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Autore: ChiiCat92    07/08/2017    0 recensioni
"« Lea? » provo a chiamare, ma in risposta arriva solo un sommesso uggiolio.
Lo cerco, con le mani in avanti, in ginocchio, senza però trovarlo.
« Oh mio Dio! Oh Signore! » sbam, la portiera di un'auto che sbatte, passi sull'asfalto dietro di me, poi una mano che si poggia sulla mia spalla. « Va tutto bene? »
Mi volto verso la voce, avverto un gasp a malapena trattenuto.
« Sì, sì sto bene. » ringhio, con più acidità di quanta vorrei. « Il mio cane, Lea, come sta? »
« Lui...lui penso... »
« Come sta?! »
« Non lo so! Sei sbucato all'improvviso, non sono riuscito a frenare in tempo! »
« Hai investito il mio cane? »
« Ecco... »
Non mi interessa la risposta, in realtà voglio solo la certezza di dove sia la sua faccia: gli tiro un pugno in pieno volto, e sono sicuro di sentire qualcosa scricchiolare."
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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03/08/2017

 

 

Running Blind

 

 

All'inizio si trattava di piccole cose. Un oggetto che non riuscivo a vedere nonostante fosse nel mio campo visivo, buchi neri dove prima c'erano case e strade, vista appannata, il bisogno improvviso di occhiali da lettura. La stanchezza, mi dicevo.

Era un periodo estremamente stressante, all'università non riuscivo quasi a stare dietro ai corsi, la vita privata era scivolata in un oblio di dimenticanza, il lavoro part time mi prosciugava le ultime energie residue.

La stanchezza.

Poi cominciarono le emicranie, tanto forti da togliermi il respiro. Nessun analgesico riuscì a placarle per più di un paio d'ore, e i medici continuavano a dire che con la vita che stavo conducendo non dovevo stupirmi di avere sempre mal di testa.

Alla fine ci credetti anch'io. Ci credetti per oltre un anno.

Mi presi un periodo di pausa dal lavoro, cominciai a frequentare metà dei corsi all'università, adottai una dieta più salubre, cominciai a dormire di più. L'emicrania però non mi lasciò mai.

Fu alla fine di marzo, un anno e tre mesi dopo che il dolore era cominciato, che le cose degenerarono, dopo essere svenuto al supermercato per non so ancora bene quale ragione medica: quando ripresi conoscenza, la mia vista era ridotta del 40%.

“Forse hai battuto la testa cadendo”, aveva ipotizzato il medico, “Facciamo una tac.”

Scoprì così un tumore di quasi cinque centimetri appoggiato sul mio nervo ottico. Per tutto quel tempo avevo vagato in un limbo di sofferenza ed ignoranza, trangugiando analgesici e concedendomi più riposo di quanto ne avessi bisogno. Cercando di eliminare ogni fonte di stress avevo smesso di vivere la mia vita, con il solo risultato di nutrire il mostro dentro il mio cranio, farlo crescere, renderlo più pesante, come un parassita succhiasangue attaccato alla materia celebrale.

Dopo una biopsia, il tumore si rivelò benigno, e fu subito programmata un'operazione per rimuoverlo. Quello che non si poteva rimuovere erano i danni che aveva causato.

I primi a sparire furono i colori, come se un'enorme spugna li avesse lavati via dal mondo, poi dal 40% si passò al 50%, dal 50% al 60%, dal 60% al 70%.

A luglio, il mondo divenne buio.

 

*

 

Da bambino odiavo quella sensazione di correre alla cieca con la benda sugli occhi cercando di acchiappare al volo chiunque fosse a portata di tiro. Odiavo il senso di panico crescente quando tutto quello che conoscevo spariva lasciandomi incapace di capire dove si trovassero i miei stessi piedi.

Essere cieco è come giocare ad un gioco in cui non c'è nessun vincitore, e nessuna delle persone che acchiappi può toglierti la benda.

Riprendo fiato lentamente dopo il suono della sveglia, sempre puntata alle nove. È abbastanza distante dal letto da permettermi di allungare un braccio e spegnerla senza dover andare a tentoni.

Mi prendo un minuto o due prima di aprire gli occhi, cercando di ricordare in quale vita sto vivendo, se in quella colorata e accesa dei miei sogni, o in quella buio che ritrovo al mio risveglio.

Mi abituerò mai a questa oscurità?

Cerco di sforzare la memoria e ricordare i dettagli del sogno, ma molti stanno già diventando vaghi. La mente è un anfratto confuso, pieno di angoli, di strade labirintiche che si cancellano non appena hai svoltato l'angolo.

Sento abbaiare e allora apro gli occhi, è un riflesso condizionato che prima o poi mi convincerò a mettere a tacere.

Lea è un golden retriver, un regalo di mia madre che non ho potuto rifiutare. Forse ne ho più bisogno di quanto mi piaccia ammettere, ma l'idea che un cane mi aiuti nella mia vita di tutti i giorni mi fa sempre storcere il naso.

Sento il suo muso bagnato appoggiarsi contro la mia mano e allora sospiro.

« Sono sveglio, dammi un attimo. » come se potesse capire, ma nell'ultimo mese è diventato sempre più difficile non parlargli. Forse per uccidere il senso di solitudine che mi schiaccia il petto, forse solo perché questa casa sembra meno spaventosa quando parlo ad alta voce.

Nonostante la cecità e l'invalidità del 70% conclamatami dallo Stato, non ho voluto tornare a vivere da mia madre. Il solo pensiero di saperla impegnata a prendersi cura del suo figlio cieco mi fa venire i brividi. Non voglio essere un peso, e posso ancora cavarmela da solo.

Per ovvie ragioni ho dovuto lasciare la facoltà di medicina, ma niente mi ha impedito di passare a quella di legge.

Penso ancora di poter diventare un membro dignitoso di questa società.

Lea abbaia di nuovo, ed io sbuffo.

« Ho capito, mi sto alzando. »

Mi alzo con attenzione, ho sempre le vertigini al mattino. Deve essere perché non ho ancora la percezione dello spazio intorno a me, e il terrore di sbattere contro qualcosa quando meno me lo aspetto è talmente forte che cammino con le mani avanti per tutto il tempo. Esattamente come quando da bambino giocavo a moscacieca.

Lo psicologo dice che è normale, che il mio cervello deve ancora adattarsi a questa nuova e bizzarra situazione. D'altronde, dopo venticinque anni passati a vedere chiaramente ogni dettaglio della realtà, ritrovarsi completamente al buio deve disorientare più lui di me.

