietra, aveva trasformato l’interno del palazzo in una specie di serra, in cui prosperavano piante di ogni genere, che per crescere si accontentavano delle piccole fessure tra le pietre sconnesse del pavimento.
   Si trovava, ora, all’interno di un corridoio abbastanza oscuro, lungo forse una decina di metri; in fondo, brillava la luce del giorno. Fu in quella direzione che si diresse ma, fatti pochi passi, si bloccò all’improvviso, perché il pavimento si interrompeva di colpo. Se non fosse stato per la sua abitudine di guardarsi sempre attentamente attorno, sarebbe precipitato di sotto.
   «Un volo di tre o quattro metri, mi sarei potuto rompere una gamba, o peggio» borbottò. «Perché diamine avranno scavato un buco proprio qui?»
   Osservò attentamente la cavità: era profonda, come detto, circa quattro metri, larga quanto il corridoio e lunga circa tre metri. Dopo quello spazio, il pavimento riprendeva e continuava normalmente fino alla fine del tunnel. Valutò che, in origine, doveva essere stata una specie di cantina, la cui copertura in legno era marcita e scomparsa ormai da secoli, generando, così, una pericolosa trappola per qualche incauto avventuriero non troppo attento a dove stesse mettendo i piedi. Senza farsi scoraggiare, rivolse lo sguardo al soffitto e notò il ramo di una pianta che era cresciuta saldamente aggrappata al muro. Quello sarebbe stato il suo ascensore per giungere dall’altra parte.
   Infilatosi il coltello nella cintura, srotolò una frusta che portava al fianco e, con un’abilità da fare invidia ad un domatore di leoni, la fece schioccare; con una mossa flessuosa, il nerbo si legò fermamente al ramo soprastante. Dopo aver saggiato la resistenza del legno, Jones si aggrappò con forza alla frusta e si lanciò nel vuoto. Lo aveva già fatto milioni di volte ma, in ogni occasione, provava un brivido di eccitazione nell’avvertire l’aria che gli scorreva addosso e l’assenza del terreno sotto i piedi. Infine, fu dall’altra parte.
   Ritirata la sua fedele frusta, da cui non si separava mai, cominciò a sistemarla per attaccarla nuovamente alla cintura, avanzando nel contempo verso la fine del corridoio.
   Percorse il resto del tragitto senza altri incidenti e si ritrovò, così, sopra una balconata che dava su di un cortile in pietra infestato di erbe selvatiche. La sua attenzione, però, non fu attirata tanto dalle rovine del cortile quanto, invece, dalle voci umane che da esso provenivano. Erano voci inglesi, che parlavano abbastanza forte da permettergli di comprendere cosa stessero dicendo, pur non riuscendo a scorgere, dal suo punto di osservazione, alcuna persona.
   «Che dannato posto, pieno di zanzare e sassi vecchi» stava lamentandosi uno. «Niente donne o birra, solo maledetti insetti! Che diavolo ci siamo venuti a fare?»
   «Finiscila di lagnarti, lo sai perfettamente perché siamo qui» gli rispose qualcuno. «Il tedesco ci pagherà profumatamente per il suo maledetto idolo. Possiamo ben sopportare una qualche puntura di zanzara!»
   «E dell’americano non tieni conto?» si intromise una terza voce. «Quel dannato ci è sfuggito, a Colombo! E la colpa è solo vostra che, anziché seguire il mio piano per coglierlo di sorpresa, gli siete voluti piombare addosso come tori scatenati!»
   «Parlano di me» pensò Jones, sentendosi quasi lusingato dall’essere citato da sconosciuti. «Devono essere per forza i tre simpaticoni che mi volevano fare secco in biblioteca.»
   «Quello non ci creerà problemi» sentenziò la seconda voce. «Che cosa vuoi che ci possa mai fare, un professorino? È vero, è stato piuttosto agile nel darsi alla fuga, ma vedrai che si sarà spaventato a morte e sarà già in volo per l’America, quel pivello, parola mia. Se, poi, per pura casualità, dovesse saltare fuori di nuovo, una bella fucilata in faccia lo liquiderà in eterno.»
