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Autore: _Frame_    06/08/2017    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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135. Sui tetti e Fra le onde

 

 

12 aprile 1941, Salonicco

 

Due file parallele di soldati in uniforme tedesca marciarono lungo la strada piastrellata di ciottoli che si stendeva lungo la banchina del porto di Salonicco, i fucili raccolti nella piega del gomito e stesi sopra la spalla, gli sguardi alti e rigidi come marmo sotto l’ombra degli elmetti, e le schiene dritte come paletti. I soldati seguirono le ombre dei due piccoli Panzer che aprivano la marcia. Dietro di loro avanzarono i rombi bassi e borbottanti degli autocarri scoperchiati che gettavano fiotti di gas dalle marmitte, investendo il battaglione di motociclisti che procedeva chiudendo la carovana. Altri fanti sedevano sugli autocarri, reggevano le funi che tenevano saldate le casse di rifornimenti e di munizioni. Il vento scuoteva loro i capelli e i baveri delle giacche. La luce del sole, anche se fioca, li costringeva a tenere le mani tese davanti alla fronte e a ripararsi gli occhi.

Gruppi di soldati avevano già piazzato le artiglierie contraeree negli spazi fra i palazzi bianchi affacciati sul mare, tenevano i binocoli stretti davanti agli occhi, i cannoni puntati al cielo – le bocche di fuoco silenziose ai loro fianchi – e osservavano la sfilata dell’esercito tedesco che stava gremendo le strade della città e che si specchiava fra le acque piatte e scure del porto. File di pescherecci e di barchette a remi erano attraccate sui piloni ricoperti da alghe. Strati di molluschi e piccoli crostacei tappezzavano la banchina e gli scafi delle imbarcazioni, sollevavano un odore fitto e umido, simile a quello di una bagna salmastra, che stagnava nell’aria di tutta la città.

Colonne di fumo nero si elevavano da dietro i tetti degli edifici frastagliati contro il cielo nuvoloso. Un intenso odore di bruciato si mescolava a quello del carburante, dello zolfo, e a quello salmastro del mare. Gli scricchiolii provenienti dagli incendi venivano coperti dagli schiocchi che gli stivali dei soldati schiacciavano lungo la stradina di pietra, dai rombi degli autocarri e delle motociclette, e dal frantumarsi delle rocce sotto i cingoli dei Panzer.

L’ultimo autocarro della doppia colonna formata da mezzi e uomini svoltò una curva che circondava lo spigolo di uno dei palazzi, sgasò soffiando un fiotto di fumo plumbeo, e accelerò proseguendo la marcia dietro il battaglione. Tre ombre si materializzarono nella nube di gas. La più alta scese dal marciapiede e uscì dalla foschia, attraversò spostando lo sguardo fra i tetti dei palazzi. “Non può essere andato lontano.” Germania scrutò fra i fumi neri degli incendi che bruciavano nella periferia, lontano da loro, e nei suoi occhi si specchiò un’ombra di tensione. “La città è completamente occupata e sorvegliata, porto compreso. Quindi questo significa che Grecia si trova ancora qua a Salonicco e che è ancora possibile catturarlo.”

Bulgaria si chiuse il naso con due dita per non inalare la puzza di carburante unita a quella che proveniva dal porto, trascinata dal vento, e sventolò la mano libera per dissolvere il fumo che gli era arrivato in faccia. “E se lo avessero nascosto?” Tossì, si stappò le narici, tirò su col naso, e trotterellò per attraversare la strada. Scavalcò le rotaie deserte della linea del tram incastrate al suolo, e si rimise al passo con Germania. Si strinse nelle spalle. “Voglio dire, se io fossi nei panni di Grecia, mi troverei un bel nascondiglio, magari in qualche cantina o sotterraneo, o qualcosa così, e non uscirei prima che noi ce ne fossimo andati per continuare la discesa verso Atene.” Si infilò le mani nelle tasche, ridacchiò con tono sarcastico, e calciò un sassolino che rotolò fra i piedi di Romania. “Chi sarebbe così idiota da uscire e gettarsi in pasto al nemico che ormai è padrone di tutta la città?”

Germania scosse la testa. “Proprio perché sia noi che lui puntiamo a raggiungere Atene, so che Grecia non rimarrà a lungo nascosto e che tenterà di fuggire per arrivare prima di noi.” Tenne lo sguardo alto oltre i tetti degli edifici, lasciandosi sfiorare da un soffio di vento sulla guancia, e i tre pennacchi di fumo che toccavano il cielo si riflessero nei suoi occhi ristretti. “Ma noi non glielo permetteremo, e gli tenderemo una trappola che scatterà nel momento stesso in cui Grecia metterà piede alla luce del sole.”

Romania storse un sopracciglio, guardò a destra per assicurarsi che non arrivassero altri carri o mezzi, e corse anche lui di nuovo accanto a Bulgaria, dietro a Germania. “Come hai intenzione di catturarlo?” domandò. Una punta di scetticismo gli inaspriva la voce.

Germania si allontanò dalla strada di pietra, camminò lungo la distesa cementata della banchina, rivolse lo sguardo al mare, al tappeto di luce solare che si increspava fra le sottili onde mosse dal vento, e le sagome delle imbarcazioni ormeggiate gli sfilarono davanti agli occhi. “Sfruttando ogni vantaggio a nostra disposizione,” rispose. “Innanzitutto, noi siamo in tre. Grecia è da solo.” Spostò gli occhi da uno stormo di cinque gabbiani che volava in cerchio sopra gli alberi dei pescherecci, e tornò a posarli sul panorama di Salonicco, sulle strade occupate dai soldati, dai mezzi parcheggiati fra i palazzi, dalle file di fanti che marciavano lungo le vie deserte. Germania proseguì la camminata seguito dai passi di Romania e di Bulgaria che procedevano più velocemente per stargli dietro. “In secondo luogo, la città è completamente occupata dal nostro esercito, e per Grecia sarà come spostarsi su un campo minato.”

Romania incrociò le braccia al petto, lo sguardo ancora annebbiato dal dubbio. “Ma lui conosce la città meglio di noi.”

“Ma voi avete me.”

Sia Germania che Romania voltarono lo sguardo verso Bulgaria, attirati dalla sua voce, e si fermarono.

Bulgaria allargò un gonfio sorriso di fierezza, si posò la mano sul cuore buttando il petto all’infuori, e si alzò sulle punte dei piedi. “Dimenticate che ho sempre aspirato al governo di Salonicco. Anche io conosco questa città. Forse non la conosco casa per casa, ma penso di sapermi orientare abbastanza bene.” Sollevò le sopracciglia, squadrò entrambi con un’espressione di superiorità. “Meglio di voi due di sicuro.”

Romania fece roteare lo sguardo ed emise un piccolo sbuffo.

Germania invece studiò Bulgaria con occhi attenti. “Sei in grado di prevedere le sue mosse basandoti sulla morfologia del territorio?”

Bulgaria scese dalle punte dei piedi, tenne il mento alto e il sorrisetto rimase a increspargli le labbra. “Ovviamente.” Camminò di fianco a Germania, distese un braccio e rivolse la mano aperta agli edifici che si affacciavano al porto, ai tetti spioventi, alle vie strette e buie che odoravano di umido, di acqua di grondaia, e che si incastravano fra le pareti di pietra bianca baciata dalla tiepida luce del sole primaverile. “Salonicco è una città di mare, e questo significa che possiede vie molto strette, tutte intrecciate perpendicolarmente, come in una sorta di rete, se vogliamo.” Si rivolse a Germania e intrecciò le dita delle mani, simulò un reticolo. “Secondo me, Grecia sfrutterà questo particolare e userà la città come fosse un labirinto, seminandoci all’interno delle strade e scappando indisturbato.”

Romania corrugò la fronte, si strinse il mento fra le dita e picchiettò l’indice sulla guancia, pensoso. “Un labirinto,” rimuginò.

“La soluzione è una sola, allora,” disse Germania. “Dovremo dividerci, tutti e tre. Ma non dovremo mai allontanarci troppo l’uno dall’altro, perché dovremo essere pronti a intervenire in qualsiasi momento, nel caso uno di noi trovasse Grecia per primo.”

Bulgaria sbuffò, tenne il viso imbronciato, gettò in disparte gli occhi increspati da una ruga di rancore, e masticò un borbottio fra le labbra. “Sì, e poi magari abbandonarci come a Fort Rupel.”

“Lo spazio qui è decisamente più ampio rispetto a Fort Rupel.” Germania compì un passo pesante piazzandosi di fronte a entrambi, la sua ombra si stese, toccandoli e facendoli rabbrividire. Un lieve soffio di vento gli passò attraverso. I suoi occhi riflessero le sfumature del mare che si increspava alla sua destra, le onde donarono alle iridi una tinta più scura, fredda e profonda. “Ecco i miei ordini,” disse, “voglio un’azione rapida e voglio che abbiate i riflessi pronti a ogni evenienza, ancora di più rispetto alla battaglia sul forte. Per questo, non useremo fucili, nemmeno quelli d’assalto, ma solo pistole che sono più facili e leggere da maneggiare. Potete utilizzarne una per mano, se volete.”

Gli occhi di Bulgaria si accesero come fari. Lui tornò a gonfiare un ghigno d’arroganza e si spolverò la spallina. “Oh, sì, io ormai ci ho preso gusto.” Romania gli diede una spallata.

Germania li ignorò, diede la schiena a entrambi e compì un paio di passi attraverso la banchina. “Dividiamoci e cerchiamo Grecia.” Sollevò un indice inguantato al cielo. “Quando uno di noi lo avrà trovato, sparerà tre colpi in aria e gli altri due seguiranno il richiamo per accerchiare il nemico e imprigionarlo.” Li squadrò da sopra la spalla con un’occhiata gelida. “Tutto chiaro?”

Romania e Bulgaria si scambiarono un’occhiata bassa, aggrottarono un sopracciglio e fecero roteare gli sguardi al cielo. “Sissignore,” sbiascicarono. Ripresero a trotterellare dietro a Germania a passo svogliato.

Germania annuì. “Bene. Ora armatevi come si deve e poi cominciamo a pattugliare la città.” Si fermò, allungò un passo per attraversare la strada ma congelò subito il movimento della gamba. Sul viso si dipinse l’espressione tesa di chi si è appena ricordato qualcosa di importante. Si girò. “Bulgaria.”

Sia Bulgaria che Romania si fermarono, ma Bulgaria irrigidì come una statua, strinse leggermente i pugni e aggrottò le punte delle sopracciglia, combattendo contro il brivido di ghiaccio trasmesso dal tono con cui Germania l’aveva chiamato.

Germania sollevò le sopracciglia e gli lanciò una breve ma profonda occhiata di intesa. “Non deludere le mie aspettative.” Tornò a girarsi, attraversò la strada. Passò un altro dei mezzi blindati che nascose la sua figura dietro la stazza metallica. Quando se ne fu andato, Germania era sparito.