Appoggio i piedi a terra con cautela, e sento Lea avvicinarmi le pantofole in modo che possa infilarci i piedi. È un cane eccezionalmente intelligente, su questo non posso lamentarmi.

Allungo una mano e trovo la sua testolina a farmi da appoggio quando mi alzo. Un po' mi viene da ridere a pensare che lui adesso è i miei occhi, ma io non ho idea di come sia fatto. Ricordo com'è fatto un golden retriver, ma non ho idea di come sia fatto lui.

Non posso impedirmi di fargli un grattino dietro l'orecchio. Lo sento uggiolare di piacere. Adora le coccole, e non posso dargli torto.

Mi accompagna verso il bagno senza bisogno che mi aggrappi al suo collare, cosa che deve dargli parecchio fastidio, visto il modo in cui di solito si lamenta se lo faccio. Sto cercando di non tirare troppo, e di non stringermi a lui come ad un'ancora di salvezza. Ammetto che è difficile, e imbarazzante.

Di tanto in tanto mi faccio aiutare da un'infermiera, per sistemare la spesa e le vettovaglie in giro per casa. Lea non può dirmi quando finisce il dentifricio, o dove ho messo la maionese. Il bagno l'ho sistemato con lei, e ogni oggetto è a portata di mano.

Solo adesso che non vedo più mi rendo conto di quanti oggetti inutili avessi in giro.

Appoggio le mani sul lavabo e rimango con la testa bassa.

Non so se riuscirò a venire a patti con il fatto che non saprò mai più come appaio, come invecchia il mio volto, quanto sono cresciuti barba e capelli.

A causa dell'intervento ho dovuto tagliargli corti, ma prima erano una lunga chioma blu zaffiro. Adesso, toccandomi la testa, sento una cicatrice bozzuta sotto i capelli spennacchiati. Mi pettino ogni mattina come facevo prima, solo che adesso non ho idea del risultato, mentre una volta a settimana vado dal barbiere a farmi fare la barba. È così strano cambiare routine che faccio fatica a realizzare che questa sarà la mia vita per sempre.

È come ritrovarsi in un pessimo albergo dopo aver prenotato online, e decidere di sopportare solo in virtù del basso prezzo, consapevoli che poi si tornerà a casa. Mi chiedo ancora quand'è che potrà tornare a casa. Qui non voglio restare.

Cerco di fare in fretta, per quanto posso. Mi lavo il viso, i denti, mi chiedo se riuscirò a fare centro nel water per urinare.

Lea mi aspetta paziente sulla soglia. So che mi sta fissando e che è pronto ad abbaiare se dovessi fare qualcosa di sbagliato, ad esempio prendere il flacone di candeggina e berlo al posto del collutorio. Non posso ammettere di non averci pensato.

Rimanere soli con i propri pensieri, al buio, fa venire strani impulsi.

Lea mi raggiunge subito non appena vede che ho finito, e mi accompagna fino all'armadio, come ogni mattina.

Questo l'ho sistemato con mia madre. Se lo mantengo ordinato non ci sarà pericolo per me di fare strani abbinamenti di colori e tessuti. Le camice, che compongono la quasi totalità delle cose che posseggo, sono appese in maniera organizzata sulla destra, i pantaloni sulla sinistra, le scarpe in basso. Devo solo memorizzare l'alternarsi dei colori.

Bianco, bianco, azzurro, blu, bianco, bianco, azzurro, blu. Tutto sommato non è difficile, no?

Quando frequentavo medicina mi dicevano spesso che sembravo troppo serio per la mia età, che avevo la faccia del medico. Vestivo mai con maglietta e jeans?

Sospiro, e prendo quella che spero sia una camicia bianca, e un pantalone qualsiasi dalla pila (di che colore sarà?).

Anche gli indumenti intimi sono sistemati in modo che non possa in alcun modo sbagliare.

E così, dieci attentissimi minuti dopo, sono vestito per uscire.

Non so se la camicia abbia bisogno di essere stirata, non so se ci siano macchie sul pantalone, non so in che condizioni siano le scarpe, non so neanche se io abbia pettinato bene i capelli: pronto, prontissimo per uscire.

« Lea, usciamo. »

Lo sento fare un saltino di approvazione. È sempre estremamente felice di uscire, come un bambino.

Corre per casa prendendo la sua imbracatura così posso infilargliela, e poi mi porge il bastone.

« Bravo, bravo. »

Lo premio con un'abbondante carezza. Si merita qualcosa di buono per pranzo, vediamo cosa posso inventarmi.

Una volta fuori, il caldo del sole mi accarezza la pelle.

Dato che ormai è agosto e che i corsi ricominceranno solo a metà settembre, non avrei motivo di alzarmi così presto e uscire, soprattutto con il caldo dell'estate che incombe. Ma secondo il mio psicologo non devo assolutamente rimanere in casa da solo tutto il giorno, devo camminare, guardare il mondo con occhi nuovi. Ahahahah, quali occhi? Il mio psicologo ha uno strano senso dell'umorismo.

Alla luce del fatto che non posso avere un lavoro, non a breve almeno, l'unica cosa che posso fare è sfruttare l'assegno di invalidità dello Stato per occuparmi della mia salute mentale, e uscire ogni giorno, pranzare fuori, allontanarmi il più possibile dalla depressione. Funziona.

Sto cercando di imparare il braille, ma è più difficile di quanto immaginassi, e non riesco a trovare la concentrazione necessaria. Gli audiolibri sono una bella innovazione, nonostante prima li odiassi con tutte le mie forze.

Lea si arresta quando arrivo sul cordolo, così mi impedisce di attraversare con il rosso.

Mi manca guidare, e penso mi mancherà sempre.

In questo periodo mi manca qualsiasi cosa.

Sono contento di essere cieco soltanto perché così evito gli sguardi pietosi della gente.

Il tac tac del bastone segue il suono dei miei passi e il ticchettare delle zampette di Lea mi accompagna, instancabile. La sua calda presenza è l'unica cosa che mi impedisce di impazzire.

Non si allontanerebbe mai più di qualche metro, lo so, è stato addestrato per questo, ma ho il terrore di ritrovarmi da solo.

Assurdo, vero? Riesco ad uscire in strada e camminare come se niente fosse solo perché un peloso animaletto mi accompagna.

Sento nell'aria profumo di caffè e croissant. Frequento lo stesso bar ormai da mesi, da ben prima del tumore, e le abitudini sono dure a morire, soprattutto adesso che non posso vedere il posto in cui vado.

