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Autore: _kjam_    07/08/2017    1 recensioni
[Raccolta One Shot ispirate ai prompt casuali generati dalla “Fabbrica di Prompt” di Fanwriter.it ]
•”Dormire con te”- «E lei vorrebbe dormire nel mio letto solo perché le sue candele si sono consumate?»
•”Esperienze disastrose”- «Hinata, la prossima volta scelgo io il posto dove cenare.»
•”Come farsi sfuggire un caso… e una promozione!”- «Kageyama-kun, io credo di essere innamorato di te!» […] «E me lo dici urlando?!»
•”Missione di recupero”- «Smettila di frignare, non ci sono orsi in quel boschetto minuscolo, idiota!»
•”Guida allo stalking del proprio compagno di stanza”- «Kageyama-kun, che ci fai qui alle tre del mattino?»
•”Attenzione al vicino!”- «Svegliati, Tobio!» […] «Ti sembra un gesto da persone normali piombare in casa mia in piena notte chiedendomi di seguirti?! Ma poi come diavolo sei entrato?!»
[AU!] [KageHina♥] [Ambientazioni principalmente notturne]
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama, Un po' tutti
Note: AU, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE!: I prompt qui descritti sono stati creati dal ‘Generatore di Prompt’ (o ‘Fabbrica di Prompt’) di Fanwriter.it, in modo del tutto casuale. Di conseguenza, molti accoppiamenti risultano no-sense. La trama, però, è di mia assoluta invenzione. Inoltre, il generatore offre anche uno spunto sui personaggi e su un BONUS!, ma io ho voluto soffermarmi solo sulla traccia e sui generi.
Prompt: Candele.
Genere: Storico.
Trama: 1859 - Hinata e Kageyama fanno parte dei cinque ragazzi del clan Chōshū, imbarcati segretamente per andare a studiare nel Regno Unito. Sulla nave, però, Hinata si sente solo e ha paura del buio, in quanto tutte le sue candele si sono consumate, perciò chiede all’amico di ospitarlo nella sua stanza.



 
Dormire con te

«I want you to know,
that it’s our time.
You and me bleed the same light.»

-Selena Gomes, I want you to know




La nave inglese su cui viaggiavano, all’inizio, ad Hinata Shoyo era parsa un po’ spoglia: niente decorazioni tipiche delle culture occidentali, la forma allungata dall’aspetto comune, e le molteplici vele quadrangolari –per lui anche troppe- che pendevano e sventolavano, legate ai tre alberi.
D’altro canto, però, gli avevano detto che niente sarebbe dovuto saltare all’occhio, e sarebbero stati costretti a viaggiare su un’imbarcazione mercantile. Quello che stavano facendo, infatti, non doveva diventare di dominio pubblico, e Hinata capiva il motivo; se il Giappone non era ancora del tutto aperto alle relazioni con gli altri paesi –nonostante i diversi trattati, ad esempio, quello di Kanagawa, con gli Stati Uniti-, gli abitanti dell’Europa non erano inclini all’accoglienza. E ciò si ripercuoteva sulla loro missione.
Sospirò e aspettò che un uomo biondiccio e barbuto gli si avvicinasse, mormorando qualcosa nella sua lingua e facendogli segno di salire attraverso la rampa in legno, mentre gli punzecchiava il gomito.
Il ragazzo fece come ordinato, portandosi dietro un piccolo quanto leggero bagaglio di stoffa, che confrontato a quelli degli altri suoi quattro compagni di viaggio, risultava misero.
Quando fu in alto, si voltò a guardare la sorella, piccola e paffuta, che lo salutava agitando la manina e urlando qualcosa che non sentì. Ricambiò con un cenno ed un sorriso.
Dopo anni passati al clan di Chōshū, era stato scelto fra i migliori per portare in Giappone la cultura che, come aveva promesso tempo prima Sir Rutherford Alcock, avrebbe sicuramente modernizzato e arricchito il loro modo di vivere.
