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Autore: Calime23    07/08/2017    1 recensioni
Solitamente andavo verso il bosco e ancora una volta facevo i miei trecentocinquanta passi per arrivare alla mia casupola in legno, dove mi attendevano la nonna e il cacciatore, ma quella volta tutto fu diverso...
Da quel momento superai i confini del mio piccolo mondo.
Genere: Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Avevo ormai percorso duecentodieci passi quando sentii un rumore.
Mi bloccai: probabilmente era un rametto spezzato. Mi guardai attorno per trovare risposta alle mie paure ma, sebbene il sole primaverile fosse ancora alto, non riuscivo a scorgere alcunché sotto l'ombra dei fitti alberi.
Rimasi immobile per qualche istante, poi proseguii: mi preoccupavo sempre eccessivamente.
Ricominciai a contare, ma quando arrivai a duecentoventisette passi udii un fruscio.
Di nuovo mi ferma e, per una volta, decisi di abbandonare il sentiero per andare verso la fonte del rumore. Appoggiai il cestino a terra e avanzai d'un passo verso la fitta vegetazione.
Quando fui a pochi metri da un grande albero, un'ombra indietreggiò: era imponente, ma pareva più spaventata di me. Non ne ebbi timore.
“Ciao” dissi, aspettandomi una risposta, se la misteriosa presenza fosse stata una persona, oppure un rapido strepitio di fuga, se avessi avuto a che fare con un animale, ma nulla accadde. L'ombra non si mosse.
Feci un altro passo, ma fu una mossa azzardata, perché ciò che scoprii essere un enorme bestia mi balzò addosso, gettandomi a terra.
Ora potevo vederlo molto bene: era un lupo dal manto nero come ossidiana, enorme, con occhi grigi e vigili. Non ringhiava, né mostrava aggressività nei miei confronti, tuttavia era sopra di me e il mio istinto ebbe la meglio: afferrai un sasso e lo scagliai sul suo muso con tutta la forza che avevo. Subito quello iniziò a sanguinare e la bestia mi lasciò libera.
Stavo per prendere il mio cestino e fuggire quando lo sentii gemere: “fa un male tremendo” disse.
Mi pietrificai e infine la mia curiosità vinse sulla paura. Mi voltai per osservarlo meglio: sedeva avvilito e con una zampa cercava di tamponare la ferita. Gli avevo causato un ampio taglio sul naso e da esso sgorgava molto sangue.
“Hai appena parlato” borbottai e mi sentii estremamente stupida, perché cercavo d'interloquire con un lupo che facilmente avrebbe potuto uccidermi anziché scappare.
“Certo che sì. E tu sei pazza: spero che non mi rimanga la cicatrice”.
Mi diedi un forte pizzicotto sul braccio, ma non mi svegliai. Pensai che fosse un'allucinazione, ma per quanto chiudessi e riaprissi gli occhi, per quanto male potessi farmi, il lupo restava dov'era.
“Stai bene?” chiesi sperando in un suo cupo silenzio, ma così non fu.
“Ti sembra che stia bene? Fa male!” allontanò la zampa dal muso per osservarmi meglio mentre io indietreggiavo d'un passo, indecisa sul da farsi.
“Tu parli...” borbottai ancora.
“Sei una giovane brillante. Dico sul serio” commentò sarcastico.
“Sei un lupo. I lupi non parlano” continuai e la mia voce era più acuta di quanto desiderassi.
“Infatti è la tua mente ad immaginare tutto questo” mi rispose con estrema serietà.
“Davvero?” domandai senza riflettere. La bestia alzò gli occhi al cielo.
“Sto scherzando, ragazza. Ora datti una calmata” annuì, mantenendo però le dovute distanze.
“Sono calma” assicurai respirando a fondo “ti fa davvero così male?”.
“Non sei molto intelligente, vero? Certo che fa male. Cosa ti è passato per la testa?”.
“Tu mi hai aggredita: io mi sono solo difesa” replicai e dentro me pensavo bizzarramente che, se anche fosse stato tutto frutto della mia immaginazione, di certo si trattava di un'esperienza più interessante della mia vita quotidiana.
“Ti eri avvicinata e pensavo avessi cattive intenzioni”.
“Tu sei un lupo grande e grosso: io dovrei aver paura”.
Il lupo mi guardò ancora: “dipende dai punti di vista”.
Non seppi controbattere, così rimasi ferma per qualche istante, come per capacitarmi di quanto stesse succedendo, poi tolsi un fazzoletto dalla tasca: “aspetta” dissi “ti do una mano, se prometti di non sbranarmi”.
“Ne avrei voglia, ma penso che tu mi uccideresti prima” rispose.
Stavo per raggiungerlo, ma mi bloccai all'udire quelle parole.
“Era una battuta” chiarificò lui alzando ancora una volta gli occhi al cielo.
Sospirai contritamente: non solo era un lupo parlante, ma aveva anche il senso dell'umorismo.
Mi avvicinai e non dovetti abbassarmi molto, perché il suo muso arrivava al mio petto. Con riluttanza tamponai la ferita e ben presto il fazzoletto s'impregnò di sangue. Con sorpresa scoprii che il lupo si lasciava medicare come un docile cucciolo.
“Ti chiedo scusa, ma credevo davvero che volessi uccidermi” ribadii.
“Vale lo stesso per me” ora la sua voce sembrava più cordiale ed alle mie orecchie suonò profonda e bella.
“Chi mai potrebbe uccidere un lupo?” chiesi.
“Chiunque sia armato” rispose come fosse ovvio.
“Ma tu... ecco, tu mangi le persone?” insistetti, ma non appena formulai quella frase mi resi conto di quanto fosse stupida. Ovviamente non avevo mai conversato con un lupo, dunque improvvisavo alla meno peggio.