Conto i passi, seguo l'odore.

Il rumore delle auto, delle persone, della vita che mi scorre intorno mi porta a spalancare gli occhi. Ma non vedo niente, non un'ombra, neanche un alone, niente di niente.

Mi sembra di vivere una vita a metà, escluso da tutto, da tutti.

Ricordo le mattine frenetiche in corsa verso l'università, in cui mi ritrovavo a spintonare e chiedere scusa, adesso invece le persone mi evitano.

So quello che vedono. Un ragazzo giovane, vestito in maniera arruffata, con una cicatrice in trasparenza sotto i capelli blu, occhi ambrati ormai coperti da un velo di nebbia, un bastone che colpisce il terreno, e un cane guida con il muso attaccato a terra.

Povero, povero ragazzo. Cosa gli sarà successo? Quale brutto male l'avrà ridotto così?

È un riflesso condizionato, non mi sento di biasimarli. L'avrei fatto anch'io? L'avrò fatto anch'io? Non ricordo.

« Buongiorno Saïx. »

Volto di scatto la testa, preso alla sprovvista dalla voce. La conosco, è la cameriera del bar dove faccio sempre colazione. Non riesco a sorridere, ma le rivolgo un cenno di saluto, mormorando a Lea di portarmi al tavolo. Lui scodinzola contro la mia gamba e mi segue finché non sono seduto.

« Ti porto il solito? » chiede la cameriera. Mi ha seguito anche lei, e neanche me ne sono accorto. Sento nella sua voce un tono condiscendente, come se fosse disposta ad offrirmi la colazione perché, oh, che brutta vita sto vivendo, non mi merito tutto quello, è il minimo che può fare.

« Sì grazie. » borbotto.

Adesso sembrerò l'invalido ingrato che si beffa della gentilezza del prossimo.

Mi ritrovo ad accarezzare la testa di Lea. Ha il pelo così morbido, è un piacere da toccare. Lui mi lecca le dita e per la prima volta da quando mi sono svegliato, sorrido.

« Ecco il tuo caffè. » la cameriera fa in modo di poggiarlo rumorosamente, così posso sapere dov'è. « Il cornetto ai frutti di bosco. » di nuovo, sbatte appena il piattino. « Buona colazione. »

Lea uggiola, e riesco ad immaginarmi il suo musetto triste. Più o meno. « Puoi portare qualcosa anche per il mio amico? »

« Ho della pancetta, potrebbe andare bene? »

« Non è nella sua dieta, ma se la merita. »

« Perfetto. »

Chissà se lui ha capito, fatto sta che lo sento scodinzolare più che mai.

Cerco una bustina di zucchero a tentoni sul tavolo, quando l'ho trovata la tasto per capire se si tratta di zucchero di canna o zucchero normale.

È solo uno dei centinaia di tentativi sbagliati che farò oggi: lo zucchero è di canna, ma ero convinto fosse normale. Ormai è andato, e il caffè ha tutto un altro sapore. Lo giro e lo rigiro, ma devo avere un'espressione schifata sul volto.

Il momento più esaltante è quando la ragazza porta la pancetta per Lea, gli uggiolii festosi si sprecano: è felicissimo.

Rimango a godere dei suoni, dei profumi, ancora per un po' prima di mangiare il cornetto. Devo farlo a minuscoli bocconi, spolverando di continuo i pantaloni per evitare che rimangano ricoperti di briciole. Sono abbastanza sicuro che non ce ne siano poi così tante, ma vivo nel costante timore di essere in qualche modo sporco e non rendermene conto.

Non c'è niente di più patetico di un cieco con gli abiti sporchi che cammina come se niente fosse.

« Lea. » chiamo. Il mio bravo cagnolone risponde subito con un mezzo latrato. « Andiamo a fare una bella passeggiata. Per pranzo avrai del pollo. »

Lui abbaia ancora. Non so se abbia capito, ma a me sembra felice.

Dal suo punto di vista la vita è così facile, lo invidio.

Pago alla cassa, con un aiuto del cassiere che mi prende di mano le giuste monete – mi fido, truffare un cieco non succede spesso – ed esco sulla strada con Lea che mi precede.

Tira sempre come un cavallo e stargli dietro diventa difficile, ma così almeno mi tengo in forma, trotterellando subito dietro di lui.

« Piano Lea, non correre. » provo ad ammonirlo, però sento del divertimento nella mia voce.

Cerco di non perdere il senso dell'orientamento mentre camminiamo. Mi sento un estraneo in una città che prima conoscevo così bene.

Certo, posso ritrovare la strada di casa con il telefono – giuro, Siri non mi è mai stata simpatica prima – ma il senso di smarrimento che provo nel non sapere dove mi trovo mi rende sempre confuso. Mi sento un bambino in un mondo troppo grande. Ci sono troppe strade, troppe persone, troppe buche, troppi scalini, troppe cose che potrebbero andare storte, e...

Lea abbaia, forte, e mi spinge con...con una testata? Non ne sono sicuro, so soltanto che cado in avanti. Riesco a fermare in tempo la caduta portando in avanti le mani, ma sento il polso sinistro piegarsi dolorosamente all'indietro, cosa che mi fa mugolare. Nello stesso momento avverto lo stridore di freni, un tump compatto, e l'uggiolio di Lea.

Un vuoto mi prende allo stomaco. Non capisco cosa stia succedendo e ho perso il bastone. Comincio a respirare velocemente, giro la testa da una parte all'altra come per capire dove mi trovo, sento sudore gelido gocciolarmi sulla schiena, il polso mi fa male da impazzire. Sarà rotto?

« Lea? » provo a chiamare, ma in risposta arriva solo un sommesso uggiolio.

Lo cerco, con le mani in avanti, in ginocchio, senza però trovarlo.

« Oh mio Dio! Oh Signore! » sbam, la portiera di un'auto che sbatte, passi sull'asfalto dietro di me, poi una mano che si poggia sulla mia spalla. « Va tutto bene? »

Mi volto verso la voce, avverto un gasp a malapena trattenuto.

« Sì, sì sto bene. » ringhio, con più acidità di quanta vorrei. « Il mio cane, Lea, come sta? »

« Lui...lui penso... »

« Come sta?! »

« Non lo so! Sei sbucato all'improvviso, non sono riuscito a frenare in tempo! »

« Hai investito il mio cane? »

« Ecco... »

Non mi interessa la risposta, in realtà voglio solo la certezza di dove sia la sua faccia: gli tiro un pugno in pieno volto, e sono sicuro di sentire qualcosa scricchiolare.