Non si trovava molto d’accordo: i suoi senpai, Daichi-san e Sugawara-san erano ad un livello più alto e, nonostante fossero considerati già troppo adulti, era convinto che avrebbero potuto fare un lavoro ben migliore del suo.
Tuttavia, ce l’avrebbe messa tutta.
Si diresse verso la sua camera, già preparata ma leggermente maleodorante –la nave aveva anche un carico di pesce-, ma evitò di lamentarsi.
Sfrecciando come una saetta, vide la sagoma di Kageyama Tobio passare per tutto il corridoio, con passo svelto, i capelli scuri scompigliati ed uno sguardo truce in volto. Si sporse dalla porta aperta e lo osservò mentre trasportava la valigia dentro la stanza, imprecando perché troppo grande per l’entrata.
Lo conosceva, certamente, come anche gli altri –Kozume Kenma, Oikawa Tooru e Iwazumi Hajime- ma, diversamente, aveva un che di particolare che aveva attirato Shoyo dal primo momento. Come se, nonostante l’altro lo ignorasse, lui fosse quasi costretto a non demordere.
Si affrettò ad aiutarlo, affermando un «Aspetti, faccio io.» un po’ imbarazzato, stupendosi poi quando il moro lo lasciò fare.
Nel momento in cui i bagagli furono tutti posizionati accanto al letto, Hinata alzò la testa di scatto, tendendogli la mano.
«Piacere, il mio nome è Hinata Shoyo.» disse, forse con un filino di entusiasmo in più di quanto ne servisse, e Kageyama sembrò incupirsi ancora.
«So chi è lei.» si limitò a rispondere, non degnandosi di stringere la mano «La sua famiglia e la mia si conoscono da secoli.» 
Il rosso annuì, anche se di ciò non ne era a conoscenza, accorgendosi solo dopo della situazione di gelo che si era venuta a creare.
Sapeva che il compagno non era di molte parole: durante le riunioni non faceva altro che starsene in un angolo ad ascoltare, in silenzio, mentre lui, al contrario, aveva la lingua lunga.
«Beh, che ne dice se, arrivati in Inghilterra, ci aiutassimo con gli studi?» se ne uscì, e Tobio strabuzzò gli occhi, incredulo.
Era una domanda lecita; Hinata non era mai stato ferrato nello studio e la scelta di portarlo all’estero sembrava azzardata, se non per una ragione: era l’unico in quel gruppo a saper parlare l’inglese, in quanto, per ragioni sconosciute a chi fosse fuori dalla famiglia, alcuni dei suoi parenti avevano vissuto per un breve periodo a stretto contatto con Sir Rutherford Alcock.
Gli sarebbe stato utile? Forse, ma in quel momento non era dell’umore giusto per scendere a patti.
«Credo che non sia una buona idea.» dichiarò, fermo «Se ci hanno scelto, è stato perché credono che ce la faremo, anche individualmente.»
Poi, si avvicinò al visetto ancora giovane e fresco di Shoyo, che aveva assunto un’espressione vagamente perplessa.
«Non faccia rimangiare al clan la sua decisione, né faccia vergognare la sua famiglia. Lo prenda per un consiglio.»
Detto questo, lo sospinse leggermente, chiudendosi la porta alle spalle.
Hinata rimase in corridoio per qualche secondo, grattandosi la nuca.
Sinceramente, di quello che aveva detto, non aveva capito poi molto.




La notte era calata velocemente, dopo cena –anche se non sapeva ancora se definirlo un pasto completo, dato che avevano mangiato solo legumi secchi, gallette e carne sotto sale-.
Rientrato nella sua stanza, stanco di ascoltare le storielle dell’equipaggio ubriaco, si era messo a letto, e incapace di dormire, aveva cominciato a sfogliare il suo diario personale, pieno di ritagli di giornale, piccoli appunti e pagine di libri.