   Jones udì un tintinnare di vetri, proprio sotto di sé; i suoi misteriosi avversari, dunque, dovevano essersi fermati a mangiare ed a bere all’ombra del grande balcone sopra il quale si trovava lui stesso. Decise che, per prudenza, si sarebbe dovuto allontanare da lì.
   Mentre si spostava, si chiese chi mai fosse il tedesco nominato da uno di quei tre; doveva essere una specie di collezionista, che voleva impadronirsi dell’idolo. Ma se era certo che Marcus lo cercava per chiuderlo nella teca di un museo, dove chiunque avrebbe potuto ammirarlo e studiarlo in ogni momento, difficilmente si sarebbe potuto asserire lo stesso di un uomo che si serviva, per le proprie ricerche, di scagnozzi pronti ad uccidere chiunque gli si fosse parato davanti e privi di qualsiasi interesse verso quelli che consideravano solamente sassi vecchi.
   Perso in quelle elucubrazioni, non si avvide di una pietra sul pavimento e, così, camminando, la calciò con forza, mandandola a sbattere contro la parete di fronte.
   «Cos’è stato?» risuonò immediatamente, da sotto, una voce.
   «Non ti preoccupare, sarà solo qualche animale» rispose un altro. «Una scimmia, direi. Oppure una pietra precipitata, questo postaccio cade a pezzi, vecchio com’è.»
   Dopo un attimo di silenzio, durante il quale Jones non si mosse né fiatò per evitare di provocare qualsiasi altro suono sospetto, la prima voce disse: «Se è una dannata scimmiaccia, la farò secca a fucilate… se è qualcos’altro, agirò allo stesso modo!»
   «Sei fissato, col tuo americano. Non è qui, te l’assicuro! E, di sicuro, se sapesse della nostra presenza, non sarebbe tanto stupido da farsi scoprire come un babbeo. Ma ti ripeto che non può sapere che noi siamo qui, perché è lontanissimo da questo posto!»
   Nonostante quelle parole, tuttavia, si avvertivano già pesanti passi percorrere il selciato sottostante; dopo un poco, li si poté udire mentre risalivano una scalinata di pietra che collegava la balconata al cortile.
   Rapido come il fulmine, Jones individuò una nicchia in un muro coperta da un cespuglio e vi nascose prontamente; allo stesso tempo, portò la mano alla fondina e ne estrasse la sua Webley Revolver color nero, un’arma che gli era stata d’aiuto a togliersi d’impiccio in diverse occasioni.
   Celato alla vista, poté così osservare senza problemi un grosso uomo che saliva le scale, sbuffando e grugnendo come un maiale. Era un omone tutto grasso e muscoli, abbondantemente sudato, il cui capo pelato era celato da un cappellaccio floscio di paglia. Tra le grosse mani sporche di unto, stringeva una carabina Winchester che, per quanto vecchia e malandata potesse sembrare a prima vista, doveva essere ancora perfettamente funzionante, nonché letale.
   L’uomo fece scorrere lo sguardo per tutto il balcone, ma i suoi occhi porcini non sembrarono fermarsi su nessun punto in particolare. Dubbioso, fece qualche altro passo in avanti, avvicinandosi abbastanza al cespuglio da permettere a Jones di avvertire l’odore rancido di alcol e tabacco che emanava il suo alito, unito alla sua puzza di sudore, nonché il suo respiro pesante. Nel vederlo, lo riconobbe immediatamente: era proprio, come aveva immaginato, uno dei tre che lo avevano assalito, e quasi sopraffatto, a Colombo.
   «Dove sei, scimmietta?» quasi sussurrò l’uomo. «Fammi vedere il tuo bel musino, avanti!»
   Jones si costrinse a non respirare, perché l’uomo era adesso tanto vicino che, se solo ne avesse avuti, avrebbe potuto contargli i capelli sulla nuca. Se soltanto si fosse voltato di un centimetro, lo avrebbe visto.
   E, infatti, accadde.
   Gli occhi dell’omone girarono sul cespuglio, e si spalancarono per lo stupore nel trovarsi a così breve distanza da Jones. Il quale, senza aspettare altro, fece scattare avanti il pugno destro e, con la canna della pistola, colpì l’avversario in pieno viso.