 

 

Accanto a me, il pirata della strada tira su col naso. No, non è perché sta piangendo, cerca solo di trattenere l'emorragia che ha causato il mio pugno quando ha incontrato la sua faccia.

Nello studio del veterinario avverto miagolii, cinguettii, piccoli grugniti e zampette che raschiano contro il metallo.

Dopo aver constatato di non essermi fatto niente di grave – il polso è solo slogato –, di essere in grado di reggermi in piedi, e di non aver causato un trauma troppo impegnativo al pirata della strada, sono riuscito a trovare Lea, l'ho preso in braccio, e ho ordinato di portarci immediatamente da un veterinario.

Il pirata doveva essere troppo scioccato per capire che cosa stava succedendo, perché non ha emesso un fiato, mi ha aiutato a salire in macchina ed è partito a tutta velocità verso il primo veterinario sulla strada.

I medici hanno portato subito Lea dentro per visitarlo e constatare i danni, mentre io e il pirata ci siamo seduti in sala d'aspetto.

Non posso vederli, ma sento gli sguardi dei presenti addosso. Non credo che abbiamo un bell'aspetto.

Il pirata tira di nuovo su col naso e io mi ritrovo a sbuffare. Frugo in tasca fino a trovare il fazzoletto di stoffa, poi glielo spingo tra le mani.

« Smettila di fare il bambino. » sbotto. Tengo la testa voltata altrove, non voglio neanche fingere di guardarlo.

Lui si asciuga il naso, immagino, o il sangue, o quel che è, e poi sospira. « Mi...mi dispiace per il tuo cane. »

Mi disgusta il suo tono di voce. Non si sarebbe sentito così in colpa se non avesse investito il cane guida di un cieco, ne sono abbastanza sicuro. Anzi, probabilmente si sarebbe arrabbiato con me per aver attraversato la strada senza guardare.

La verità è che Lea mi ha salvato la vita, e se dovesse morire per colpa di questo stupido idiota a cui hanno regalato la patente insieme all'uovo di pasqua, gliela farò pagare cara.

« Tu spera solo che non sia niente di grave. » mi sento sussurrare. Sembra una minaccia, una calda minaccia.

Stringo i pugni. Le mani mi fanno male per un motivo diverso. Il polso della sinistra è contuso e ad ogni movimento mi manda una fitta, la nocche della destra sono scorticate dove hanno colpito la faccia del pirata. Mi stupisce di non avergli fatto saltare un dente o di non avergli rotto il naso.

Non so neanche perché mi sto tanto preoccupando per uno stupido animale. Oh no, che bugiardo, in fondo lo so. Senza Lea torno ad essere un patetico ragazzo cieco, e sarò costretto a tornare a vivere con mia madre.

« Io sono Axel. » prova il pirata, un po' più condiscendente.

« Non mi interessa. » è la mia risposta.

Sento una porta aprirsi e passi venire nella nostra direzione. Quasi scatto in piedi.

Poi sento l'abbaiare di Lea, debole e stanco, provenire dalla stanza. Anche se non lo vedo sono sicuro che è lui. Non è morto.

« Signor Karalis. » dice quello che deve essere il veterinario. « Il suo cane sta bene, ma ha bisogno di un periodo di riposo. Ha una brutta frattura alla zampa posteriore, ed è possibile che abbia riportato qualche lesione interna. » mi sento tirare un mezzo sospiro di sollievo. Mezzo, solo mezzo. « Vorrei tenerlo qui in osservazione per qualche giorno, solo per essere sicuro delle sue condizioni. Lei è sicuro di... »

« Posso cavarmela. » rispondo subito, prima che possa aggiungere qualcosa di estremamente imbarazzante.

« Bene allora. » sembra impacciato o a disagio, ma chi può dirlo? « Ho il suo numero di telefono, quando Lea si sarà ripreso, la chiamerò così potrà venire a prenderlo. »

« D'accordo. »

E adesso? Come torno a casa? Come faccio senza perdermi o senza essere investito sul serio? Non so neanche dove mi trovo in questo momento.

Stringo la mano del veterinario soltanto perché ha praticamente afferrato la mia, e cerco di essere saldo nella presa, poi a tentoni torno seduto. Mi passo una mano sul viso, respirando piano, pianissimo.

Posso farmi venire a prendere, non sarebbe un dramma, posso chiamare l'infermiera che...

« Ti riaccompagno io a casa. » alzo la testa verso il pirata della strada, è lui ad avere parlato. Devo avere un'aria interrogativa perché lui ribadisce: « Ti...ti accompagno io a casa. »

« Hai già raggiunto la tua dose giornaliera di danni, grazie. Non salirò di nuovo in macchina con te. »

« Ti prego. È il minimo che possa fare. Fatti almeno riaccompagnare a casa. »

« Senti, non ho bisogno né del tuo aiuto né della tua pietà. »

« Non sarebbe questione di...pietà, ho...investito il tuo cane! »

« Sì, grazie per avermelo ricordato. Vuoi fare qualcosa di utile? Paga la fattura del veterinario. » tiro fuori il bastone, che un gentile passante mi ha restituito. Con una mano avanti e con quella piccola punta di alluminio riuscirò almeno ad uscire dallo studio?

« Certo che la pagherò, ci mancherebbe. Ma...permettimi di riportarti a casa intanto, dai. »

Insiste? Davvero? Sollevo un sopracciglio e spero che lui mi stia guardando, perché la mia deve essere la più stupita e irritata delle espressioni.

« Ho detto no. »

 

 

Axel gira per il mio appartamento mettendo mani ovunque. Pensa che non me ne accorga, e non solo perché non posso vederlo.

Incrocio le braccia al petto, e ringhio. « Hai finito di ficcanasare? O vuoi anche rapinarmi? »

Alla fine ho ceduto. La sua insistenza stava facendomi venire la nausea, e non avevo alcuna intenzione di fare una scenata nel bel mezzo dello studio del veterinario.

« Come? Non sto ficcanasando, non voglio rapinarti! »

« Ah no? Ti si sente lontano un miglio. » sospiro. Non ce la faccio più. È qui solo da dieci minuti e già lo odio, e non soltanto per via di Lea. Si è infilato in casa mia senza permesso e ora pretende anche che sopporti le sue menzogne.

« Scusa. »

Scende un silenzio imbarazzante. Vorrei solo che se ne andasse. Che motivo ha di rimanere?