Stava cercando davvero di dare il meglio di sé, aveva raccolto più informazioni possibili e non voleva assolutamente farsi trovare impreparato.
Voltando l’ennesima pagina, si accorse del ritratto che il suo amico, Nishinoya Yuu, aveva tentato di fare a sua sorella minore, fallendo miseramente.
Metà del viso, infatti, era completamente sbavato a causa delle continue cancellature, un occhio era più basso dell’altro, e i tratti somatici non erano per nulla fedeli, ma riuscì comunque a rasserenarlo.
Col cuore in pace, ripose il libretto nel cassetto alla sua destra, si infilò solo le coperte e…
Blackout.
Buio.
Solo buio.
Che stava succedendo? Una folata di vento aveva estinto la fiamma?
Impossibile, gli oblò non erano neanche aperti, troppo pericoloso.
Si alzò, avvertendo il singolare scricchiolio delle travi in legno sotto i suoi piedi, e con una cautela di cui non sapeva di essere capace, attraversò la camera, schivando minuziosamente ogni ostacolo –nonostante inciampasse, di tanto in tanto-, con solo la luna a guidarlo. Arrivò ad un’altra cassettiera, posta di fronte al letto, molto più alta e simile ad un armadio. Quasi in punta di piedi, cercò sulla superficie qualcosa che sembrasse vagamente un candelabro, qualcosa che non fosse polvere.
Appena trovato, lo afferrò e lo tirò giù, rigirandoselo fra le mani come se fosse un gioiello prezioso. Non poteva toccare le estremità per testare i suoi dubbi: se le candele erano ancora lì, si sarebbe bruciato. Si avvicinò lentamente all’unica fonte di luce, proveniente dalla finestrella rotonda, e con rammarico, scoprì che si sarebbe bruciato eccome. Le candele in sé, in realtà, non c’erano più. Al loro posto, solo della cera completamente fusa che colava ancora dall’estremità del candelabro. Ad essere sinceri, le uniche candele che aveva trovato al suo arrivo erano già consumate, ma non si aspettava di sprecarle tutte entro la nottata.
«Diamine!» sibilò, fra i denti. Era uno degli sfortunati che non erano riusciti ad accaparrarsi le poche lampade ad olio, andate principalmente al capitano, i membri della ciurma, e uno solo degli ospiti.
Un po’ rozze come maniere, ma giuste; la nave non era la loro, erano lì in segreto e a spese del governo britannico. Era inutile pretendere anche delle fonti di luce abbastanza attendibili e durature.
Ma, allo stesso tempo, Hinata Shoyo, se odiava davvero qualcosa, era il buio. O, almeno, non il buio in sé, ma stare da solo al buio. Lo metteva letteralmente con le spalle al muro, lo faceva sentire solo ed impotente, e non c’era cosa peggiore, per lui, che ritenersi debole.
Doveva prendere una decisione, ed in fretta anche, perché altrimenti il  panico avrebbe preso il sopravvento. 
Ma cosa fare? Chiedere a Kenma-san una candela in prestito non sarebbe stata una cattiva idea, ma era quasi sicuro che non gli avrebbe neppure aperto la porta –aveva il sonno pesante ed era piuttosto riservato-. La stessa cosa valeva per Iwazumi Hajime, mentre Oikawa-san sembrava fosse l’unico cui poter domandare aiuto. Ma, allo stesso tempo, non lo conosceva per bene, e inoltre aveva notato più volte il modo in cui lo guardava, e non sembrava nutrire molta simpatia nei suoi confronti.
No, meglio non rischiare.
Rimaneva solo uno: Kageyama Tobio, la stessa persona che solo qualche ora prima, si era rifiutata di avere una conversazione con lui, sbattendogli addirittura la porta in faccia.
Non che Hinata non si fosse offeso dopo quel comportamento –e anche un po’ spaventato-, eppure, stando ai fatti, era l’ultimo a cui poteva chiedere.