Bulgaria finì investito da una soffiata di vento che sapeva di mare e di alghe stagnanti. Un’onda di schiuma si schiantò sulla banchina, schizzi gelidi volarono e gli punsero la guancia, le palpebre, gli gelarono la pelle e trasmisero alla bocca il sapore di salsedine. I gabbiani continuavano a stridere, il mare a scrosciare, il vento a fischiare, e i mezzi dell’esercito a scorrere lungo le strade, a far ruggire i motori e a sporcare l’aria di grigio. L’energia della città invasa dai tedeschi gli vibrò attraverso le vene, strinse una morsa attorno al cuore, e la voce del vento marino gli solleticò l’arco dell’orecchio, prudendo all’altezza della nuca. Si sentì pervadere da un calore che aveva sempre desiderato possedere con tutte le sue viscere.

Romania si girò, camminò nella direzione opposta a Germania. Bulgaria lo scorse con la coda dell’occhio e scattò per inseguirlo. “Ehi, ehi, fermo un attimo.” Gli acchiappò la mano ancora prima che potesse girarsi o fermarsi, e lo trattenne. La sua presa strinse, gli diede la scossa. “Mi aiuteresti in un’impresa?”

Romania inarcò un sopracciglio, scosse il capo credendo di aver capito male. “Una cosa?” Fece un passetto all’indietro ma la mano di Bulgaria lo tenne a sé.

“Un’impresa di estrema importanza,” specificò Bulgaria. “Io ho...” Guardò Romania dritto negli occhi, e una piega di disperazione gli attraversò la fronte, gli rabbuiò lo sguardo. La sua voce suonò più cupa. “Germania mi ha praticamente appena promesso Salonicco, ma solo a condizione che io catturi Grecia di persona.”

Romania buttò un’occhiata distratta verso la strada, ma Germania era sparito. “E quando te l’avrebbe detto?”

“Be’, non...” Bulgaria si strofinò la nuca con la mano libera, si strinse nelle spalle e la sua espressione tornò incerta. “Non me l’ha proprio detto. Me l’ha, uhm, fatto capire fra le righe, ma sono sicuro che sia così, dato che ne avevamo già discusso appena partiti.”

Romania sfilò la mano da quella di Bulgaria, tornò a dargli la schiena e si rimise a camminare. “E dov’è il problema, allora?”

Bulgaria gli corse davanti, gli afferrò le spalle e lo bloccò di peso, piantando i piedi a terra. “Lascia Grecia a me.” Prima che Romania potesse aprire bocca, lui mollò la presa e giunse i palmi in preghiera. Gli occhi luccicarono, imploranti, larghi e acquosi come quelli di un bambino. “Ti prego, tu non hai nulla da perdere, ma io ho bisogno di questa vittoria.”

Romania sospirò, lasciò ciondolare il capo e i capelli gli finirono davanti agli occhi. “Senti.” Si staccò di dosso le mani di Bulgaria, lo strinse anche lui per le spalle e lo spostò in disparte, riaprendosi la strada. “Io ho intenzione di combattere seriamente com’è giusto che sia.” Lo superò, camminò lungo la banchina, e in quel momento un’altra fila di cinque autocarri tedeschi svoltò la curva fra gli edifici e proseguì parallelamente a lui, lungo la strada di ciottoli. “Di certo non lascerò andare Grecia solo per farlo prendere poi a te. Non stiamo giocando a cacciare un cervo.” Si massaggiò la gola e il collo sotto il bavero della giacca. Un brivido viscido e gelato gli corse lungo la schiena, gli scosse persino le punte dei canini. “E poi Germania mi staccherebbe la testa se sapesse che l’ho fatto scappare di proposito, solo per assecondarti.”

Bulgaria scosse il capo e gli corse dietro, schiacciò i pugni sui fianchi. “E allora cosa dovrei fare, secondo te?”

Romania scrollò le spalle. “Non lo so, ma tu conosci la città meglio di noi.” Calciò un sassolino che rimbalzò su uno dei piloni di pietra, sbatté su un lampione spento, e rotolò in acqua con un pluf! “Gioca su questo elemento.”

Bulgaria sbuffò. “Sì, facile a dirsi.” Poggiò un passo più pesante, facendo scricchiolare ghiaia e polvere sotto la suola dello stivale, e una morsicata di dolore gli attanagliò il polpaccio. Bulgaria grugnì un gemito fra i denti, tirò su la gamba saltellando su un piede solo, e si strinse il polpaccio fra le mani. Si morse il labbro per non guaire di nuovo, infilò le dita sotto l’orlo dello stivale e si massaggiò il muscolo su cui si erano cicatrizzati i tre spari a forma di disco che gli avevano trafitto la carne durante il combattimento sulla Linea Metaxas.

Lo stesso rigetto di rabbia che aveva provato quando si era trovato inondato dalla scarica del mitra tornò a impastargli la bocca in un conato di bile. Che io riesca o non riesca a catturare Grecia di persona... Riappoggiò la gamba a terra, le mani risalirono il muscolo sfilandosi dallo stivale, e massaggiarono anche la coscia. Avrò la mia vendetta. Bulgaria mosse le dita del piede, e non provò più dolore. Questo è sicuro. Volse lo sguardo al mare, si portò la mano davanti alla fronte per ripararsi dai raggi di sole appannati dalle sottili nubi di fumo trascinate dal vento che soffiava sugli incendi. I gabbiani erano macchioline bianche che galleggiavano contro la distesa cerulea sporca di grigio, una corrente d’aria li trascinò più in alto, fino a che non sparirono dalla sua vista.

 

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Tre gabbiani volarono attraverso la striscia di cielo che passava fra i tetti dei palazzi, si disposero in cerchio, uno di loro stridette, e lo stormo si ritirò, sparendo dietro i comignoli anneriti dalla fuliggine. Grecia abbassò lo sguardo dal cielo, trascinò i piedi più vicino a sé, rannicchiò le ginocchia al petto stringendo un braccio attorno alle gambe, e appiattì le spalle e la schiena alla parete del vicolo, rintanandosi nell’ombra pregna di umidità. Il suolo tremò, le vibrazioni si trasmisero al suo corpo, e si avvicinò un rumore di passi in marcia, di automezzi in moto e di pneumatici che facevano scricchiolare la strada di pietra. Ombre di uomini alte e sottili si allungarono all’interno del fascio di luce che si infilava nel vicolo, sfilarono come una pellicola seguiti dalle sagome nere degli automezzi e delle motociclette. Grecia rimase nell’ombra, sporse solo lo sguardo, si scostò una ciocca umida di sudore dal volto, e le immagini dei soldati in marcia dietro i Panzer e gli autocarri si specchiarono nei suoi occhi opachi, appannati da sonno e stanchezza. Fitte occhiaie gli appesantivano le palpebre, gli occhi bruciavano ed erano arrossati agli angoli, dove il gonfiore si inspessiva. Non dormiva da giorni.

Ormai la città è completamente assediata.

La colonna di truppe terminò, le ombre smisero di sfilare, il suono di passi si allontanò assieme a quello dei motori, e il terreno smise di vibrare. Grecia rilassò i muscoli, riprese a respirare con regolarità soffiando un sospiro di sollievo, e sollevò lo sguardo tenendosi i capelli in disparte. Fra il sottile spazio creato in mezzo ai tetti spioventi degli edifici, cappe di fumo continuavano a gonfiarsi e a evaporare toccando le nubi che tappezzavano il cielo della città. Fitte e gonfie colonne di fumo nero che odoravano di legna bruciata e di ferro fuso. I gabbiani erano spariti.

Qualcosa nel vicolo si mosse, zampettò in mezzo alle casse macchiate di muffa, e una delle aste di legno si inclinò, fece cadere un vecchio chiodo arrugginito che rotolò sopra un filo di acqua sporca incastrata fra i ciottoli che piastrellavano il suolo e tintinnò contro la grata di uno dei tombini. Gocce di acqua tiepida e marrognola piovevano dalla grondaia che scendeva dall’edificio su cui Grecia teneva premute le spalle, ticchettavano sulla pozzanghera più grande sulla quale stagnava una pellicola verde e muschiosa. Vecchie reti da pesca incrostate di alghe erano accatastate contro le colonne di casse di legno ammuffito accostate al muro. Il vicolo emanava un lezzo di molluschi, di pesce marcio, di lische e di conchiglie vuote. Grecia sentì tutto l’amaro di quell’odore entrargli in bocca e trasmettergli un profondo senso di sconforto.

Tornò ad accasciare le spalle alla parete, distese una gamba urtando una delle casse disfatte con il piede, e si passò una mano fra i capelli. Sospirò a lungo. Ho fatto male a venire qua a Salonicco. Era chiaro che non ce l’avrei mai fatta a difenderla da solo, e adesso mi ritrovo incastrato fra le mura della mia stessa città. Avrei dovuto proseguire la discesa e avvantaggiarmi nei confronti di Germania per la corsa ad Atene.

Lo stomaco ruggì un gorgoglio di protesta, un crampo di fame gli strinse la pancia e lo costrinse a massaggiarsi il ventre. Grecia arricciò una smorfia di disappunto. Raggiunse la tasca della giacca, scavò sul fondo e pescò una zolletta di zucchero che era avanzata dalla razione. La succhiò lentamente, fece scricchiolare i grani dolci fra i denti, e riuscì a placare almeno i giramenti di testa. Ormai non ho scelta, rimuginò. La mano scese di nuovo, le dita sfilarono attraverso la cinta e passarono sopra il fodero della pistola, accanto alla sacca dove conservava una cartuccia di proiettili di riserva e due bombe a mano. Devo combattere se voglio avere una qualche possibilità di salvarmi.

Passò la punta della lingua su indice e pollice dove erano rimasti incollati alcuni cristalli di zucchero, ma assorbì solo il sapore di ferro e di terra. Si piegò sulle ginocchia, rimase accucciato sulle punte dei piedi reggendosi al muro con una mano, e tornò a sbirciare fuori dal vicolo. Arricciò la punta del naso. La città puzzava di tedeschi, di nemico. Il mio svantaggio è che io sono da solo, mentre Germania è di nuovo scortato da Romania e Bulgaria. Si massaggiò la schiena, e le vertebre scricchiolarono. I muscoli induriti e ancora indolenziti dalla scarica di spari che si era cicatrizzata da poco gli trasmisero forti fitte di dolore che gli mozzarono il fiato. Per di più non sono nemmeno in forma perché non ho dormito, sto mangiando poco e male, e non mi sono completamente ripreso dalle ferite che ho subito durante l’attacco alla Linea Metaxas. Però io conosco la città meglio di loro e so muovermi meglio.