« Vivi qui...da solo? »

Deve essere un modo carino per indagare sulla mia situazione, per capire se c'è una badante che si prende cura di me o se sono in qualche modo in grado di badare a me stesso.

« No, ci vivevo con Lea prima che tu lo investissi. »

Lui sospira. Lo immagino passarsi una mano sul volto, immagino la sua espressione angosciata e dispiaciuta. « Ti ho già detto che mi dispiace. È stato un incidente, non l'ho fatto di proposito. »

« Di solito investi di proposito i cani degli altri? »

« Okay, senti. » comincia lui, lo sento avvicinarsi, alzo appena la testa nel punto in cui immagino esserci i suoi occhi. Ha una voce giovane, quindi non credo che abbia più di ventitré o ventiquattro anni; deve essere anche molto alto, un metro e ottanta circa: non so altro di lui. Cerco di creare un volto che gli sia adatto, lo immagino con sopracciglia folte, zigomi sporgenti, labbra troppo sottili, un naso bitorzoluto, magari con capelli lunghi di un qualche improponibile colore. Solo che, per quanto mi impegni a rendere la sua immagine fantasiosa e crudele come quello che ha fatto, la sua voce è troppo musicale e piacevole per poter funzionare. « È stato orribile e penso che non smetterò mai di sentirmi in colpa, però voglio essere gentile e fare qualcosa per te. »

« Hai detto che pagherai il conto del veterinario e mi hai riaccompagnato a casa, direi che è abbastanza. Perché non te ne vai? »

« Quindi abiti solo, giusto? »

Oh santo cielo, è solo apparenza o è davvero la persona più stupida con cui abbia mai avuto a che fare?

« Axel, giusto. » lui non risponde, presumo che stia annuendo, poi si rende conto che non posso vederlo, quindi mormora un tesissimo “sì”. « Non intendo rimanere in tua compagnia un minuto di più. Quindi vattene. E grazie tante. »

« Capisco. » dice lui. Finalmente, si dirige verso la porta. Non lo accompagno neanche. « Mi dispiace ancora. Ti...ti farò avere i soldi in qualche modo, promesso. »

« Sì, come vuoi. Addio. »

Non aggiunge altro, se ne va sbattendosi la porta alle spalle. Aspetto qualche minuto prima di alzarmi e andare lentamente verso la serratura per farla scattare.

Adesso sono solo, sono davvero solo.

 

*

 

La sveglia suona alle sette. Nessun musino e nessun cagnolone scodinzolante viene a svegliarmi. Il buio che mi accoglie mi terrorizza.

Dopo aver spento la sveglia, tutto è silenzio. Sento il mio respiro e il battito del cuore. Mi fa paura.

Allungo una mano e afferro il cellulare, poi me lo stringo al petto.

Oggi sarà i miei occhi e la mia guida. Solo questo, una scatoletta rettangolare a cui basta finire a terra una sola volta per rompersi.

Cerco di regolarizzare il respiro e mi alzo.

Dopo aver cercato inutilmente di infilare le pantofole, ho deciso di andare in bagno a piedi nudi.

Mi sembra tutto più complicato senza Lea. Non mi ero neanche reso conto di quanto fosse importante.

Quando mia madre l'ha portato a casa ero più scocciato che altro. Un cane è una grossa responsabilità per una persona normale, figurarsi per qualcuno come me. Eppure, averlo in giro, sentirlo abbaiare, cercarlo per una carezza, è stato confortante da subito.

E adesso è sotto osservazione perché quell'idiota l'ha investito. Spero che si riprenda in fretta.

Cerco di vestirmi con lentezza, perché l'idea di uscire non mi piace, ma sento che rimanere in casa sarebbe anche peggio.

Quando sono pronto, imposto l'indirizzo vocale per il mio solito bar, e mi appresto a seguire le sterili indicazioni di google maps.

Il mondo esterno mi sembra più spaventoso di quanto non lo sia stato nell'ultimo mese. Non mi sentivo così terrorizzato dal giorno dell'intervento.

Ogni passo che faccio è calcolato e pesato.

Ho paura. È assurdo.

« Ehi! »

Sobbalzo più di quanto vorrei quando sento quella voce, e uso il bastone come una spada per menare un basso fendente agli stinchi della persona che si è avvicinata di soppiatto.

Sento i suoi lamenti e i mugolii mentre, immagino, si regge la parte colpita.

« Sei un tipo “prima sparo e poi chiedo”, vero? » mugugna la persona che ho colpito.

Dio, ho il cuore a mille, così forte che a malapena sento le sue parole.

« Io...mi dispiace. » riesco a dire, ma non so neanche con quale fiato, mi sembra di morire.

« No, è okay. Dopo il pugno di ieri avrei dovuto aspettarmelo. »

« ...Axel? »

« Sì, buongiorno. »

Mi sento lanciare un'imprecazione improponibile. Se non avessi così paura, scapperei via, il più lontano possibile da questo stalker.

« Cosa vuoi ancora? »

« Ho pensato che ti avrebbe fatto comodo un po' di compagnia, visto che Lea è ancora dal veterinario. »

« E quindi ti sei appostato sotto casa mia aspettando che uscissi? »

« Beh...non mi sono proprio appostato... »

« Okay. Chiamo la polizia. »

« Nononononono aspetta! » ho già il telefono tra le mani, ma lui le prende tra le sue e mi blocca. Quanto...quanto è caldo. La sua pelle brucia come se avesse la febbre. Immediatamente nella mia immaginazione prende i colori del fuoco: rosso, arancio, giallo acceso. « Me ne rendo conto, non è stata proprio un'idea...intelligente, ma lasciami spiegare. » prendo un sospiro che sembra un ringhio, ma alla fine annuisco, rigido. « Stanotte ho pensato moltissimo a te, e non ho praticamente chiuso occhio. Hai perso il tuo amico ed è colpa mia, quindi per riparare...prenderò il suo posto! »

Lo ammetto. Mi fa ridere. Non riesco a farci niente, scoppio proprio a ridere. Non so come appaia questo ragazzo, però l'ho immaginato vestito con l'imbracatura di Lea, a quattro zampe, intento ad abbaiare e scodinzolare.

Non appena il riso si placa scuoto la testa. Ho ancora le mani nelle sue. Mi divincolo pian piano dalla stretta e infilo il telefono in tasca.

« Tu sei del tutto fuori di testa. » gli dico, ma me ne accorgo, ho un tono divertito.

