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Autore: mightymightygirl    04/08/2017    0 recensioni
Qualcosa di ricorrente nella vita di tanti, nauseabondo come un cliché. Eppure questo incubo genera ancora sgomento, nonostante gli anni che sono passati.
Ho deciso di "esorcizzarlo": descrivendo l'incubo, lo si può affrontare quasi senza paura.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Apro gli occhi.
Mi ritrovo al centro di una classe: davanti a me ci sono una lavagna e una cattedra, e tra queste ultime una sedia poco più grande delle altre; sono circondata da banchi e sedie, per ora tutto è silenzioso. Le gambe si fanno leggere, la testa si appesantisce, il respiro è sempre più affannato. La nausea e i crampi allo stomaco arrivano quasi all'improvviso, ma è come se li aspettassi.
L’ambiente non mi è nuovo, eppure continuo a non capire queste reazioni apparentemente così spropositate. Faccio qualche passo verso la finestra e mi affaccio per capire dove mi trovi, per trovare dei punti di riferimento che possano rassicurarmi.
Una parte di me vuole obbligarmi a fermarmi lì e a tornare indietro, ma l’altra mi spinge a scoprire di più. Mi accosto alla finestra e guardo fuori: vedo un grande campo da calcio in cemento, circondato da una rete metallica verde; nelle immediate vicinanze del campo c’è altro cemento, ma più avanti inizia un prato verde enorme, pieno di fiori di tutti i tipi.
Ora ricordo: sono alle scuole medie.
 
All'improvviso l’aula si riempie.
Alcuni ragazzini occupano i banchi sul fondo dell’aula: sono rumorosi, sbattono le mani su un banco e ridono. Cerco di avvicinarmi per poterli riconoscere, ma non distinguo segni particolari che mi facciano avere almeno un’idea della loro identità. Noto che indossano abiti simili e le loro espressioni sono terribilmente inquietanti.
I crampi allo stomaco aumentano, non sento più le gambe. Sto perdendo il controllo del mio corpo. Mi sento frastornata per via degli schiamazzi, delle urla e delle palline di carta che volano per tutta l’aula. Cerco qualcosa su cui focalizzare la mia attenzione e, nel farlo, mi accorgo che quei ragazzini si sono girati nella mia direzione, verso la quale puntano il dito e ridono. La traiettoria delle palline di carta è rivolta verso di me.
 
Qualcosa non quadra, perché i loro sguardi non sono rivolti proprio a me e perché le palline di carta non mi sfiorano minimamente.
Mi giro e avverto la presenza di un’altra persona. È seduta al primo banco dal lato della finestra; vedendola di spalle, mi sembra più piccola dei ragazzini urlanti. Mi avvicino per poter vederla meglio e cammino lentamente; mi appoggio ai banchi per non perdere l’equilibrio e avverto uno strano formicolio alle mani. Continuo fino a quando non arrivo a circa un metro di distanza dal banco, dietro al quale si trova una ragazzina. Deve avere almeno undici anni; i capelli, lunghi e marroni, sono legati da due trecce. Le gambe non toccano terra, quindi deve essere veramente molto bassa.
Voglio appoggiare la mano sulla sua spalla sinistra, ma non riesco a muovere il braccio. Voglio chiamarla, ma ho la gola secca e non riesco a parlare.
 
I dolori diventano sempre più insopportabili, al punto da non riuscire più a stare in piedi. Le urla e le risate denigratorie aumentano di intensità e sono quasi assordanti.
La ragazzina è impassibile: ogni suo movimento è quasi impercettibile. Provo a portarmi ancora più avanti, in modo da poter guardarla in faccia e capire se stia bene.
Un passo, poi un altro, poi un altro ancora; respirare sta diventando sempre più faticoso. Ora sono davanti a lei: il capo chino su un libro, l’indice della mano destra che scorre sulla pagina, la mano sinistra che regge un piccolo panino al latte a malapena consumato.
La mia testa inizia a girare pericolosamente e devo fare uno sforzo atroce per non cadere all'indietro: l’unica soluzione è reggermi al suo banco. Porto avanti le braccia e lo afferro, evitando così una caduta rovinosa; nel farlo, lo faccio muovere in avanti, attirando l’attenzione della ragazzina.
L’aria sembra più rarefatta, i suoni sono confusi, la mia vista si sta offuscando.
La ragazzina interrompe la lettura del suo libro e appoggia la sua merenda. Raddrizza la schiena e poggia entrambe le mani sul banco, senza sollevare lo sguardo dal libro.
Noto qualcosa di familiare intorno al suo collo: è una collana con un ciondolo a forma di coccinella. È la stessa che porto in questo momento. Poggio la mano destra sulle clavicole per cercare la collana; il movimento è automatico, non volontario. Sento la collana e non riesco a trattenere lo stupore, al quale segue un attimo di confusione.
 
La ragazzina alza lo sguardo. I suoi occhi incontrano i miei.
È spaventata, evidentemente a disagio; le sue guance sono umide, gli occhi arrossati dal pianto. Io non riesco a muovermi e continuo a fissarla incredula: quella ragazzina sono io a undici anni. Sento il peso della sua solitudine, della sua malinconia, della sua inquietudine, della sua innocenza. Non lo merita; nessuno lo merita.
Continuo a fissarla mentre le lacrime scorrono copiose sul mio viso, simili ad un fiume in piena; non riesco quasi più a respirare. Voglio poterle dire che andrà tutto bene, che tutto finirà, che la vita le sorriderà di nuovo, che ne vale la pena.
Ma è lei ad allungare il braccio verso di me e a porgermi la sua mano da stringere. Accenno un piccolo sorriso e gliela stringo con entrambe le mie mani: la sua è piccola e delicata, ho paura di stringere più forte.
Mi sembra di non sentire più alcun rumore e di riacquistare la vista. Lei si asciuga le lacrime con la mano rimasta libera e tira su con il naso; subito dopo, sento di nuovo il suo sguardo su di me.
Io la guardo, lei mi guarda. Prende qualche respiro profondo e apre la bocca: forse sta per dirmi qualcosa.
«Svegliati».
 

Chiudo gli occhi. Li riapro di scatto.
Sono a letto, completamente sudata. Giro la testa verso l’orologio sul comodino, che segna le quattro del mattino. Mi stringo al cuscino e cerco di fare mente locale.
Era solo un incubo.
   
 
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