E, per altro, anche l’unico degli ospiti, ad avere una lampada ad olio.




«Oh, cielo, e adesso lei che vuole?»
Kageyama era fermo davanti all’uscio, una mano ancorata alla lastra di legno fradicia e l’altra abbandonata lungo il fianco, mentre squadrava con una certa sfrontatezza la figura che si era presentata lì pochi secondi prima, lo stesso ragazzino presuntuoso ed egocentrico –nonché megalomane- che non faceva  altro che interrompere, con le sue proposte impossibili, le riunioni ufficiali del clan.
Non l’aveva mai sopportato, in verità: la sua felicità immotivata, la costante ricerca di un mondo utopico, la semplicità con cui affrontava ogni argomento, lo presentavano ai suoi occhi come ancora un bambino immaturo, e, anche se non l’avrebbe mai ammesso, scatenavano in lui un po’ di subbuglio –di cui ancora non aveva percepito la fonte- e invidia.
Così, quando aveva avvertito il leggero bussare e una vocina bassa che lo chiamava, si era trovato di fronte ad un bivio. Se gli avesse aperto, avrebbe dovuto accontentarlo, qualunque proposta facesse, mentre se l’avesse ignorato, sfortunatamente, la curiosità e il senso di colpa se lo sarebbero mangiato vivo. Alla fine, aveva ceduto.
Hinata tremò appena. Anche lui, d’altra parte, si sentiva uno stupido a suggerirli una cosa tanto imbarazzante. Ma le idee scarseggiavano, e per quanto già si fosse preoccupato davvero alla vista del corridoio non illuminato, si era sentito meglio non appena il moro era comparso sulla soglia, investito dalla luce, seppur fioca, che proveniva dalla boccetta di vetro.
Si era sentito protetto. Incredibilmente, come se fosse a casa.
«Io… presuppongo che lei non mi darà in prestito la sua lampada ad olio, giusto?» borbottò, alzando il capo, lo sguardo basso.
Tobio incarnò le sopracciglia, troppo confuso per poter rispondere immediatamente. Che razza di domanda era quella? Perché mai voleva la sua lampada?
«Come scusi?» chiese di rimando, forzando la presa sul cornicione e inclinandosi in avanti. O era lui a non capire, o l’altro non sapeva spiegarsi. Il  rosso sbuffò appena.
«Immaginavo…» sospirò, scuotendo la testa «Ascolti, le mie candele si sono ridotte a cera, e non ho alcuna fonte di luce nella mia stanza… Mi chiedevo se potesse…» ma prima di concludere la frase, la mano del compagno si piazzò  di fronte al suo viso.
«Non se ne parla.» rifiutò, secco «Questa l’ho richiesta personalmente, e se gliela consegnassi, adesso, sarei io quello senza luce.» 
Effettivamente, a tutti, soprattutto ad Oikawa Tooru, il suo nemico per eccellenza, era sembrato bizzarro che una persona apparentemente forte d’animo, pretendesse una lampada ad olio piuttosto che delle semplici e piccole candele. Ma la verità era che, nonostante quel che vedevano gli altri, Tobio non era proprio l’esempio lampante di coraggio. Era ambizioso, determinato, forse un po’ sognatore, anche se non si poneva aspettative, ma niente a che fare con la capacità di sopportare una notte fuori da casa, e per altro, in mare.
Era un tipo abitudinario, adorava la sua casa e che tutto forse in ordine; essere sballottato in un altro continente, con altre culture, gli pareva sopra le righe. Per carità, aveva desiderato quel posto e quel viaggio da quando si era cominciato a parlarne, ed era persino contento di essere stato uno dei primi scelti, ma quando quella mattina aveva finalmente percepito la consapevolezza di dover andar via, non essendo neanche sicuro di poter portare a termine quanto richiesto, aveva sentito troppa pressione, e si era innervosito. Di certo, le relazioni umane non facevano per lui.