« È un sì? »

« Lea è stato addestrato tutta la vita per fare da guida ad un non vedente. »

« Beh, penso di poter imparare una cosa o due se mi insegni. »

Rimango un attimo in silenzio. Mi piacerebbe poter vedere la sua faccia tosta, la sua espressione, perché sono sicuro che mi verrebbe da prenderlo a schiaffi.

« D'accordo. » esalo alla fine, alzando gli occhi al cielo.

Dal modo in cui saltella e batte le mani è già più simile a Lea di quanto pensassi.

 

 

Seduti al tavolo per fare colazione, rimaniamo in silenzio per un periodo di tempo imbarazzante.

Centellino il mio caffè, perché dopo che Axel mi ha aiutato a trovare la bustina giusta di zucchero trovo difficile mandarlo giù.

Credo di non aver più intavolato una discussione con un essere umano che non sia un medico o un cameriere in qualche locale da prima dell'intervento, e anche allora non è che fossi questo gran chiacchierone.

Adesso che mi trovo in compagnia di uno sconosciuto che si è praticamente imposto nella mia vita so ancora meno cosa dire, e ancor meno cosa pensare.

« Posso farti una domanda? » inizia Axel. È rumoroso quando mangia, riesco a immaginare il cibo che ingerisce in quella boccaccia larga, e anche adesso sento che sta finendo di ingoiare un boccone.

Sospiro. « Sentiamo, sei curioso di sapere com'è che sono diventato cieco? Da quanto tempo? Cosa si prova a vivere nel buio? »

Lo ammetto, suono cattivo persino a me stesso. Ma non mi interessa. Sono sicuro che domande del genere aleggiassero tra di noi ormai da quando ci siamo seduti, e non ho intenzione di fare il finto tonto.

Non so cos'è che odio di più, forse il falso tatto di chi vuole essere politicamente corretto.

Stavolta a ridere è lui, e la cosa mi lascia abbastanza perplesso che devo aver fatto una faccia assurda, visto che ride di più.

« Certo che no! » sbotta, con ancora qualche rimasuglio di risata nella voce. « Volevo chiederti come ti chiami! Il nome! »

« ...il nome. »

« Il nome! » ribadisce, probabilmente annuendo considerando lo spostamento d'aria. « Non me l'hai ancora detto, e sul campanello del tuo appartamento c'è solo il cognome. »

Quasi mi schiaffo una mano in faccia. Non capisco chi sia più stupido tra me e lui.

« Saïx. » mormoro.

Che idiota, come ho potuto dimenticarmi di una cosa del genere. Il nome. Il mio nome. Sarà che Axel ha investito Lea, e poi dopo le cose sono degenerate senza che avessi il tempo di accorgermene.

« Saïx. » ripete Axel. Appoggia i gomiti sul tavolo, lo sento da come si muove appena. « Quindi vieni qui a fare colazione tutte le mattine? »

« Sì, più o meno. » a questo punto affondo il viso nel caffè. Lo finisco in un sorso e poi prendo a mangiare il cornetto. Non ho fame, ma voglio avere le mani impegnate.

« E poi? Cosa fai di bello? »

« Cammino. »

« Cammini? »

« Sì, cammino. »

« Senza meta? »

Senza meta. Per qualche ragione quelle parole mi lasciano...vuoto.

Da quando il mio mondo è diventato buio non ho mai avuto un posto dove andare, un posto in cui voler andare. Ho camminato fino a stancarmi, per poi tornare a casa. Così ogni giorno della mia vita.

Mi domando se ho vissuto davvero. Mi domando se senza luce sia possibile vivere davvero.

Non rispondo, non perché non voglia, ma perché non so come rispondere.

« Ti va se oggi ti porto in uno dei miei posti preferiti? » chiede Axel.

È...strano il modo in cui mi parla, il modo in cui si rapporta a me. Come se non avesse davanti un cieco. Non ha mezzi termini, non misura le parole. L'idea che mi ero fatta di lui comincia a sembrarmi sbagliata, e non è possibile, io non sbaglio mai. O forse sì?

Perché diavolo questo tizio sconosciuto mi fa venire tutti questi dubbi esistenziali. Dannazione.

« Quale sarebbe questo posto? » faccio il vago. Ho ancora questa idea che voglia rapinarmi, magari vuole portarmi in un posto deserto. D'altronde non posso neanche riconoscere la sua faccia.

« C'è un parco meraviglioso a qualche isolato da qui, ci sei mai stato? »

« Un parco? » inarco un sopracciglio.

« Sì! Di solito ci vado per fare jogging, o solo per leggere un libro. »

Sospiro ancora. « Benissimo. Andiamoci. Non può succedere niente di peggio a questo punto. »

Ma nello stesso momento in cui lo dico so già di avere torto.

 

 

L'aria è piacevole. Nonostante il caldo, sotto gli alberi si sta al fresco. I sottili aliti di vento che si alzano di tanto in tanto portano il profumo dell'erba e dell'acqua.

Non sapevo neanche che ci fosse un posto del genere così vicino.

Axel sospira al mio fianco, lo sento mettersi comodo.

Non riesco a stare rilassato, comincio ad avere mal di schiena a furia di tenerla dritta.

Anche se il posto è piacevole e il clima leggero, continuo a sentirmi a disagio. Non so dove mi trovo, e ho riposto tutta la mia fiducia in uno sconosciuto.

Con il senno di poi, non so proprio cosa mi sia passato per la testa.

« È tutto okay? »

Probabilmente Axel capirà da come sobbalzo che no, non è per niente tutto okay. Stringo i pugni, ma cerco di rallentare il respiro.

« Sì, tutto okay. » sono un pessimo bugiardo, me ne rendo conto da solo.

Allo scattare di quello che credo essere uno zippo sobbalzo ancora. È solo una sigaretta, Saïx, santo cielo, datti un contegno.

Il profumo del tabacco mi solletica il naso.

« Tu fumi? » chiede lui.

Mi ritrovo a scuotere la testa. Prima, forse, prima che cominciassi a prendere tutte le medicine necessarie per far sparire il dolore, e poi dopo quando ho dovuto prepararmi per l'intervento.

Per un po' continua a tirare in silenzio. C'è un sentore di liquirizia nel fumo della sua sigaretta, è delizioso.

« Mi piace venire qui. » dice, forse per riempire quel vuoto tra noi, forse nel tentativo di farmi sentire a mio agio. Lo apprezzo, ma non funziona. « È sempre tranquillo. Adesso non c'è abbastanza vento, ma di solito i bambini vengono qui per far volare gli aquiloni. Ci credi? Chi fa volare più gli aquiloni? » ride appena e mi riscopro a pensare che...è una bella risata.