Al rombo dei motori si sostituì lo scroscio del mare che si sollevava dal porto. Il suono ritmico delle onde che si gonfiavano, che colpivano la banchina rompendosi e tornando a unirsi alla distesa di acqua scura arrivò fino a Grecia come un soffice abbraccio di consolazione.

Grecia si lasciò carezzare da quel vento profumato, dal suono dolce dell’acqua che si rimestava lasciandosi intiepidire dalle scintille del sole specchiato fra le creste delle onde. Il mare. Una scintilla brillò anche nella sua mente. Chissà se potrò sfruttarlo in qualche maniera? Girò lo sguardo, di nuovo attirato dall’ombra del vicolo, dalla forte umidità che gli incollava i capelli alla faccia, e dall’odore di marcio proveniente dalle casse e dalle reti abbandonate. Lo spazio fra i due edifici era tale che non permetteva il passaggio di due persone una accanto all’altra.  I vicoli così stretti sono un vantaggio per l’uso di bombe a mano, perché il fumo farà più fatica a disperdersi e mi terrà coperto più a lungo. Strinse la mano sulla cinta che pesava per la pistola e per le bombe. Forse ho qualche possibilità di cavarmela.

Si rialzò tenendosi aggrappato al muro, ma né le ossa né i muscoli gli trasmisero fitte di dolore. Sono già sfuggito a Germania una volta. Restrinse le punte delle sopracciglia. Una luce di coraggio e determinazione gli rischiarì lo sguardo facendo svanire il grigiore della stanchezza. Posso farlo ancora.

 

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Romania inseguiva un’ombra. Dovette tirare su una mano stretta a una delle pistole per ripararsi dal sole con il braccio, strinse gli occhi resistendo alla coltellata data dai raggi di luce che si erano schiantati sulla sua faccia, e continuò a correre ad ampie falcate facendo volare i piedi attraverso le strade che si intrecciavano come budella fra gli edifici di Salonicco.

Abbassò il braccio dalla fronte dopo essersi raschiato via uno strato di sudore dalla pelle che bruciava, rossa e accaldata, e strinse le mani sulle impugnature delle pistole che gli stavano scivolando dalla presa. La pelle gemette, le nocche sbiancarono, le dita tremarono di fatica, gli spasmi risalirono le braccia appesantite e andarono a indolenzire le spalle. Il fiato pesante che soffiava fra le labbra secche assorbiva tutto l’odore del mare e dei fumi degli incendi che ormai si stavano spegnendo, bruciava attraverso la gola, gli schiacciava i polmoni dilatati contro le costole per la fatica della corsa. Rivoli di sudore gocciolavano dai capelli e colavano dai lobi delle orecchie, dagli zigomi e dalle ciglia. Era fradicio.

Romania scrollò il capo, rallentò la corsa, si infilò in una stradina più illuminata, dove il sole si specchiava contro le finestre chiuse dei palazzi, e guardò a destra – automezzi tedeschi erano parcheggiati sotto l’ombra dei tetti – e a sinistra – la facciata di un palazzo era nascosta dai rami di due acacie che stavano iniziando a vestirsi delle prime foglie primaverili. L’ombra di Grecia era svanita. Non ne sentiva più il rumore dei passi in corsa, o il fischio del vento che si apriva sotto il passaggio del suo corpo, o le vibrazioni dei colpi di pistola che si erano già scambiati e che avevano fatto rimbombare il loro eco all’interno delle vie.

Romania strinse i denti, fece stridere i molari, e un sottile ringhio di frustrazione fece scintillare i canini premuti sul labbro. Dov’è andato, maledizione? Un fruscio gli fece prudere le orecchie, lo fece girare di scatto imprimendo una strisciata di suole a terra.

La presenza tornò a investirlo come un’ondata elettrica, gli fece rizzare la pelle d’oca, e formicolò attraverso le braccia e il ventre. Romania rivide l’ombra nemica sfilargli davanti allo sguardo e scomparire nel labirinto di strade e di vicoli incastrati in quegli edifici alti e bianchi. Sollevò la pistola impugnata dalla mano destra e la portò accanto al viso, flesse l’indice dentro l’anello del grilletto, pronto a sparare di nuovo, e tornò ad accelerare la corsa, svoltando in un vicolo ombreggiato e chiazzato da pozzanghere alimentate dall’acqua che grondava dai muri. Di qua!

Chiuse gli occhi, si lasciò guidare solo dalla luce del sole che splendeva anche attraverso la sottile membrana delle palpebre chiuse, dal suo calore che faceva prudere il sudore imperlato su guance e fronte. Si lasciò attirare dalla presenza che lo chiamava a sé come un campo magnetico e che serpeggiava attraverso il sangue, facendogli prudere le mani. Immaginò di correre attraverso una rete di rami elettrici che ronzavano e schioccavano di energia, visualizzò quello più grosso, bianco e sfrigolante, e lo inseguì.

Questa città è strana, pensò. Le sue vibrazioni sono enormemente confuse per la presenza dei tedeschi che l’hanno appena invasa, la gente è spaventata, è come correre nel chiasso di un alveare. Increspò le punte delle sopracciglia e svoltò un’altra curva, continuando a tenere gli occhi chiusi. L’energia elettrica gli corse sotto i vestiti, pizzicò la pelle, arroventandola, e lo chiuse in una gabbia magnetica. L’ombra che era scappata da lui aveva lasciato dietro di sé l’eco dei passi e del fiato corto, come una scia di impronte fosforescenti. Ma riesco comunque a inseguire la presenza di Grecia e isolarla dal resto.

Romania si imbucò in una stradina buia e polverosa, che odorava di pioggia e di ferro, e si schiacciò con le spalle al muro, la schiena appiattita, e i talloni incollati alla parete. Sollevò entrambe le pistole, le braccia tremarono di fatica, fitte di dolore penetranti come chiodi gli si conficcarono nelle ossa delle spalle, e deglutì. Trattenne il fiato, tenne gli occhi serrati, e per un attimo udì solo il galoppare del suo cuore che martellava nella gola e contro le tempie pulsanti e sudate.

Si avvicinò un rumore di passi che scosse il pavimento e che fece vibrare le pozze d’acqua che stagnavano nelle rientranze dei ciottoli cementati al pavimento.

Romania rizzò le orecchie, il suo naso si arricciò, tastò un odore di vestiti sudati e impolverati. Sei qui, Grecia? Smise di respirare, rallentò il battito, irrigidì la tensione del suo corpo incollato al muro, e aspettò. La presenza in corsa si fece più forte e vicina, il campo di energia gli sfrigolò dietro le orecchie. Romania strinse i denti. Ma la tua corsa è finita. Scivolò fuori dallo spigolo dell’edificio, saltò al centro del vicolo, e tese le braccia. Puntò le pistole addosso alla presenza che gli stava correndo incontro. “Fermo!”

Bulgaria spalancò gli occhi e cacciò un gemito di sorpresa e spavento. “Wha!” Si scontrò con Romania e un lampo bianco esplose davanti ai loro occhi strizzati. Le fronti si scontrarono emettendo un tonfo sordo, di due meloni che crollano uno sull’altro, le teste scivolarono creando uno sfregamento di capelli, e Bulgaria sentì le labbra umide di Romania e le punte dei suoi canini scorrergli lungo il collo. Strinse le mani attorno alle pistole che non aveva lasciato e incrociò i gomiti attorno alle spalle di Romania, sentendosi cadere nel vuoto.

Precipitarono a terra. Romania batté il sedere e cadde di schiena, un’altra botta di dolore gli martellò la nuca e le spalle, e gli fece ingoiare un gemito. Bulgaria gli precipitò in braccio e parò la caduta battendo i pugni a terra, le braccia strette attorno ai fianchi di Romania, le ginocchia premute sul suo ventre e la faccia schiacciata sul suo petto. Allungò un rantolio che finì soffocato dalla stoffa della sua giacca. “Uurgh.” Sollevò la faccia torta in un’espressione di sofferenza e si massaggiò la fronte arrossata dalla botta. “Dio, che male.”

Romania riaprì gli occhi e sbatacchiò le ciglia per sciogliere il lampo di luce bianca che era esploso dopo lo scontro. Anche lui gracchiò un gemito di dolore. “T-tu?” Sollevò la nuca da terra e si massaggiò la testa. “Ma non eri andato nella direzione opposta?” Gli spostò le spalle, facendolo scivolare giù dal suo grembo, e guardò dietro e davanti a sé. Il tono di voce si inasprì. “Dov’è Grecia?”

Bulgaria continuò a strofinarsi la fronte con il dorso della mano che impugnava ancora la pistola e si lasciò spingere giù dalle gambe di Romania. “Pensavo stesse scappando da questa parte. Ho seguito il rumore dei passi.”

Romania fece schioccare la lingua, aggrottò le sopracciglia e lo sguardo rabbuiò. “Merda.” Tornò a gettare il viso dietro di sé. “Nei vicoli così stretti c’è più eco, ed è più facile essere ingannati. Lo sta facendo apposta per confonderci.” Rinfoderò una delle due pistole, sollevò il braccio, si lasciò stringere la mano da Bulgaria che si alzò per primo, ed entrambi si rimisero in piedi. Romania si spolverò giacca e pantaloni, sollevò la punta del naso. Sotto i tetti dei due palazzi, fra le pareti, copertoni di tela erano stesi fra travi di legno, nodi di corda tenevano saldi gli scheletri delle impalcature orizzontali. Non si vedeva il cielo. “Dov’è Germania?” Romania sollevò la canna della pistola che gli era rimasta in mano. “Dobbiamo avvisarlo di attirare Grecia fuori dagli edifici. Dobbiamo spingerlo verso il porto.”

Bulgaria si strinse nelle spalle e si strofinò la nuca con il calcio della pistola. “Ma Germania ha detto di restare separati. Se ci vedesse tutti e due assieme ci truciderebbe, e...”

Uno sparo esplose oltre i tetti degli edifici. Ne seguirono altri tre, uno di seguito all’altro. Romania e Bulgaria scattarono girandosi verso l’eco dei tre scoppi, uno stormo di cinque gabbiani si alzo in volo stridendo e facendo frullare le ali contro il cielo, fuggirono spaventati.

Bulgaria rimase a bocca aperta, le labbra tremarono. “T-tre spari?”

Romania sbuffò. “Come non detto.” Agguantò il polso di Romania, gli fece compiere una mezza piroetta, e lo trascinò in una corsa fuori dal vicolo. “Corri!” Cambio di programma.

 

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Germania abbassò il braccio con cui aveva appena sparato, scivolò di un passo di lato urtando uno dei bossoli dei proiettili che erano saltati fuori dalla semiautomatica, e sbatté la spalla alla parete del vicolo. Strinse la mano libera attorno al braccio ferito di striscio dal proiettile che Grecia gli aveva sparato contro, e riprese fiato a grandi boccate. Rivoli di sudore scivolarono dai capelli scompigliati sulla fronte, righe di sangue gocciolarono fra gli spazi delle dita che stringevano sulla manica bruciata.