Shoyo, però, non sembrava essersi arreso, e per un millisecondo, il cuore di Kageyama schizzò in gola quando il ragazzo incatenò gli occhi grandi e ambrati ai suoi, completamente scuriti dal buio.
«La prego, lo so che è una proposta un po’… indecente…» e detto questo, le sue gote piene cominciarono ad arrossarsi «Ma dato che non ho neanche altre candele… Potrebbe ospitarmi in camera sua, solo per stanotte?» domandò, biascicando qualche parola.
Dopo venti secondi passati in silenzio, l’altro capì subito che doveva trattarsi di un incubo. O di uno scherzo. Certo, di punto in bianco, l’equipaggio sarebbe apparso e lo avrebbe canzonato per tutta la notte. Non ci poteva essere altra spiegazione.
Eppure, il rosso sembrava così sicuro…
«È serio? Lei vorrebbe dormire nel mio letto solo perché le sue candele si sono consumate? Ha perso il senno?» e indicò la branda dietro di lui.
«No no!»
Il ragazzino si affrettò a negare, scuotendo le braccia come a voler attirare l’attenzione.
«Non ho intenzione di…» deglutì «Dormire con lei, potrei anche stare sul pavimento…»
Era strano come dirlo ad alta voce sembrasse una pazzia persino a lui.
Insomma, stava chiedendo ad un uomo di dormire nella sua stanza, anche se ne aveva una propria. E se qualcuno li avesse visti, cosa avrebbe creduto? Hinata non voleva neanche pensarci.
Tobio, dal canto suo, bramava con tutto il corpo di sbattergli di nuovo la porta in faccia. Ma come gli veniva in mente un’idea del genere? E tutto quello solo per un paio di candeline?
«Perché non chiede agli altri un’altra candela?» propose, enunciando la sua idea come se fosse la cosa più logica da fare.
Hinata fece cenno di no. «Mi hanno ignorato.» mentì, e Kageyama si maledì mentalmente per essere stato l’unico stupido ad avergli aperto.
Cosa avrebbe dovuto fare, non lo sapeva. Al ragazzino sembrava combattuto: le pupille dilatate, il viso accigliato e le labbra incurvate non mandavano  segnali positivi.
Sperò con tutto il cuore che la buona anima di qualcuno lo aiutasse, infondendogli gentilezza e permettendogli di plasmarlo col suo sguardo da cerbiatto ferito.
Il moro, invece, era quasi convinto.
In fin dei conti, se avesse dormito sul pavimento come aveva detto lui, non gli avrebbe dato alcun fastidio, giusto? E inoltre non sembrava uno che russasse sonoramente.
Roteò le iridi scure e annuì. «Entri.» soffiò, e l’altro non se lo fece ripetere due volte.




Appena fu nell’ingresso, un odore fresco di pesca lo investì completamente, portandogli subito alla mente il frutteto di Keishin Ukai, un vecchio amico di suo padre.
Veniva portato lì raramente, dato che Ukai non era una persona dal temperamento affidabile, ma quelle poche volte rimanevano comunque indimenticabili.
La domanda che seguì, fu quasi automatica.
«Anche lei raccoglieva le pesche al frutteto di Ukai-san?» chiese, voltandosi in direzione del padrone di casa, ancora in piedi, intento a dare una sistemata alle lenzuola.
«Sì.» rispose –nonostante non si aspettasse una simile curiosità- «Mia madre mi chiedeva di portargliele alcune mattine di primavera.» e, incredibilmente, sorrise al ricordo.
Hinata si sedette a gambe incrociate sulle assi, la schiena poggiata alla testiera posteriore del letto.
«Anche io ci andavo qualche volta, e Ukai-san mi cacciava sempre via!» spiegò, ridacchiando.