   L’uomo gridò e cadde all’indietro, premendo il grilletto; ma il fucile, puntato verso l’alto, non ottenne altro effetto che quello di provocare un grosso rumore.
   «L’hai trovata, la tua scimmia, Bob?» urlò una voce da sotto, ma l’interpellato non poté rispondere. L’archeologo, difatti, gli era piombato addosso e, dopo averlo disarmato, lo stava tempestando di pugni in faccia.
   «Ma questo che rumore sarebbe?» si sentì dire da sotto. «Qualcosa non va, andiamo a vedere!»
   Lo scalpiccio si propagò nell’aria, ma Indiana Jones era pronto.
   Sopraffatto il proprio avversario e rifoderata la pistola, attendeva i due compari dell’omaccione in mezzo al corridoio, in piedi ed a gambe larghe, il fucile già puntato con sicurezza di fronte a sé.
   Quando i due comparvero dalle scale, con le pistole strette in mano, tuonò: «Gettate le armi o svolazzerete all’inferno!»
   I due, sbigottiti, si bloccarono di colpo e, vistisi in grave pericolo, lasciarono cadere in terra i loro revolver, che cozzarono sul pavimento con un rumore metallico.
   «Molto bene. Ora…»
   Ma Jones non riuscì a terminare la frase, perché l’omone steso ai suoi piedi, riavutosi più in fretta del previsto, lo aveva afferrato per le gambe, sbilanciandolo nel tentativo di trascinarlo al suolo. Per sua fortuna, riuscì a non perdere di mano il fucile, perché immediatamente gli altri due si precipitarono sulle pistole. Uno dei due si voltò, intenzionato ad ucciderlo, però Jones fu più rapido e premette il grilletto. Sebbene non avesse avuto il tempo per mirare, il proiettile andò a conficcarsi in pieno nel petto dell’uomo, che scivolò a terra con un gemito.
   L’altro si scansò immediatamente di lato, gettandosi sulle scale per mettersi fuori tiro, mentre l’omaccione, che gli si era aggrappato ai pantaloni, continuava a tirarlo verso di sé; con uno strattone, però, l’americano riuscì a liberarsi dalla sua presa e, sferrandogli un calcio in pieno viso, lo mise nuovamente al tappeto, lasciandolo privo di sensi.
   Si voltò per guardare dove fosse finito il terzo uomo, e lo fece appena in tempo per vedere una pistola che gli apriva contro il fuoco; gettatosi a terra e lasciato il fucile che lo ingombrava, estrasse rapidamente la Webley dalla fondina e rispose al fuoco. Per un attimo echeggiò solo il frastornante rumore dei colpi secchi delle pistole, poi il terzo uomo gridò di dolore e la pistola che spuntava dalle scale venne lasciata cadere.
   Credendo in un inganno e che magari l’altro fosse armato con qualche altra pistola, Jones lasciò trascorrere almeno due o tre minuti prima di muoversi per sincerarsi dell’accaduto; poi, cautamente, si avvicinò alle scale e vi spiò. Il suo avversario, colpito da un proiettile di rimbalzo alla testa, era scivolato per i gradini ed ora giaceva privo di vita all’imbocco del cortile, a pochi metri dal luogo in cui, fino a poco prima, stava bivaccando con i due compagni discorrendo di zanzare e ricompense.
   Senza più badare agli altri due uomini, Indiana Jones discese le scale e si guardò attentamente intorno.
   Il cortile di pietra era, ovviamente, invaso dalle erbacce, ma vi si poteva ancora ammirare la squisita fattura dei bassorilievi che, anche lì, come all’esterno del palazzo, ornavano le pareti. Si soffermò ad osservare quella che, a ben vedere, doveva rappresentare una danza rituale, eseguita da alcune donne, mentre al loro fianco degli uomini adoravano una divinità femminile dall’aspetto molto florido e prosperoso.
   «Un’area sacra» dedusse tra sé e sé. «Evidentemente, le funzioni politiche ed amministrative si tenevano nel corridoio e nei piani alti del palazzo, mentre il cortile era una sorta di santuario. Mi sto avvicinando.»