Germania ingoiò un amaro moto di frustrazione, girò lo sguardo verso il vicolo cieco alla sua sinistra, verso la stradina che si infilava fra i palazzi alla sua destra e che svoltava in uno spazio più buio coperto dalle chiome delle acacie, e avanzò di un passo per buttare un’occhiata anche verso la piccola via che sgusciava fino al porto. La presenza di Grecia era sparita.

Sfrutta il territorio a suo vantaggio, come avevamo previsto, ragionò Germania. Di questo passo potrebbe davvero riuscire ad aprirsi una via di fuga e a lasciare la città.

Germania staccò le dita dalla ferita al braccio, le scrollò schizzando grosse perle di sangue contro il muro, e tornò a impugnare la pistola con entrambe le mani, trattenendo il fiato e rallentando il battito del cuore. Il dolore che pulsava all’altezza del muscolo si ritirò, il sangue si spanse più lentamente ma allargò comunque una chiazza nera sulla stoffa della giacca, fino al gomito.

Dove diavolo è andato?

“Germania!”

La voce di Romania lo sorprese alle sue spalle, arrivò accompagnata da un ruzzolare di passi sempre più rapido e vicino.

Germania si girò. Romania e Bulgaria gli corsero incontro, Romania stringeva il polso all’altro ed era più veloce. “Abbiamo sentito gli spari e...” Rallentarono, lo sguardo di Romania si posò sul braccio colpito di Germania, sulla manica sporca, sulle sue dita ancora sbavate di sangue. Si fermò e lo guardò negli occhi con un’espressione preoccupata. “Sei ferito?”

Germania scosse il capo con un’espressione indifferente. “Non preoccupatevi di questo.” Si passò la mano pulita fra i capelli e li scostò dalla fronte sudata.

Anche Bulgaria si fermò, poggiò le mani sulle ginocchia per riprendere fiato dopo la corsa, e fece scivolare lo sguardo lungo il braccio di Germania. “Oh, è riuscito a colpirti?” Romania gli diede una spallata.

Germania ignorò entrambi. Non c’era tempo per le idiozie. “Ora ascoltatemi,” abbassò la pistola, camminò fra le pareti del vicolo, e imboccò la direzione che dava all’esterno, verso il porto, “dobbiamo evitare che Grecia mantenga il combattimento fermo nei vicoli.”

Romania annuì, gli camminò dietro accelerando il passo. “È quello che ho detto anch’io.” Indicò le pareti umide su cui si proiettavano le loro ombre. “È pericoloso sia per orientarsi che per l’uso delle armi. I proiettili rimbalzano dappertutto.”

“Ma come facciamo?” ribatté Bulgaria. “La città è fatta tutta così.”

Germania scosse il capo. “No, non tutta.” Lo sguardo gli scivolò verso l’alto, catturato dalla luce del cielo incastonato fra i tetti. “Un trucco per raggirare il problema c’è.” Li indicò con un’alzata di mento. “Dobbiamo spingere Grecia a salire sui tetti.”

Romania e Bulgaria sgranarono gli occhi. “Eeh?” 

Bulgaria guardò Germania come se gli avesse appena ordinato di compiere il giro di tutta Salonicco facendo le capriole. “E come pretendi di riuscire a fare una cosa del genere?”

“Semplice.” Germania puntò l’indice su entrambi, li guardò severamente. “Voi due rimarrete a terra, mentre io inseguirò Grecia sui tetti e...”

“Fermo.” Romania lo bloccò portando le mani avanti, spostò gli occhi sul suo braccio macchiato di sangue, e aggrottò un sopracciglio. Gli indicò la ferita. “Non puoi arrampicarti con un braccio ferito, è impossibile che tu riesca a muoverti decentemente.”

Una lampadina si accese nella testa di Bulgaria, gli occhi brillarono come torce e la sua bocca parlò ancor prima che il cervello avesse finito di formulare il pensiero. “A-allora, vado...” Sollevò la mano davanti alla spalla. “Vado io sui tetti!” La mia occasione. La mia occasione! “Così avrò più possibilità di mettere le mani su Grecia e...”

“No.” Germania scosse la testa. “Tu devi rimanere a terra perché conosci di più la morfologia delle strade. Romania.” Si girò verso di lui e gli lanciò un’occhiata d’intesa. “Te la senti?”

Romania irrigidì in un attenti inconscio, fece la figura del bravo soldatino obbediente. “Sì.”

Bulgaria strinse i pugni, lo guardò storto, e gli spremette la punta del piede con il tacco dello stivale. Bastardo. Dovevi assecondarmi.

Romania ricambiò l’occhiataccia, lo spinse con una spallata, e gli schiacciò a sua volta il piede. Bulgaria lo colpì con un altro spintone, Romania ringhiò e gli diede due schiaffi sui dorsi delle mani, Bulgaria rispose dandogli un calcio sullo stinco.

Germania si era già voltato, non si accorse del loro bisticcio. “Bene. Io e Bulgaria allora rimarremo a terra.”

Romania e Bulgaria si congelarono, Romania con una mano stretta a massaggiare lo stinco e l’altra artigliata alla giacca di Bulgaria, Bulgaria con un pugno alzato sopra la testa e l’altra mano fra i capelli di Romania. Gli aveva appena tirato le ciocche come un bambino della scuola materna. Gli sguardi di entrambi puntarono la schiena di Germania che gettava ombra su di loro, e Germania continuò a parlare allontanandosi da loro due.

“Io rimarrò su questo tratto di strada, lungo il mare, mentre Bulgaria si occuperà di stanare Grecia, di spingerlo sui tetti dove Romania sarà già appostato ad aspettarlo.” Rivolse di nuovo un indice alle pareti. “Poi Romania lo spingerà a scendere dall’altro lato, dove ci sarò io a tendergli la trappola finale e a catturarlo. Tutto chiaro?”

Bulgaria e Romania si staccarono l’uno dall’altro e mimarono un altro attenti, quello di Bulgaria più moscio rispetto all’altro. “Sissignore,” risposero in coro.

Germania annuì. Li guardò con aria soddisfatta. “Ora muovetevi. Scattate!” Ed entrambi scattarono proprio come lepri alla vista del cacciatore.

Germania distolse gli occhi dai loro passi, guardò dietro di sé, dove la presenza di Grecia lo aveva abbandonato, e un fremito di rabbia ed eccitazione gli fece tremare la mano che impugnava la pistola. Corri quanto vuoi, Grecia, e goditi... Sollevò l’arma accanto alla guancia, una scintilla d’argento si riflesse nei suoi occhi azzurri. I tuoi ultimi passi di libertà.

 

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Le due bombe a mano agganciate alla cinta di Grecia sbattevano fra loro durante la corsa, e il peso delle armi si faceva più grave da trasportare a ogni falcata che lui pestava all’interno del vicolo. La mano che reggeva la pistola cominciava a bruciare, le dita stavano perdendo sensibilità, si erano colorate di grigio sotto le unghie e all’altezza delle nocche. Grecia si passò il braccio che ancora tremava sulla fronte sudata, girò la mano che stringeva la pistola e usò le nocche per toccarsi la guancia madida di sudore gelato. Fiato rapido e bruciante soffiò fra le labbra increspate, gli pizzicò la lingua.

Grecia buttò un’ultima occhiata alle sue spalle. L’ombra di Germania era sparita, la sua presenza era rimasta intrappolata nell’intreccio di stradine incuneate fra i palazzi, ma il fitto senso di ansia elettrica era ancora ingabbiato attorno a lui dandogli l’impressione di essere intrappolato in una nuvola di temporale. Elettricità statica gli corse lungo la pelle, un senso di oppressione gli schiacciò il petto, viscido panico ghiacciato cominciò a espandersi all’altezza del ventre.

Grecia aggrottò la fronte, rivoli di sudore gocciolarono dai capelli spettinati dalla corsa, e tornò a puntare lo sguardo davanti a sé. Hanno bloccato tutte le uscite della città. Svoltò una curva, tornò ad accelerare, i piedi si appesantirono per la fatica e trascinarono le punte per terra. E ora anche il porto sta per essere occupato, non mi hanno lasciato nemmeno una via di fuga libera. Strinse i denti, le unghie stridettero sul metallo della pistola. Come faccio? Per di più... Un capogiro lo fece rallentare. Una nebbia nera si spanse davanti alla sua vista, i muscoli di braccia e gambe fremettero di fatica, il fiato si accorciò, polmoni e gola bruciarono, le piante dei piedi cominciarono a fargli male come se stesse correndo su un tappeto di chiodi. Grecia boccheggiò, tornò ad asciugarsi la fronte, e si tolse i capelli sudati dagli occhi. Temo che non riuscirò a resistere a lungo in queste condizioni. Sono troppo indebolito.

Un’ombra saltò fuori dall’angolo del vicolo, tese le braccia contro Grecia, le volate delle due pistole che reggeva fra le mani scintillarono d’argento, gli indici si infilarono negli anelli dei grilletti e si flessero. “Preso!” Bulgaria ghignò, gli occhi brillarono di una luce selvaggia.

Grecia emise un lieve sbuffo di noia senza smettere di correre. Sollevò anche lui la pistola, mirò alla spalla di Bulgaria, e sparò due colpi di seguito.

Bulgaria si abbassò di colpo. Il fischio dei proiettili gli schizzò di striscio accanto all’orecchio, bruciacchiò una ciocca di capelli, e i colpi si schiantarono su una parete laterale scalfendo due sfregi bianchi sul cemento.

Grecia accelerò, spiccò un balzo, allungò il piede sopra la spalla china di Bulgaria, e lo scavalcò saltandoci sopra.

Bulgaria finì schiacciato dal peso che gli aveva premuto sulla schiena e precipitò sul gomito, la faccia sbatté sull’avambraccio e il suo fiato finì soffocato in un gemito. “Gha!”

Grecia atterrò aprendo la mano libera al suolo, si diede un’altra spinta facendo schioccare le giunture delle ginocchia indolenzite, e scattò di nuovo in una corsa che puntava alla fine del vicolo di cui non vedeva il fondo.

Bulgaria si sollevò sul gomito piegato a terra, ruotò il torso, e allungò il braccio che reggeva una delle pistole dietro di sé, contro la schiena di Grecia che si stava allontanando. Digrignò i denti, e gli occhi si infiammarono di frustrazione. “Stupido gattaccio.” Tornò a curvare l’indice sul grilletto, senza premere, e mirò più in alto, all’altezza della nuca.