Quella visione scaldò l’animo del ragazzo, una punta di nostalgia che già si faceva spazio nel petto, e quasi si sentì in dovere di interpellare l’altro nuovamente.
Voleva sentire la sua voce per troppo tempo nascosta, voleva conoscerlo per quello che gli altri non vedevano e, forse, fu in quell’esatto istante che si rese conto che tutte le altre erano scuse –il sonno pesante degli altri o l’antipatia di Oikawa-. Voleva fin dall’inizio che fosse proprio il moro ad aprirgli.
«Kageyama, ma lei non ha paura?»
Tobio gli fissò le spalle esili per qualche minuto. Per prima cosa, sentirsi chiamato per nome da quella voce fastidiosa gli aveva dato un effetto inaspettato –come se la carne salata si fosse improvvisamente trasferita nel suo esofago-, e contemporaneamente, non era molto sicuro di confidarsi o di essere sincero.
Ci aveva parlato seriamente due volte, compresa quella, ma, rispetto a prima, sembrava davvero il momento giusto per intraprendere una conversazione. E poi, il rosso era uno affidabile.
Sbuffò, per poi accomodarsi al fianco del suo ospite, che sussultò, sorpreso, lasciandosi sfuggire un «Ma cosa fa?» che Kageyama ignorò completamente.
«Certo, Hinata.» affermò, fissando la fiamma della lampada tanto desiderata «Credo che tutti siamo spaventati all’idea di andare in un posto sconosciuto e… non concludere nulla.»
Shoyo lo guardò in maniera intensa e quasi invadente, la bocca mezza aperta e le dita che si torturavano.
Non si aspettava una risposta completa –e quindi non coi suoi soliti monosillabi-, e ne rimase piacevolmente colpito, finendo per sorridere contro la sua volontà, abbassando lo sguardo a contemplare il legno.
«Se studiassimo insieme, poi, sarebbe tutto molto più semplice…» avvertì, e di scatto alzò il capo, incontrando il viso del moro a pochi centimetri dal suo, un ghigno a contornarlo perfettamente.
Al rosso brillarono quasi gli occhi.
«Davvero?» chiese, una calda sensazione che gli fece fremere le budella.
Il ragazzo annuì. Effettivamente, non era stata una mossa tipica, e le parole erano come uscite da sole, quasi avessero vita propria.
 «Sì, a patto che…» ma non riuscì a finire che, di slancio, il compagno gli saltò letteralmente addosso, mozzandogli il respiro.
Si lamentò e cercò di staccarsi dal petto quella sottospecie di sanguisuga, ma l’altro non faceva che strusciare la testa sul suo torace e ringraziarlo continuamente, e pareva non ascoltarlo.
Kageyama si sentì irritato, o meglio, violato da un tale contatto inaspettato, anche perché un certo torpore lo aveva scosso, e lui non sapeva se fosse del tutto preparato ad accettarlo.
Di conseguenza, gli afferrò l’avambraccio e lo spinse delicatamente, in modo tale che l’altro intuisse la sua indisposizione di fronte a quei gesti.
Ma, alla vista di Hinata, praticamente in lacrime e sorridente come non l’aveva mai visto, non se la sentì di forzarlo ancora.
Quello che successe dopo, poi, non fu sotto il controllo proprio di nessuno.
Shoyo, non avendo realizzato di essersi praticamente avvinghiato alla persona più gelida del pianeta, forse preso dall’entusiasmo, fissò la sua bocca con desiderio, e Tobio non fu così ottuso da non accorgersene.
Eppure, persino quest’ultimo, confuso dalla situazione, non avvertì il bisogno di respingerlo, neanche nell’istante in cui le loro labbra si sfiorarono.
Non fu un bacio sfacciato o inopportuno –d’altro canto, era Hinata ad aver cominciato- ma bastò a saziarli, almeno finché entrambi non riacquistarono la lucidità persa.