   Dopo aver dato una rapida occhiata all’accampamento dei tre scagnozzi, senza tuttavia trovarvi nulla di significativo, all’infuori di qualche bottiglia di whisky scadente e di poche scatolette di cibo, girovagò per il cortile fino a quando non s’imbatté in un nuovo corridoio, che sembrava condurre al lato diametralmente opposto a quello da cui era entrato.
   Anche questo corridoio mostrava dei bassorilievi alle pareti: pur avendo una certa fretta, non riuscì ad esimersi dal controllarli tutti. Mostravano scene di iniziazioni rituali di uomini e donne, la venerazione della stessa divinità femminile di prima e pure quelli che parevano essere sacrifici umani: sacerdoti che spingevano in un fiume vorticoso, popolato da coccodrilli, dei prigionieri nudi. E, a giudicare dal loro numero, la Dea del Fiume doveva essere molto ghiotta di carne umana, e mai sazia. Dentro di sé, provò un brivido al pensiero della sorte toccata a quei poveretti, e si augurò di non dover fare la stessa, brutta fine.
   Giunto al termine del tunnel, si ritrovò sull’orlo di uno strapiombo, sotto cui scorreva impetuoso un fiume; ecco, da dove venivano gettati i prigionieri.
   Si guardò attorno, per capire in che direzione dovesse procedere adesso; secondo la sua mappa, il Tempio sorgeva lungo la sponda del fiume. Solo che il fiume scorreva trenta metri più in basso in un canalone di roccia, e non sembrava avesse alcuna riva.
   «Deve esserci un passaggio che conduca di sotto» meditò.
   Immerso nei pensieri riguardo al tragitto da seguire, non badò immediatamente al secco rumore che avvertì alle spalle. Troppo tardi si rese conto che Bob, il corpulento mercenario a cui aveva affibbiato un calcione in pieno viso, aveva recuperato i sensi e lo aveva seguito.
   L’omone gli volò addosso e lo colpì allo stomaco con un potente diretto, mozzandogli il respiro; nel cercare di difendersi, Jones perse l’antica e preziosa mappa, che una leggera brezza fece volare via.
   Rispose con un pugno alla mascella di Bob, che incassò il colpo e gli tirò una testata al petto, gettandolo a terra. Riuscito a rialzarsi, evitò per un pelo una nuova carica da parte dell’erculeo avversario e gli si avventò contro, colpendolo con calci e pugni, ricorrendo a tutte le proprie forze per impedirgli di potersi difendere.
   Ma Bob era furioso e, afferratolo per il braccio destro, riuscì a bloccarlo ed a colpirlo sul viso e sul naso. Vedendolo in difficoltà, lo tenne stretto e cominciò ad avanzare in direzione del precipizio, spingendolo innanzi a sé con violenza, evidentemente intenzionato a gettarlo di sotto.
   La situazione era davvero grave e Jones sapeva che, se non fosse riuscito ad arrestare l’avanzata dell’omone, sarebbe morto, sfracellandosi contro le rocce sottostanti dopo un terribile salto nel vuoto; ma, nonostante provasse a fare freno con i piedi, non riusciva in alcun modo a bloccarlo, e si sentiva spingere in avanti ogni secondo di più.
   Alzato a fatica il braccio sinistro, allora, conficcò due dita negli occhi di Bob, che strillò come una capra sgozzata; ma, invece di smettere di correre, l’omone accelerò l’andatura, fino a che Jones sentì i piedi lasciare il terreno e scalciare nel vuoto.
   Se doveva finire così, però, era intenzionato a trascinarsi dietro anche il gigantesco uomo.
   Per cui, invece di cercare di aggrapparsi a qualche ramo sporgente per salvarsi, fece in maniera di mantenersi stretto all’avversario, che lo guardò negli occhi con un misto di odio e di terrore nel momento in cui cominciavano a precipitare entrambi verso il fiume vorticoso.

 
=== Nota ===

Ciao a tutti! Questa è la mia prima storia dedicata al mitico Indiana Jones.
Si tratta di una mia personale rivisitazione del videogioco Indiana Jones e la tomba dell'imperatore (2003), del quale ho completamente stravolto la trama originale, mantenendo però inalterati le ambientazioni e alcuni personaggi,
Spero che questa nuova avventura dell’uomo con la frusta e il cappello vi piacerà!
   
 
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