Grecia accostò la mano libera alla cinta. Raggiunse una delle due bombe a mano, la sfilò, schiacciò le dita sulla leva di sicurezza, portò l’ago del detonatore fra le labbra e lo chiuse fra i denti. Diede uno strattone con i molari, sputò l’ago, si girò e lanciò la bomba a mano verso l’alto, contro l’impalcatura orizzontale di travi e teli costruita fra i muri dei due palazzi. La sfondò uno dei teli intrecciati, colpì una delle travi, e brillò.

Un tuono di luce e fuoco esplose fra le due pareti, si dilatò in un globo bitorzoluto che divorò l’impalcatura in un ruggito, illuminò il vicolo come un piccolo sole, e una vampata di fumo si innalzò sopra i tetti, fino a superare i comignoli.

Lo scheletro dell’impalcatura andò in frantumi e crollò, le assi si schiantarono gettando una pioggia di scintille bianche, si spezzarono come ramoscelli carbonizzati, e i teli sovrapposti, mangiucchiati da fiammelle che erano nate agli angoli del tessuto, si accasciarono sopra la barriera di legno appena esplosa. Un’altra trave si inclinò, cadde e si spezzò in due. I frammenti precipitarono contro la barriera e schizzarono un’altra vampata di scintille che finì addosso a Bulgaria. Bulgaria incrociò le braccia dietro il collo e rotolò lontano, si coprì la bocca e diede due forti colpi di tosse.

Grecia si era allontanato correndo. Le assi distrutte scricchiolavano alle sue spalle in crepitii sempre più soffusi e lontani. Compì ancora un paio di falcate di corsa, e frenò di colpo davanti a un muro di mattoni che si era piazzato a bloccargli la strada. Gettò il capo all’indietro, buttò lo sguardo contro il cielo, scivolò di un passo lontano dal muro, e riprese fiato a grandi boccate. Casse di legno uguali a quelle che aveva visto ammassate nel suo nascondiglio erano impilate fino a metà della parete, gomitoli di reti da pesca e di funi le avvolgevano come vecchie ragnatele impolverate.

Grecia compì un altro passo all’indietro e guardò a destra e a sinistra. Ancora muri. Un vicolo cieco? Ruotò la coda dell’occhio alle sue spalle, verso lo scricchiolio emanato delle assi crollate in quella barriera che lo separava da Bulgaria. Strinse le dita attorno alla pistola che aveva ancora in mano, soppresse un brivido di odio nei suoi confronti. Mi ha ingannato, mi ha spinto a intrappolarmi con le mie stesse mani. Rinfilò la pistola nel fodero, si avvicinò alle casse, appoggiò le mani su quella che aveva di fronte, e fece pressione con le braccia. Il legno umido scricchiolò, si flesse facendo emergere due teste di chiodi, ma non si ruppe. Grecia tornò a guardare verso il tetto e tese la mano davanti alla fronte. Devo salire per forza. Piegò la gamba su una delle casse che componevano il primo scalino e si diede una spinta con le braccia per salire. Da sopra i tetti sarò più visibile, ma non ho scelta. Allungò un braccio verso l’alto, si appese a un’altra cassa grattando il legno ammorbidito con le unghie, e si tirò in piedi. Proseguì la scalata.

 

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Bulgaria premette la mano contro la bocca, strizzò gli occhi e diede due forti colpi di tosse che fecero vibrare il petto schiacciato al pavimento. “Coff, coff!” Si scollò la mano dalle labbra e la sventolò fra i riccioli di fumo che si erano gonfiati attorno all’impalcatura che era esplosa e precipitata al suolo fra lui e Grecia. Reclinò le spalle all’indietro, restrinse le palpebre per resistere alla luce del sole, e spostò lo sguardo sui profili dei tetti che frastagliavano l’azzurro del cielo. L’ombra di Grecia scivolò sopra l’edificio, svanì dalla sua vista, ma permase il suono dei suoi passi che camminavano fra le tegole.

Bulgaria ghignò di nuovo, una scintilla di furbizia gli attraversò gli occhi. Ha abboccato. L’ammasso di travi e di teli carbonizzati scricchiolò, una delle assi si inclinò sbattendo la punta a terra, e richiamò la sua attenzione. Bulgaria aggrottò la fronte, il ghigno scomparve e lasciò spazio a un broncio scocciato. Però ora io sono bloccato e non posso sorvegliarlo da sotto. Devo per forza fare il giro lungo per raggiungere l’altro lato del palazzo. Si rialzò da terra, si spolverò la giacca lisciandosi le spalline, e si avvicinò alla barriera con cui aveva imprigionato Grecia. Sollevò un piede e scaricò un calcetto su una delle assi. Merda. L’asse si spostò senza spezzarsi. Ora è chiaro che sarà Germania a dargli il colpo di grazia e a metterlo in catene. Bulgaria restrinse le palpebre e gli occhi si annacquarono, gli salì un aspro groppo di pianto in gola che dovette ricacciare giù con un singhiozzo. Addio Salonicco. Si strofinò la faccia per ripulirsi dalla polvere dell’esplosione, e si girò. Riprese a correre. Ma è inutile che adesso mi pianga addosso. Raggiunse l’uscita della stradina, il sole illuminò la sua via e la scia di luce lo condusse verso le acque scintillanti che ondeggiavano racchiuse dal porto della città. La battaglia non è ancora finita.

 

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La mano di Grecia emerse da dietro il bordo del tetto, spalancò le dita e si tese verso l’alto, immergendosi nella luce del sole che bagnava le tegole. Il braccio calò. Le dita si aggrapparono alla terracotta, le unghie graffiarono e fecero pressione, fecero tremare le falangi e gonfiarono le vene per lo sforzo della presa. Si elevò anche l’altra mano, si appese alle sporgenze del tetto che spioveva sul vicolo da cui Grecia era arrampicato, e il braccio avanzò appendendosi all’incavo della grondaia arrugginita. Grecia raccolse le energie sulle spalle, trattenne il fiato, si piegò sulle ginocchia tenendo i piedi schiacciati alla parete sopra l’ultima cassa di legno, e si diede una forte spinta. Una fitta di dolore gli frustò la schiena, all’altezza degli spari cicatrizzati, e gli diede l’impressione di avere ancora i proiettili conficcati nelle ossa.

Grecia strinse i denti, si sentì sbiancare, divenne gelido in faccia, le braccia tremarono e il dolore gli risucchiò le energie dai muscoli delle gambe. Atterrò con il viso fra le tegole, i capelli schiacciati sotto la guancia, il fiato corto ad assorbire l’odore di ruggine, di polvere e di licheni, e la pancia premuta contro la grondaia. Qualcosa trillò all’altezza della sua cinta. Pistola e bomba a mano si erano scontrate. Grecia sollevò il mento, fece avanzare un ginocchio strusciando la gamba sul tetto spiovente dell’edificio, e raccolse i piedi sottraendoli al vuoto che cadeva nel vicolo.

Il vento soffiò una violenta spazzata che rimestò sabbia e foglioline incastrate fra le tegole, l’aria gli travolse il viso sudato, scompigliò i capelli davanti agli occhi, e gli fece sollevare lo sguardo verso la luce del sole che si proiettava alta dal cielo, come il globo di un faro.

Grecia rivolse gli occhi al sole, e la distesa del porto si spalancò davanti al suo viso, gli riempì lo sguardo facendo brillare di rosso le guance sudate. I raggi solari erano spennellate di acquerello arancio che scintillavano fra le increspature delle onde schiumanti che si squagliavano contro la banchina e contro gli scafi delle imbarcazioni. Quel profondo e intenso blu raccolto nel bacino d’acqua gli colmò gli occhi, si mescolò al verde delle sue iridi, riflesse il movimento del mare che cresceva e che si ritirava spargendo il suo profumo di sale e sole.

Un’altra folata di vento fischiò fra i tetti, gonfiò una nuvoletta di polvere e fece rotolare minuscoli sassolini fra le tegole, asciugò il sudore dal viso di Grecia e gli agitò i capelli. Grecia dovette tenere la mano alzata per allontanarli dagli occhi.

Quell’aria soffiò anche sul porto. Gli alberi dei pescherecci oscillarono, sollevarono i trilli delle campane, i loro riflessi si incresparono assieme a quelli delle imbarcazioni più piccole. Navi dell’esercito tedesco cominciavano ad avvicinarsi al porto: erano piccole sagome scure disposte sulla linea d’orizzonte, e il sole le faceva scintillare di grigio.

Una stretta di malinconia schiacciò il cuore di Grecia, si riflesse nei suoi occhi che assunsero una luce più liquida, triste e buia.

Il mare.

Fece scivolare un ginocchio sopra le tegole, schiacciò la suola dello stivale sul tetto, irrigidì le mani per tenersi saldo e non perdere l’equilibrio, e raddrizzò le gambe. Sollevò le spalle, una folata di vento lo fece oscillare, ma Grecia rimase fermo, i muscoli rigidi. Aspettò che l’aria si ritirasse prima di mollare la presa e raddrizzare la schiena. La sua ombra si allungò dietro di lui, attraversò il tetto, si mescolò al buio che stagnava nel vicolo da cui si era arrampicato. Grecia mosse un primo passo, le tegole scricchiolarono, la gamba tremò, ma il piede rimase ben saldo e aderente alla terracotta. Ne allungò un altro, e un altro ancora, avvicinandosi all’estremità del tetto che spioveva verso la banchina, verso la superficie scura del mare che carezzava il cemento e i piloni a cui erano attraccate le imbarcazioni.

Il sole gli inondò il viso, gli donò un colorito più vivo e sano, cancellò il pallore dato da fame e stanchezza. Grecia chiuse gli occhi, inspirò a fondo, e l’aria scese fino allo stomaco. Il profumo aspro del sale gli diede una scossa ai polmoni, un bruciore di vita che gli sciacquò via i dolori alla schiena. Gli diede l’impressione di rinascere nel ventre della sua città, racchiuso in quella placenta di mare e sole.

Da quanto tempo non mi fermavo a guardarlo così bene.

Passi estranei si mossero alle sue spalle, calpestarono le tegole sollevando il tintinnio della terracotta che scricchiolava, e si avvicinarono a lui accompagnati da una voce familiare. “Non muoverti.”

Grecia si sentì punto da quella voce come se gli avessero infilato un ago dietro la nuca. Voltò lo sguardo. Il sole gli passò di striscio sopra la spalla, andò a battere contro le due pistole che Romania gli stava puntando contro, ed emanò due scintille argentate.

Romania tese di più le braccia, il vento scivolò anche su di lui e gli mosse le punte dei capelli dietro le orecchie, sulle guance e davanti alla fronte. I suoi occhi ambrati raccolsero tutta la luce del sole che li rese di un giallo acceso, felino, increspato dalle sopracciglia aggrottate. Sgranchì le dita, gli indici si sollevarono e tornarono a posarsi sui grilletti. “Non muoverti,” ripeté. “Sei circondato.”