Quando si furono staccati, le orecchie di Shoyo assunsero il colore rosso porpora, e fu incapace di respirare per una buona manciata di secondi.
Kageyama, invece, si coprì la bocca con la mano destra, anche lui completamente in fiamme, forse nel tentativo di soffocare un qualche sospiro, o, in alternativa, di frenare il battito cardiaco, convinto che potesse praticamente vomitare il cuore.
Preso da un impeto di coraggio, si alzò, stordito, e si mise sotto le coperte. Tutto quello che fece, da quel momento in poi, sembrava meccanico, come se non fosse cosciente di quel che stava accadendo intorno a lui.
Poi, quasi bisbigliando, dichiarò: «Non si preoccupi, venga qui a letto.», causando infarti multipli al piccoletto, non ancora ripresosi dallo shock iniziale.
«Ma aveva detto…» cominciò il rosso, venendo interrotto subito dopo.
«Oh, se lei vuole ancora distendersi sul tappeto sarebbe meglio per me.» gli fece notare il compagno, la testa completamente coperta dal tessuto del lenzuolo.
Non sapeva esattamente perché si stesse comportando così, ma odiava perdere il controllo, e tutto il suo corpo era decisamente fuori dalla sua portata in quel momento, perciò preferiva stare immobile e ad occhi chiusi.
Hinata strisciò fino al bordo del letto, facendo leva sul materasso per mettersi in piedi –aveva perso le funzioni motorie basilari- e si stese lì accanto, dando le spalle al moro.
E quando anche l’ultimo frammento di imbarazzo lo lasciò, chiuse finalmente le palpebre.
Ne era sicuro, le cose sarebbero decisamente cambiate.
Ma la domanda era: lui era pronto?




[La mattina seguente, Oikawa fu svegliato dal trambusto che proveniva dal corridoio, causato da uno dei mozzi, che batteva un aggeggio di metallo sulla sua porta e lo pregava di alzarsi. Il ragazzo si stiracchiò, prendendosi tutto il tempo possibile, poi fece come richiesto, spalancando l’entrata e ritrovandosi davanti un bambinetto biondiccio dalla capigliatura assai giudicabile. Aveva ancora una mano alzata a pugno, stretta intorno ad un cacciavite, con cui, probabilmente, aveva prodotto tutto quel rumore.
«La prossima volta, bussa normalmente, non c’è bisogno che usi quel coso.» gli consigliò, con tutto il tatto di cui era capace.
Il ragazzo si scusò con un cenno, riponendo l’attrezzo dentro la tasca bucata.
«Mi dispiace averla svegliata così presto, ma dovrebbe far alzare anche tutti gli altri del suo gruppo.» lo informò, rigido come un soldatino.
Oikawa alzò un sopracciglio, incerto.
«E non potevi farlo tu?» chiese.
Il ragazzo scosse la testa, balbettando appena. «Beh, dato che lei è il supervisore della spedizione, mi è stato chiesto di…» cercò di spiegare, ma Tooru lo interruppe con un gesto della mano. «Va bene, tranquillo, vai pure.» e l’altro si inchinò, ringraziandolo.
Quando fu da solo in corridoio, constatò che far alzare Iwazumi così presto, sarebbe stato un atto di puro masochismo: l’avrebbe picchiato in testa, causandogli visibili bernoccoli, e non voleva passare la settimana a medicarsi, com’era già successo.
Kenma, invece, non l’avrebbe ascoltato; dormiva come un ghiro e avrebbe dovuto ballare sul suo letto per destarlo, e non era neanche sicuro che ci sarebbe riuscito.
Optò per andare in camera di Kageyama Tobio, che, per quanto fosse insopportabile, era anche cinico e mattutino, e, a meno che non avesse passato l’intera notte in bianco, l’avrebbe trovato già in piedi.
Strinse le dita attorno alla maniglia e aprì, esclamando un «Kageyama, deve alz-…» che gli morì in gola non appena i suoi occhi ricaddero sul letto.