Spero di non essere arrossito, perché sento il viso caldo. Sposto la testa altrove e cerco di darmi un minimo di contegno. Non è da me comportarmi così.

« Sembra un bel posto, sì. » commento, vagamente, ma in realtà non so bene cosa ho detto.

« Saïx...adesso potrei volerti fare una domanda indiscreta. » annuisco, sento qualcosa dentro di me tendersi appena, come se Axel avesse girato il piolo di una corda delicata. « Non vedi...proprio nulla? Neanche ombre o cose del genere? »

« Nulla. » scrollo appena le spalle.

« Okay, adesso ti faccio un'altra domande indiscreta. » ormai, non gli do neanche il permesso. Tra me e me mi preparo all'idea di dovergli negare una risposta. Cerco di ammorbidire i toni, ma qualsiasi pensiero formuli è comunque cosparso di veleno. « Posso descriverti quello che vedo? »

Questo è del tutto inaspettato.

« Perché? » mi viene spontaneo dire.

Tra tutte le cose che avrebbe potuto chiedermi, per quale motivo proprio questo? Perché dovrei volere una cosa del genere? Perché dovrebbe farmi piacere?

Sento la rabbia montare insieme con una punta di disperazione.

Lui può vedere il magnifico parco in cui i bambini fanno volare gli aquiloni. Io no.

Mi prende una mano. Di nuovo, non posso non notare quanto sia calda, quanto sia piacevolmente calda. Mi piace. « Perché non voglio che tu viva nel buio. »

Non rispondo alla sua richiesta, ma lui comincia comunque a descrivermi quello che vede.

Per tutto il tempo, tengo gli occhi su di lui. Immagino le sue labbra muoversi, immagino la sua voce prendere forma intorno a lui per dargli un corpo.

Voglio vederlo più di quanto voglia vedere il parco, l'erba verde, il cielo azzurro, gli alberi con i rami spioventi come ombrelli. Più di tutto.

 

 

« Beh allora...a domani, immagino. » mormoro. Rimango per un attimo sulla porta, la mano sulla maniglia.

È tutto più imbarazzante di quanto vorrei.

Dopo aver passato tutto il pomeriggio nell'immaginario mondo descrittomi da Axel, adesso l'idea di lasciarlo mi fa sentire strano. Mi sembra di perdere la vista...di nuovo, ma non capisco perché. D'altronde non ho visto niente davvero, e una o due volte lui mi ha preso in giro aggiungendo dettagli surreali tanto da farmi alzare gli occhi al cielo.

Come poteva pensare che credessi che nel fiumiciattolo che scorre dentro il parco nuotassero calamari viola. Sul serio?

Mi ha fatto ridere però. Non ridevo così da una vita.

« Hai mai mangiato sushi? » chiede lui all'improvviso, invece di rispondere con un “a domani!” e andarsene, come mi aspettavo che avrebbe fatto. Con lui ogni mia certezza vacilla. Non sono sicuro che mi dispiaccia.

« No, non mangio...pesce crudo. »

Mi sembra percepire nell'aria il suo stupore, ancora prima di sentire il gasp e di immaginarlo con una mano sul petto.

« Pesce crudo! Non è solo pesce crudo! Sei un...blasfemo! » mi spinge da una parte e, per l'ennesima volta, entra nel mio appartamento senza permesso. Continua a blaterale qualcosa sul sushi e allora sospiro e chiudo la porta. « Adesso ti faccio vedere io cosa vuol dire “sushi”! »

Sento il tonfo del suo corpo sul divano e sono rassegnato all'idea di averlo in casa per tutta la sera.

In casa sono più tranquillo, posso muovermi senza bisogno del bastone, per cui mi siedo sul divano soltanto allungando una mano per essere sicuro di non mancare il cuscino.

Axel compone un numero sul suo cellulare e chiama. Evidentemente sta ordinano sushi a domicilio, e anche un bel po' di sushi a giudicare dalla quantità di parole giapponesi che gli escono dalle labbra.

« Benissimo, adesso non ci resta che aspettare. » commenta, soddisfatto del suo operato come un gatto con la pancia piena.

Non posso fare a meno di sbuffare e alzare di nuovo gli occhi al cielo. « Axel mi spieghi quale sono le tue intenzioni? »

In realtà...la mia non era una domanda seria che pretendeva una risposta seria, però sento che l'aria si raggela, si tende, come se avessi detto qualcosa che non avrei dovuto dire. Axel si agita sul posto, forse incrocia le braccia al petto, non saprei dirlo.

« Posso essere molto sincero con te, Saïx? » comincia, ma ho come l'impressione che non voglia che io risponda. « In realtà non...non ho volevo prendere il posto del tuo cane perché mi sentivo in colpa. » sto per dire qualcosa di spiacevole, ma lui mi blocca sul nascere. « Cioè, non fraintendermi, mi sento davvero in colpa per il tuo cane, ma...c'è un'altra ragione per cui mi sono offerto. »

« E quale sarebbe? » praticamente ringhio. Non sembro molto amichevole, me ne rendo conto.

« Tu mi...piaci molto. » mormora in risposta.

A questo punto non so cosa pensare. No, ecco, sarebbe facile se fossi...abituato. L'ultima volta che qualcuno ha mostrato interesse per me è stato tanto tempo fa che non riesco a ricordarlo.

Non ho mai avuto un rapporto stabile che durasse più di quanto non fosse necessario. Dovevo concentrarmi sui miei studi, sul lavoro, e dopo la malattia e l'intervento mi hanno reso...restio ad avvicinarmi al prossimo, come se già non lo fossi di mio.

Questa confessione mi lascia perplesso.

« A malapena mi conosci. » gli dico, esasperato. Mi sembra di avere a che fare con un adolescente capriccioso.

Lo sento respirare profondamente prima di...

Prima di baciarmi.

Sgrano gli occhi e faccio per respingerlo, ma la sua mano calda si appoggia sulla mia guancia, e le sue labbra sono così morbide. Non le avevo immaginate così.

Per la prima volta posso vederlo. Sotto il tocco delle mie mani il suo corpo prende forma. Mi appoggio alle sue spalle, sono piccole, deve essere magro e alto; sfioro il collo allungato, elegante, il viso dalle forme sottili, e poi affondo le dita tra i capelli. Setosi, corposi, e...fiammeggianti. Non so perché, ma il pensiero mi colpisce in pieno come un pugno. Fiamma, sono di fiamma.