Un’espressione distesa e serena, sbavata di noia, rimase a mascherare il viso di Grecia carezzato dal vento e dal sole. Grecia sollevò un sopracciglio. Circondato? Ruotò la coda dell’occhio verso la banchina, l’aria trascinò con sé un’energia elettrica che gli chiuse il ventre in una morsa di tensione e si arrampicò lungo la spina dorsale mordicchiandogli le ossa. Quel brivido di disagio gli rimase impresso come un’impronta di fango. La presenza qua sotto è sicuramente di Germania. E io non posso scappare, né scendere dal tetto, né compiere alcun movimento. Ecco perché hanno fatto in modo che io salissi sui tetti. Sospirò sconfortato, chinò la fronte e socchiuse gli occhi. Lo sguardo fermo fra i piedi saldi fra le tegole. Mi hanno incastrato.

Romania compì un altro passo lento e oscillante, le sue ginocchia tremarono. “Decidi tu cosa vuoi fare: se arrenderti con le buone o rischiare di morire per mano di Germania come è successo al forte della Linea Metaxas.” Ruotò leggermente i polsi per bilanciare il peso delle pistole. Cominciavano a bruciargli le mani, a fargli male le ossa delle spalle e i muscoli delle braccia. Due rivoli di sudore gocciolarono dalla fronte aggrottata, gli rigarono la guancia rossa di sole e fatica. “Ormai è inutile che provi a scappare. Ti abbiamo in pugno.”

Grecia rimase in silenzio. Sgranchì le dita sul vuoto, scivolò con un piede all’indietro, e si voltò di profilo. Sollevò la fronte e rivolse lo sguardo al mare, alla corona di raggi di sole che si srotolava fra le onde e che brillava sulle imbarcazioni. Sospirò, rimase in silenzio, come se si fosse dimenticato di Romania.

Romania abbassò la pistola destra, inarcò un sopracciglio, lo squadrò con espressione scettica e cauta. “Che stai facendo?”

Grecia non mutò espressione. Gli occhi calmi e pacifici. “Guardo il mare.” Si strinse nelle spalle, e la voce si macchiò di un tono basso e malinconico, si riempì di un’amarezza che gli fece male al cuore. “Questa potrebbe essere l’ultima volta che lo vedo, temo.”

Romania esitò, abbassò entrambe le pistole, e una punta di compassione gli gonfiò il cuore. Si affrettò a scuotere il capo e ad avanzare di un altro passo. “Senti...” La tegola schioccò sotto il suo stivale, una crepa saettò sulla superficie di terracotta e la spaccò in due. Romania traballò, allargò le braccia per tenersi in equilibrio, una scossa di terrore gli chiuse la bocca dello stomaco e lo rese bianco in viso. Deglutì e ingoiò la visione del suo corpo schiantato a terra, con le ossa rotte, e una pozza di sangue ad allargarsi sotto la testa che aveva battuto al suolo. Compì un altro passo più lento, tenne le spalle leggermente abbassate. Le ginocchia tremavano ancora ma il suo sguardo tornò scuro e rigido. Rassicurò Grecia. “Non morirai,” gli disse. “Non è questo che vuole Germania.” Altro passo. La tegola traballò facendogli trattenere il fiato per la paura, ma non si ruppe. Romania appoggiò il piede su uno spazio più saldo e si fermò, investito da un’altra zaffata d’aria salmastra. “Se solo ti lasciassi catturare senza opporre resistenza, allora...”

“Farmi catturare?” intervenne Grecia. Si strinse nelle spalle, socchiuse le palpebre e negli occhi rimase l’alone di noia che gli appannava lo sguardo e che gli faceva trascinare la voce. “Che vita potrebbe esserci per me, o per il mio popolo che ha combattuto tutto l’inverno e che comunque si ritroverà sotto le catene dell’Asse?” Spostò all’indietro la punta del piede, dove la pendenza si faceva più ripida e la presenza di Germania si intensificava. Il suo braccio scivolò sul fianco, le punte dei polpastrelli sfiorarono il calcio della pistola e il rigonfiamento della bomba a mano.

Romania scosse il capo, dovette alzare la voce per farsi sentire oltre il fischio del vento. “Non sarà una sconfitta disonorevole. Anche Germania riconosce il valore con il quale ti sei battuto.” Compì un altro passo, le tegole non tremarono ma il tetto cominciò a inclinarsi nella pendenza opposta, la suola sdrucciolò e Romania fece scattare il piede all’indietro per non scivolare. Riprese fiato, sollevò lo sguardo incontro al viso di Grecia voltato di profilo. “Grecia.” Aspettò che lo guardasse anche lui negli occhi. Scosse il capo, parlò con voce sincera ma dura. “Nemmeno io ci tengo a ucciderti.”

Grecia annuì. “Lo so.” Sollevò gli angoli della bocca in un piccolissimo sorriso disteso e sereno, gli occhi socchiusi e affaticati si fecero più luminosi. La mano superò il calcio della pistola infoderata e raggiunse la bomba a mano. Grecia la estrasse dalla cinta, sollevò il braccio esponendo la bomba a un raggio di sole che scintillò sulla leva di sicurezza schiacciata dalle sue dita. “E nemmeno io ci tengo a darti questa soddisfazione.”

Romania sussultò, un brivido di paura gli scosse la voce. “E-ehi, cosa...”

Grecia sollevò anche l’altra mano, strinse indice e pollice sull’ago dell’innesco, e alzò la bomba davanti al petto. Aveva gli occhi sereni, lo sguardo di chi ce l’ha messa tutta dall’inizio alla fine, i raggi del sole a incorniciargli la sagoma dritta davanti all’orizzonte del porto, e una dolce brezza marina a scuotergli i capelli e i vestiti. “Abbiate cura dei miei gatti.” Flesse le nocche, fece pressione con le dita, un minuscolo cigolio squittì all’altezza del detonatore.

Romania sgranò gli occhi, il suo sguardo si riempì di un fitto panico che gli rese le palpebre grigie e infossate. Mollò una pistola che precipitò ai suoi piedi – crack! – e allungò il braccio verso Grecia, immaginando di afferrare la bomba a mano con le dita. “No! Fermo!” Allungò due falcate, la pendenza del tetto spiovente lo fece accelerare, e Romania pestò il terzo passo sulla punta del piede. La gamba si storse, le spalle si sbilanciarono in avanti, il peso lo trascinò verso il basso aprendogli un vuoto alla pancia, e l’immagine della banchina che dava sul mare si allargò nei suoi occhi sgranati. Stava cadendo.

Grecia sorrise. Un sorriso fine e nascosto dalla penombra. Ci è cascato. Rinfilò la bomba a mano nella tasca della cinta, chinò le spalle piegandosi sulle ginocchia, schivò il braccio di Romania che gli passò lungo il fianco, e allungò due passi di corsa. Scalò la pendenza del tetto sentendo tremare i muscoli per la fatica. Girò la guancia e lanciò a Romania un ultimo sguardo con la coda dell’occhio. Il suo corpo era una sagoma nera che stava cadendo davanti al riflesso del sole. Davvero credevi che potessi fare una cosa così stupida? Che ingenuo...

Due spari esplosero dal basso. Il corpo cadente di Romania torse le spalle all’indietro, gambe e braccia si indurirono, un lampo di dolore si specchiò sul suo viso, lo fece gemere a occhi sgranati. “Ah!” Due rose di sangue sbocciarono sulla sua pancia e sul suo fianco, sopra l’anca. La pressione dei colpi che lo avevano trafitto lo sbilanciò e lo fece precipitare verso sinistra. Romania mollò anche l’altra pistola, si prese la pancia fra le mani che subito si macchiarono di rosso e arricciò le spalle in avanti. Le ginocchia cedettero. Il suo corpo crollò fra le tegole, si accasciò battendo le spalle e la faccia, e la pendenza lo fece rotolare verso l’orlo del tetto. L’ultima cosa che Grecia vide di lui fu la mano che si torse piantando le unghie sul metallo della grondaia, che scavò cinque strisce bianche sulla ruggine, e che scomparve risucchiata dal vuoto assieme alla sua intera sagoma.

Grecia provò una sincera fitta di malessere e dispiacere attraverso il cuore. Oh, no. Rivide davanti agli occhi il corpo di Romania colpito dai due proiettili che si accasciava e che crollava giù dal tetto. Germania ha colpito lui.

Un sonoro splash! cancellò l’eco degli spari. Schizzi di schiuma bianca si innalzarono oltre l’orlo del tetto, risalirono il cielo scintillando come perle di vetro davanti al sole, e il vento li trascinò via. Il suono del tuffo arrivò vibrando alle orecchie di Grecia. Rievocò lo stesso senso di colpa che aveva provato quando si era trovato davanti alle fauci del Kalamas che avevano inghiottito Romano davanti ai suoi occhi e davanti al suo braccio teso per afferrarlo.

Grecia soffiò uno sbuffo. Ma perché cadete tutti in acqua? Compì un passo in avanti, si sporse, ma tornò subito indietro, colto da un brivido. No, non posso sporgermi. Germania è ancora lì. Puntò lo sguardo verso le superfici degli altri tetti. Rivolse un’ultima occhiata a terra, serrò i pugni. Scusa, Romania. Si girò e compì un primo salto di corsa. Ti ho ingannato anche se non ce l’ho con te, ed è colpa mia se Germania ti ha sparato. Sollevò la fronte, tornò a inspirare il profumo della sua città, l’odore di vita e libertà, e i muscoli tornarono leggeri come un paio di ali. Ma io voglio vivere. Saltò da un tetto all’altro, come un gatto, e continuò la sua corsa.

 

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Germania sollevò lo sguardo, portò il braccio davanti alla fronte per ripararsi dai raggi solari, e puntò il tetto dell’edificio che si affacciava sul vicolo dove si era infilato Bulgaria e dove aveva sentito esplodere la bomba a mano. Si lasciò avvolgere dal vento marino che soffiava alle sue spalle, scuotendo lo scroscio morbido delle onde che si infrangevano sulla banchina del porto. Restrinse gli occhi, catturato da un’ombra, e una sagoma risalì il tetto stando appesa al bordo della grondaia. Grecia rimase basso, chino sui gomiti, il viso ombreggiato dai capelli, il vento a scuoterlo e a farlo fremere, ma era salito.

Germania sobbalzò, la bocca cadde socchiusa, e un sincero sentimento di ammirazione gli passò attraverso il petto, scaldandoglielo. Ce l’hanno fatta.