E la scena che gli si parò davanti, era certo, non l’avrebbe mai rimossa.]







Angoletto dell’autrice:

Intanto un applauso a chi è arrivato qui senza: interrompere, annoiarsi, sbadigliare, farsi un sonnellino, o in generale, morire.
Ti ringrazio anche senza conoscerti.
Poi, un abbraccio a mia sorella, che mi ha fatto iniziare Haikyu!, nonostante non fossi convinta, e mi ha fatto apprezzare giusto un po’ il personaggio egocentrico di Oikawa Tooru (HO DETTO UN PO’!).
Andiamo alla spiegazione storica.
Il clan di Chōshū è esistito veramente (e so che probabilmente non ne avevate sentito mai parlare prima d’ora, come la sottoscritta), e ha dominato parte del Giappone per decenni.
Era formato da famiglie di feudali, che per un breve periodo avrebbero avuto il dominio anche militare.
Cinque discendenti di queste famiglie, realmente esistiti, sarebbero stati mandati segretamente in Inghilterra per portare conoscenze al Giappone, non più isolato fin dal trattato di Kanagawa con gli Stati Uniti (appunto).
Ma perché proprio in Inghilterra? Perché qualche anno prima, dato che c’era stato un altro trattato (che confusione!) di amicizia e commercio con il Regno Unito e Sir Rutherford Alcock, anche lui realmente esistito, era stato il primo inglese ad abitare in territorio giapponese, suppongo si sia ritenuto necessario andare a studiare proprio lì.
Tuttavia.
Se voi andaste a cercare su Internet “I Cinque di Chōshū”, come credo farete, non trovereste niente. O almeno, quasi niente, il massimo che ho trovato sono i nomi e la storia approssimativa del clan, ma niente di più. Se scoprite altro, vi prego, fatemelo sapere.
Di conseguenza, molte cose sono frutto della mia immaginazione.
Non ci sono prove che dicano che i ragazzi hanno viaggiato su una nave mercantile, non è spiegato il motivo per cui il tutto doveva essere tenuto nascosto (la mia era solo una considerazione), addirittura non c’è una data di  andata e ritorno (me la sono calcolata io, più o meno), non so se il clan di Chōshū avesse mai avuto contatti con Sir Rutherford Alcock, e, inoltre, non so se ci siano mai state relazioni omosessuali fra i cinque ragazzi (e vabbè, ci rassegniamo).
Oh. Dopo questa lezione, le spiegazioni sono d’obbligo.
La frase iniziale (“I want you to know,…”) si riferisce, per chi non lo sappia, a questa canzone, che ho ascoltato durante la scrittura.
Poi.
Il “Generatore casuale di Prompt” di Fanwriter.it non è qualcosa che si può usare se vuoi fare una storia completamente seria. Nel senso. Come avrete visto dalla presentazione (Candele- Storico), sembra tutto assolutamente normale. In realtà non è proprio così. Mi è capitato persino Dichiarazione- Horror. Per cui, se volete utilizzarlo, lo consiglio come semplice spunto e divertimento, non riponete troppe aspettative, non perché non sia affidabile ma perché è, come ho già detto, CASUALE.
Perché ho scelto questo contesto storico che è vago, mezzo sconosciuto e misterioso?
Perché, portare la Seconda Guerra Mondiale, la  Guerra Fredda, i kamikaze giapponesi, e cose così, mi sembrava leggermente azzardato. Non sono una che tratta argomenti di morte con semplicità, e non avrei potuto ridurre il tutto ad una piccola One shot.
Perdonatemi se vi ho causato confusione.
Ora, ringraziamenti.
Grazie a chi mi ha introdotto nel fandom facendomi shippare la KageHina, grazie a chi recensirà la storia e, sì, sono leggermente esasperata.
Thank you very much,
Pand__Icorn!~♥


 
   
 
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