Quando si ritrae mi sento mancare l'aria. Mi sono...mi sono lasciato coinvolgere, e non so neanche com'è successo.

« Mi dispiace, non avrei dovuto farlo. » si alza. Dove diavolo va adesso!

Prima di potermelo impedire gli afferro la mano e lo fermo. Riesco a sentire di nuovo la stessa sensazione del bacio. Fiamma, pura fiamma.

« Davvero? Mi baci e scappi? »

« Non stavo scappando. »

« Ah no? E dove avevi intenzione di andare? »

« In...in bagno. »

Di nuovo, rido. Mi fa ridere, Axel mi fa ridere. Non sentivo di avere un cuore così caldo da...forse non ho mai avuto il cuore così caldo come adesso.

« Sono cieco non stupido. »

« E va bene! » torna a sedersi. Dio, il sollievo che provo. Mi riempie l'anima come se fosse un liquido morbido e tiepido. « Stavo scappando. Ti senti meglio? »

« Sinceramente, sì. »

Un altro sospiro, e un silenzio imbarazzante.

Non riesco a contenere la voglia di baciarlo di nuovo, di vederlo di nuovo, poter toccare il suo viso e colmare le lacune. Voglio che mi accenda come fuoco.

Oh, perché sto facendo questi pensieri.

« Di tutte le cose che mi hai descritto oggi, l'unica che hai evitato sei tu. » non so neanche perché lo dico. Mi prenderà per stupido o semplicemente non risponderà. Io non risponderei.

« Vuoi sapere come sono fatto? » ha un che di divertito nel tono di voce.

Mi viene automatico sorridere. « Me ne accorgo se menti. Cerca di non esagerare. »

« Dannazione, volevo dirti che sono un modello di biancheria intima, a quanto pare devo provare con qualcosa di più umile. »

« Prova a essere te stesso, invece di un modello di biancheria intima. »

Deve avermi preso in parola perché mi afferra per il bavero della camicia e...mi bacia di nuovo, stavolta con più passione della prima. Potrei gemere per un contatto come questo. È così piacevole, e il buio non mi sembra più così spaventoso.

 

 

L'indomani mattina quando mi sveglio ho la testa di Axel sulla spalla. Il suo respiro mi soffia sul collo, e il suo calore mi fa quasi sudare.

La sveglia, nella mia stanza, suona ormai da dieci minuti buoni.

Dopo aver mangiato una dose improponibile di pesce crudo, che spero vivamente non mi faccia venire un'intossicazione, ci siamo addormentati chiacchierando sul divano, l'uno sull'altro come fossimo dei bambini. Neanche voglio chiedermi se e quando nella mia vita ho fatto qualcosa del genere.

Sento tutte le ossa indolenzite per la posizione scomoda in cui ho dormito, ma non riesco a pentirmi di averlo fatto.

Axel è...Axel è qualcosa di inspiegabile, mi fa qualcosa di inspiegabile. Ammorbidisce punti in me che erano ormai induriti dal tempo, accende la luce nelle mie tenebre.

Non so se tutto questo è sbagliato o meno, se me ne pentirò domani, o più tardi, se mi spezzerà il cuore o se invece se ne prenderà cura per sempre ma...

Io voglio il suo calore, voglio il suo fuoco.

Sobbalzo appena quando sento il telefono squillare. Riesco ad alzarmi senza svegliarlo – sorrido al pensiero che lui non si sveglierebbe neanche se preso a schiaffi – e a tentoni riesco a raggiungere il ricevitore.

« Pronto? »

« Pronto, signor Karalis? Sono il dottor Stuart, il veterinario. Ho chiamato troppo presto? Stava ancora dormendo? »

Il cuore perde un battito e stringo la cornetta più forte. « Sì, sono io. No non disturba, non si preoccupi. È successo qualcosa? »

Sento un abbaiare gioioso in sottofondo, e lo riconosco subito, anche se è attraverso il ricevitore. Non riesco a trattenere un sospiro di sollievo.

« Volevo solo dirle che il suo cane sta bene. Non ha riportato danni a parte la frattura, ed è pronto per tornare a casa. Comincia ad abbaiare alle sette e sveglia tutto l'ambulatorio. Non è un fastidio per noi tenerlo qui finché non sarà al suo massimo della forma, ma credo che sia abbastanza in salute per poterlo riportare a casa, sembra ansioso di tornare a svolgere il suo lavoro. »

« D'accordo, la ringrazio. Verrò a prenderlo in giornata. »

« Benissimo! L'aspetto! »

Sento il tututu della chiamata interrotta, ma rimango per un attimo ancora con il telefono all'orecchio.

Adesso che Lea sta meglio e può tornare a casa...Axel non vorrà più rimanere.

È stata la follia di una notte, non ha bisogno di perdere il suo tempo con un disabile.

Sento le dita scricchiolare, tanto sto stringendo la cornetta.

« Chi era? »

Salto in aria quando sento la sua voce e mi cade di mano il telefono. Cerco di non imprecare, ma rimesto nel vuoto diverse volte prima di trovare la cornetta e rimetterla al suo posto.

« Il veterinario. » rispondo. Quando si è svegliato? Non l'ho neanche sentito. Due minuti fa stava dormendo così profondamente. « Ha detto che Lea sta bene, e che non vede l'ora di tornare a casa. »

« Andiamo a prenderlo dopo colazione allora? »

Aggrotto le sopracciglia. « Andiamo? C'è un...noi? »

« Certo, che credevi? Che ti avrei dato un bacio e sarei scappato? »

Non è la prima, né sarà l'ultima volta che sorriderò grazie ad Axel. Scuoto la testa e tendo una mano, lui la prende e mi tira gentilmente a sé per aiutarmi a tornare seduto sul divano.

Credevo che sarei stato io quello a scappare.

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The Corner 

Buon akusai day! 
Per quanto questo possa valere. Ho notato che ultimamente il fandom di KH si è un po'...sgonfiato? 
Beh, non smetterò comunque di scrivere qualcosa che amo per la persona che amo. 
Questa shot è un po' diversa per tante ragioni, soprattutto perché ho mostrato un lato più...vulnerabile ed emotivo (forse) di Saix.
Spero di non essere sprofondata nell'OOC, ma questo è quanto sono riuscita a tirare fuori con il mio attuale stato d'animo.
Come sempre tutto questo è per te,

Chii

   
 
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