Grecia premette i piedi sulle tegole, si diede la spinta con le braccia, e si alzò sul tetto. Rimase a ginocchia lievemente flesse per non perdere l’equilibrio e avanzò lungo la pendenza, andando incontro ai raggi del sole che battevano sulla superficie del mare e che scivolavano fra gli edifici componendo lame di luce bianca. Una voce lo fece girare e rimanere immobile. La sagoma di Romania, più buia e indefinita, comparsa da dietro la cresta del tetto, avanzò a sua volta di un paio di passi, bloccando la discesa dell’edificio. Grecia era in trappola.

Germania si avvicinò al palazzo bianco altro tre piani, chinò le spalle e strinse entrambe le mani sull’unica pistola che teneva in pugno, il suo viso tornò scuro ma gli occhi brillavano nell’ombra, colmi di ingordigia come quelli di un predatore acquattato in mezzo ai cespugli. Bravi. Non pensavo che Grecia sarebbe cascato in una trappola del genere. E invece... Si nascose sotto l’ombra del tetto, al riparo dagli occhi di Grecia, e sollevò la canna della pistola verso la sagoma che lui riusciva ancora a vedere. Una mano immobile sotto il calcio, a tenere l’arma ferma, e l’altra ben salda attorno al corpo della semiautomatica, l’indice già infilato nell’anello del grilletto. Mirò alla sua testa. Se gli sparassi da qui sarebbe troppo rischioso? si domandò. Rischierebbe di cadere in mare e di farsi più male del dovuto.

Germania chiuse gli occhi, si isolò nel buio, nel profumo di sale che riempiva le strade della città, e visualizzò le sue dita che schiacciavano il grilletto, la pistola che espelleva il bossolo, il proiettile che schizzava fuori dalla canna, che trafiggeva Grecia facendolo torcere dal dolore, e il suo corpo insanguinato che precipitava dal tetto, crollando nell’acqua del porto e finendo inghiottito dalle onde.

Strinse le dita sulla pistola, ascoltò il bruciore di rabbia che prudeva fra i palmi. Si abbandonò al desiderio di sentire la consistenza del sangue di Grecia colargli dalle dita, di percepire il calore spegnersi dal suo corpo, di udire il suo ultimo respiro soffiare dalle labbra e strappargli l’ultima luce di vita dagli occhi che si sarebbero chiusi lentamente.

Germania sgranchì le dita, le falangi fremettero di desiderio.

E io lo voglio vivo.

Riaprì gli occhi, volse di nuovo lo sguardo al tetto illuminato dai raggi solari, e un nodo di tensione si raggrumò nel petto.

Grecia si sfilò qualcosa dalla cinta, da sotto la giacca, e una scintilla metallica brillò fra le sue dita contratte.

Germania aguzzò la vista increspando le punte delle sopracciglia, si avvicinò di un passo abbassando la volata della pistola, seguì il movimento trascinato delle labbra di Grecia, ma non riuscì a coglierne le parole. Una ruga di confusione gli attraversò lo sguardo. Ma cosa...

Grecia sollevò leggermente le prime falangi delle dita, rivelò la leva della bomba a mano luccicante, e portò pollice e indice della mano opposta a stringersi sullo spillo del detonatore.

Germania spalancò gli occhi, si sentì ghiacciare il sangue, la luce del sole scomparve, e il cielo divenne buio di colpo. Una bomba a mano! Un lampo di realizzazione gli brillò davanti agli occhi come se Grecia avesse già fatto scoppiare la bomba. Vuole... farsi esplodere? Germania scosse il capo per riprendersi e tornò a impennare la pistola. Aprì la mano sotto il calcio per tenerla ferma, chiuse un occhio per prendere la mira, e infilò l’indice nel grilletto. Le mani bruciarono. Non glielo devo permettere! Puntò la volata dell’arma contro il torso di Grecia. Schiacciò due volte il grilletto, i due proiettili esplosero, i bossoli volarono via trillando contro il pavimento, e la pistola sobbalzò per il rinculo.

Grecia abbassò la bomba a mano, scivolò con le spalle verso il basso, risalì la pendenza del tetto allungando tre falcate di seguito, e Romania gli sfrecciò di fianco invertendo le loro posizioni. Il braccio teso verso quello di Grecia e una maschera di panico a ingrigirgli il volto.

I proiettili lo colpirono. Romania torse le spalle all’indietro ingoiando un ansimo, e un primo fiore di sangue sbocciato all’altezza della pancia gettò all’aria petali cremisi che luccicarono sotto un raggio di sole. Il secondo proiettile gli si conficcò sul fianco, e un’altra chiazza rossa gli macchiò la giacca dell’uniforme. Romania sovrappose le mani alla ferita sul ventre, strizzò gli occhi in un’espressione di dolore che lo fece sbiancare, e si arricciò in avanti. Poggiò male il piede, la caviglia si torse, il ginocchio si flesse di lato, e il suo corpo precipitò sul tetto battendo le spalle e la testa.

Germania calò la pistola. La sagoma accasciata di Romania si riflesse nei suoi occhi sgranati e lucidi di spavento. No!

Romania rotolò fino all’orlo del tetto reggendosi la pancia, cadde oltre, si appese con le mani alle tegole scavando scie di graffi bianchi sulla ruggine della grondaia, ma le mani sudate e bagnate di sangue si staccarono. In controluce, la sua sagoma nera volò dall’edificio, sbatté col fianco e con la testa sulla banchina di cemento, sollevando un tonfo sordo, rotolò un’ultima volta, e scivolò in acqua. Splash! La bocca di onde blu e grigie si ingrossò, lo inghiottì fra le sue fauci, e tornò a ritirarsi lasciando una sbavatura di schiuma e alghe sul cemento della banchina. Non riemerse.

Germania schiacciò la pistola fra le mani, digrignò i denti, la rabbia si mescolò alla colpevolezza e gli arroventò il sangue, batté sulle tempie, e gli fece tremare le braccia e le spalle. Stupido! Perché ti sei messo di mezzo?

L’ombra di Grecia saltò via dal tetto, sfrecciò verso gli altri edifici. Il rumore dei suoi passi rimbalzò fra le tegole scheggiate e si allontanò, sempre più fioco e coperto dallo scrosciare del mare e dal fischio del vento.

Un’altra scossa di rabbia schioccò attraverso il petto di Germania, gli rese lo sguardo nero. Scappa? Tenne la pistola bassa e gli corse dietro, seguendo l’energia della sua presenza che si stava allontanando. L’ombra proiettata dalla fila di palazzi lo proteggeva. Dov’è Bulgaria, maledizione? Non possiamo lasciarlo fuggire!

Qualcosa gorgogliò alle sue spalle. L’acqua del porto scrosciò e rigurgitò un rumore basso, di bolle che si gonfiano e che esplodono, e di spuma che scricchiola sciogliendosi a contatto con la superficie di cemento.

Germania pestò un altro passo di corsa e il piede si congelò a terra, come risucchiato dal suolo. Una zaffata di vento pungente gli sbatté addosso, una manata d’aria contro la faccia e il petto che serbava la stessa prepotenza di una frustata. Germania irrigidì, le mani si gonfiarono attorno alla pistola, le vene pulsarono, e un tremore gli attraversò il corpo, discese la schiena e gli scosse le gambe piantate a terra che non riusciva più a muovere.

Si girò.

Una chiazza rossa si allargò sulla superficie dell’acqua, toccò la banchina e lo scafo di uno dei pescherecci. La schiuma tinta di sangue oscillò seguendo il ritmo delle onde, avanti e indietro, e un grappolo di bolle si espanse sul pelo del mare. Alcune scoppiarono.

Germania trattenne il fiato. Il cuore si appesantì, divenne di piombo, ma lo stesso bruciore di colpevolezza che aveva provato quando aveva visto i proiettili trafiggere il corpo di Romania tornò a prudere fra le mani e sotto i piedi.

Forza, emergi.

Un’onda insanguinata si ritirò, il vento smise di soffiare e la superficie del mare sporca di rosso si appiattì. Un ultimo grappolo di bolle rimase a galleggiare sulla superficie e non emersero altri gorgoglii.

Germania schiacciò i pugni, le braccia tremarono, la fronte si increspò in una ruga di conflitto, gli occhi si strinsero e il riflesso scuro del mare tremolò fra le iridi.

Coraggio, Romania, emergi da solo. Io non posso fermarmi a salvarti!

Spostò una gamba in avanti, il ginocchio tremò, il muscolo si indurì, il piede pesò come se avesse calzato uno stivale di ferro, e Germania tornò a farlo scivolare indietro.

Il grappolo di bolle che galleggiava sulla chiazza di sangue finì di esplodere. L’acqua tornò piatta come un olio scuro e denso.

Davanti allo sguardo di Germania si materializzò il ricordo di un altro mare tinto di rosso. Rosso come gli incendi che stavano divorando il porto di Taranto, come le fiamme che ruggivano arrampicandosi attraverso il cielo notturno, fino a toccare la luna piena e ad avvolgerla in un manto di fumo spumoso. Un altro corpo che crollava fra le onde e che veniva estratto dal mare del porto. La pozza d’acqua che si era allargata sulla banchina, attorno alle ginocchia e ai gomiti di Spagna chino, zuppo, e abbagliato di traverso dalle luci ondeggianti degli incendi. Germania si ritrovò di nuovo di fronte al suo viso bagnato di acqua e lacrime, ai suoi occhi gonfi di pianto e di rabbia, a quell’espressione disperata che luccicava di arancio e di rosso, ma infossata di nero attorno alle palpebre. “Tu sei un suo alleato”, gridava il ricordo della sua voce accusatoria. “Siete alleati e tu dovevi salvarlo!”

La voce proveniente dalla sua testa tuonò più violenta e austera, superò quella di Spagna, e gli trasmise una scossa di paura. Non gettarti, non ha senso! La pedina è stata mangiata e non può più rientrare nella scacchiera. Non fare l’idiota e continua a combattere invece che preoccuparti di recuperare un pedone che ormai non può più essere utilizzato.

Germania tornò di nuovo indietro, risucchiato da un ricordo in luce, all’asciutto, che lo proiettò davanti a un viso diverso, ma sempre scuro e accusatorio come quello di Spagna. “Tutto questo macello per un alleato solo che meriterebbe di essere lasciato lì dove sta”, esclamò la voce di Bulgaria, emersa dal ricordo del loro primo incontro.

“È il mio alleato,” ribatté l’eco della sua stessa voce, “non una semplice pedina come avete deciso di esserlo voi.”

Bulgaria aveva sbuffato, le braccia conserte al petto e gli occhi sfrontati premuti su quelli gelidi di Germania. “Accetteresti di disintegrare una pedina come se niente fosse?”

“Meglio una pedina in meno rispetto a una che non posso utilizzare e che ingombra spazio prezioso.”

E ora la pedina era volata fuori dalla scacchiera, non serviva più.

I ricordi si fecero più recenti. Ricomparve quell’espressione profonda e sofferente che Germania aveva colto sul viso di Romania mentre stava cadendo dal tetto, torto dal dolore delle ferite che gli aveva procurato lui. La stessa espressione di paura, dolore e confusione che aveva già visto riflessa nei suoi occhi durante l’attacco sul forte della Linea Metaxas, mentre Romania stava reggendo il corpo ferito di Bulgaria fra le braccia e quando Germania era corso davanti a entrambi per inseguire Grecia. “Germania, Germania, aspetta, e noi?” Lo sguardo colmo del terrore di chi è appena stato abbandonato, e lo sguardo offeso che gli aveva rivolto di sbieco una volta usciti dal forte.

Germania digrignò i denti, chinò la fronte, le spalle tremarono, una morsa di conflitto gli addentò il petto e ammutolì la voce della sua testa che gli gridava di inseguire Grecia. Prevalse la voce del cuore.

Maledizione!

Germania si girò dando le spalle agli edifici, volò in una corsa attraverso la banchina, si sbottonò la giacca, se la sfilò di dosso con due strattoni, la lasciò cadere a terra, vi gettò la pistola sopra, si slacciò anche quella che teneva infoderata alla cinta e la buttò nel grumo di stoffa. Saltò di due falcate più ampie, raggiunse l’orlo di cemento e spiccò un tuffo. Infranse la sua stessa immagine che si era specchiata sull’acqua, e si lasciò abbracciare dalla morsa di freddo e umido che si avviluppò attorno al suo corpo e tirandolo verso il fondale.

Lo avvolse il silenzio nel quale vibrava ancora lo scroscio cristallino del suo tuffo.

Lame di luce solare penetravano il mare raccolto nel bacino del porto, rendevano l’acqua grigia, attraversata da un fitto pulviscolo e sbavata dal rosso del sangue. Al gelo che aveva trafitto il corpo di Germania si unì il forte bruciore dell’acqua salata a contatto con gli occhi aperti e con la ferita del proiettile che gli era passato di striscio sul braccio. Germania ignorò il dolore e sbracciò attraverso la nuvola di bolle che si era gonfiata dopo il suo tuffo. Diede un’altra sbracciata, più lenta e affaticata – i vestiti zuppi e incollati al corpo gli indebolivano i muscoli –, e dissolse l’ultimo strato di bolle.

Catene arrugginite e funi discendevano l’acqua dagli scafi delle imbarcazioni, andavano a infilarsi fra i piloni che emergevano dal fondale, e tenevano salde le barche e i pescherecci. Germania si spinse più in basso. Lo accolse un’acqua più fredda e buia, le orecchie fischiarono, la pressione dell’aria trattenuta nei polmoni cominciava a schiacciargli il petto, a fargli male fra le costole e a pulsargli attraverso la testa.

Germania soffiò una minuscola scia di bolle, dissolse anche quelle con una bracciata affondata in quell’acqua densa che cominciava a somigliare a ghiaccio sciolto, e si avvicinò a una sagoma scura accasciata fra i piloni subacquei che somigliavano a una foresta di grossi molari di pietra. Tentacoli di sangue si srotolavano dal corpo abbracciato alla cima di un pilone. Le braccia ciondolavano attorno alla fune tesa da cui sventolava un drappo di alghe verdi mosse dalla corrente, la pancia premeva sulla cima del blocco di pietra, il sangue risaliva dal suo torso e si dissolveva in nastri rossi sempre più rarefatti, la testa penzolava verso il basso e i capelli gonfiati dall’acqua dondolavano davanti agli occhi chiusi.

Germania sgranò le palpebre brucianti di sale, ebbe un piccolo sussulto e un fiotto di bollicine sgusciò fuori dalle sue labbra serrate che trattenevano il fiato. Eccolo! Sbatté le gambe in una violenta sforbiciata, chiuse e riaprì le braccia scavando nell’acqua sporca di sangue, e accelerò il nuoto. Raggiunse il corpo di Romania.

Tese il braccio sano, fino a sentire uno strappo al muscolo, i tendini pulsarono, le vene inspessite dalla fatica erano ancora più blu in contrasto alla pelle sbiancata per il freddo. Spalancò la mano, le dita tremanti scesero ancora e agguantarono la giacca di Romania. Germania buttò indietro le spalle, diede uno strattone, e raccolse il braccio di Romania stringendoselo attorno al collo. Piantò i piedi sulla superficie del pilone, flesse le ginocchia, e caricò tutto il peso sui muscoli delle gambe. Si diede la spinta e la corrente fece volare entrambi verso l’alto, li immerse in uno dei fasci di sole che intiepidivano e rischiarivano l’acqua. La luce li guidò verso la superficie.

Germania tese il braccio libero verso il pelo dell’acqua dove galleggiava il riflesso appannato del sole, si strinse al fianco il corpo inerte di Romania, e accelerò le sforbiciate di gambe. Il petto bruciava come se avesse inalato fiamme vive, il peso dei vestiti lo tratteneva verso il fondale, la vista cominciava ad annerirsi. Soffiò un rigetto di bolle che gli alleggerì i polmoni, le dita della mano tesa perforarono la superficie dell’acqua e sbucarono aggrappandosi a un pugno di aria tiepida.

Germania emerse. Ingollò una violenta boccata di fiato fresco, scrollò il capo schizzando gocce d’acqua dai capelli, e si passò una mano sulla faccia per raschiare via il sale dagli occhi e dal naso. Il capo di Romania gli ciondolò contro la spalla, rimase immobile. Sfiorava l’acqua con le labbra, e non aveva emesso nemmeno uno spasmo. Non respirava.

Germania lo strinse attorno al busto, sopra i segni degli spari, e gli diede una spinta contro di sé per non farlo scivolare dalla sua presa. Allungò il braccio libero e gocciolante di acqua verso l’orlo della banchina, avanzò ancora a fiato corto, si aggrappò a un’onda di schiuma, risollevò la mano e raggiunse la superficie di cemento dopo due sgambate. Sollevò il corpo di Romania reggendolo fra l’intreccio dei gomiti e lo scaricò sulla superficie del porto. Si appese anche lui alla banchina, si diede una spinta schiacciando i piedi contro una delle funi delle barche, e salì con le ginocchia sul cemento. Si accasciò sui gomiti, riprese fiato a occhi strizzati, tremando all’interno della pozza d’acqua che si stava allargando sotto i loro corpi.

Germania si strofinò la faccia con il dorso della mano, si asciugò palpebre e labbra, e non perse altro tempo. Afferrò la spalla di Romania e lo girò supino. Un braccio di Romania ricadde sul ventre, la sua testa crollò verso la spalla e la guancia finì schiacciata a terra. Aveva le labbra e le palpebre blu, la faccia cinerea, ciocche di capelli bagnati continuavano a gocciolare sulla fronte e sugli zigomi, imperlandogli il volto che pareva addormentato. Germania raggiunse la sua cinta, la tastò fino a trovare il manico del pugnale d’assalto e lo estrasse dal fodero. Sollevò l’orlo della giacca e della maglia di cotone di Romania che si erano incollate l’una all’altra. Vi infilò sotto la lama seghettata, diede un forte strappo, i bottoni saltarono via, e gli tranciò i vestiti fino al mento con soli tre colpi. Il torso nudo e luccicante d’acqua era immobile, piatto e bianco come la pancia di un pesce. Scie di sangue lo attraversavano all’altezza del costato, dove i due fori lasciati dai proiettili si stavano già cicatrizzando e lacrimavano più lentamente.

Germania chiuse un pugno, mosse le dita facendo scricchiolare le falangi, e accostò le nocche sotto le costole sporgenti di Romania. Le spinse leggermente sulla sua pelle, quel poco per sentirne la consistenza fredda e molle, e le tornò a sollevare. Prese la mira. Tornò a gonfiare la mano e gli scaricò un pugno sul ventre.

Il corpo di Romania si contrasse, diede un violento colpo di reni a terra, le spalle si torsero all’indietro, bocca e occhi si spalancarono, e dalla gola si levò un rantolio di vita che gli riempì i polmoni d’aria. “Aaah.” Romania si rotolò sul fianco, crollò sui gomiti, la fronte schiacciata a terra, e diede tre forti colpi di tosse che gettarono spasmi sull’intero corpo. Al quarto tossito vomitò acqua e sangue. Tossì di nuovo, si tappò la bocca, e finì di sputare acqua di mare fra le dita gocciolanti. Si accasciò con la guancia immersa nella pozza di acqua, le labbra ripresero colore e soffiarono singhiozzi rapidi e profondi che si fecero sempre più lenti e regolari, fino ad allungarsi in un profondo sospiro liberatorio. Romania chiuse le palpebre ingrigite, sospirò di nuovo, raccolse le ginocchia a sé, continuò a tremare di freddo e paura, e si aggrappò con le dita al cemento bagnato, aggredito dal terrore di affondare di nuovo.

Germania tornò a girarlo sulla schiena, afferrò la giacca asciutta che si era tolto prima di tuffarsi, la appallottolò, e gliela schiacciò sul petto, tappandogli le ferite. Gli prese entrambe le braccia e gliele fece incrociare sopra il fagotto di stoffa, si chinò verso il suo viso tenendogli saldi i polsi, e la sua voce gli esplose nell’orecchio. “Tieni premuto!”

Romania sussultò, come se lo avesse risvegliato con uno schiaffo. “E...” Sbatacchiò le palpebre imperlate di acqua, spostò gli occhi a destra e a sinistra, si toccò le labbra con la punta della lingua finendo punto dal sapore del sale, e le palpebre tornarono socchiuse in quella dormiente espressione intontita. “Eh?”

Germania esercitò una pressione più forte sul suo petto, la sua presa gli tenne le mani incrociate sulla stoffa della giacca che gli copriva il torso nudo. “Stai sanguinando, devi tenere premuto! Io devo correre a catturare Grecia!” Si rialzò da terra, si passò una mano fra i capelli bagnati, li portò lontani dalla fronte, e le gocce d’acqua ancora raccolte fra le ciglia fecero risplendere i suoi occhi di un azzurro più cristallino. Germania aggrottò la fronte, parlò a Romania con tono secco e duro. “Non morire.” Corse via, i suoi passi vibrarono sotto l’orecchio di Romania schiacciato al suolo, fino ad allontanarsi e a svanire del tutto.

Romania continuò a respirare a boccate pesanti. Le mani strinsero sulla giacca che Germania gli aveva appallottolato sul ventre e schiacciarono la pressione sulle fitte emanate dalle ferite. Serrò i denti, strizzò gli occhi lacrimando rivoli di acqua di mare, e girò la guancia. Emise un altro lungo sospiro, il suo volto si rilassò, il battito del cuore rallentò, e Romania si lasciò riscaldare dai raggi di sole che battevano sulla banchina.

Un minuscolo sorriso di sollievo gli scaldò l’animo.

Il re non aveva sacrificato il pedone rotto. 

   
 
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