“Come posso mangiarle, se non riesco neanche a uccidere una ragazzina?” replicò con tono sarcastico.
“Non mi piace il tuo senso dell'umorismo”.
“Eppure sono così simpatico” continuò con sorriso soddisfatto. Sospirai e ripiegai il fazzoletto di stoffa, ormai completamente rosso.
“Vieni, andiamo al ruscello” gli proposi, ma non lo aspettai e m'incamminai dopo aver preso il mio cestino da terra. Ben presto lui mi fu accanto.
“Perché?” chiese lui “non ho sete”.
“Ti pulisco la ferita”.
Finalmente trovai il coraggio di osservarlo meglio: non avevo mai visto un lupo così da vicino, ma capivo chiaramente che quello fosse più grande del normale e che certamente avrebbe dominato un qualsiasi combattimento contro un suo pari, consideratane la grande massa muscolare e le enormi fauci.
“Che ci fai nel bosco?” mi chiese ad un tratto.
“Torno a casa. Tu perché mi seguivi?” ne approfittai per domandare.
“Avevo paura”.
“Di una ragazzina?”.
“Non è certo cosa di cui andar fieri, ma ormai chiunque può cercare di ucciderti e persino riuscire nell'intento, per questo avevo paura di una ragazzina”.
“Dunque, se avevi paura, perché mi seguivi?” insistetti, dando libero sfogo alla mia curiosità.
“Ti vedo sempre passare. Per una volta, desideravo scoprire dove andassi”.
Lo squadrai perplessa mentre la vegetazione si faceva meno fitta man mano che ci avvicinavamo alla sponda del ruscello.
“Non c'è molto da fare nel bosco” rispose al mio sguardo.
“E neppure dove abito io” ammisi. Proprio in quel momento, apparve tra le frasche il piccolo corso d'acqua cristallina.
Aprii il cestino e presi il fazzoletto avvolto sui panini non venduti quella mattina e troppo numerosi persino per i bambini del paese da accettare. Ne bagnai il tessuto e ancora una volta tamponai la ferita del lupo.
“Va meglio?” chiesi.
“Abbastanza”.
Strizzai il fazzoletto e lo sbattei al vento.
“Sei solo?” interrogai mentre lo ripiegavo e riponevo nel cestino.
“Sì. Tu sei sola?” domandò di rimando.
Annuii.
“Perché parli?” trovai finalmente il coraggio di chiedere.
“Non so. Che io ricordi, è sempre stato così. E perché tu parli?” ribatté con evidente tono canzonatorio.
“Le persone parlano. Gli animali, che io sappia, no” commentai.
“Quanta conoscenza hai da infondere” provocò.
Non riuscii a trattenere un leggero sospiro, ma subito chiesi sedendomi accanto a lui sulla riva del ruscello: “hai fame?”.
“Un po'. Perché?”.
Estrassi due panini dal cestino. Iniziai a mangiarne uno e a lui porsi l'altro: il lupo gli si sdraiò accanto e lo guardò titubante.
“Se vuoi me lo riprendo” dissi e di certo il mio stomaco affamato l'avrebbe gradito.
“No...” si zittì, respirò a fondo e cominciò a mangiare. Non compresi le ragioni del suo comportamento, ma francamente, in quel momento, era l'ultimo dei miei pensieri. Restammo in silenzio, poi scattai in piedi accorgendomi del sole che stava già scomparendo dietro le montagne.
“È tardi!” esclamai correndo verso il sentiero.
“Aspetta” urlò il lupo alzandosi a sua volta “come ti chiami?” domandò trotterellando alle mie spalle.
“Capuccetto Rosso” risposi scavalcando una radice. Lui mi squadrò di sbieco, ma non ci feci caso: “e tu?” chiesi piuttosto.
“Lupo” mi disse.
Rallentai per ricambiare il suo sguardo: “se domani ti troverò ancora, mi dirai il tuo vero nome?”.
“Solo se tu mi dirai il tuo”.
“D'accordo” acconsentii “perdonami, ma ora devo davvero andare. A domani”.
“A domani” ricambiò, guardandomi correre via.

Trovai mia nonna e il cacciatore in veranda, abbandonati sulle sedie a dondolo.
“Eccola! Visto, Gared? Non c'era nulla di cui preoccuparsi” esclamò lei, appoggiando la pipa sul tavolino in legno.
“Cappuccetto Rosso” chiamò il ragazzo “stai bene?” chiese alzandosi in piedi per raggiungermi.
“Sì, sto bene” risposi.
“La tua mantella è tutta sporca di terra” notò lui.
“Sono caduta” mentii.
“Ti sei fatta male?”.
“No. Scusa se ti ho fatto preoccupare”.
Gared sorrise. Non potevo negare che Penelope avesse ragione: era bello, coi suoi corti capelli bruni, gli occhi verdi e un corpo tanto giovane quanto allenato.
“Hai portato qualcosa dal lavoro?” s'intromise mia nonna. Annuii, avvicinandomi e porgendole il cestino. Avevo avuto la cortezza di togliere i fazzoletti intrisi di sangue e nasconderli nella tasca dei miei pantaloni.
“Scusate, sono veramente stanca” sospirai a quel punto “preparo la cena e vado a dormire” prima di entrare in casa, però, mi fermai sulla porta, ricordando le più elementari norme dell'ospitalità: “Gared, ti fermi per cena?”.
“Se sono ben accetto, volentieri. Ma lascia che ti aiuti”propose il ragazzo seguendomi e sorridendo cordialmente a mia nonna.
L'anziana donna accettava poche pietanze per cena: minestra, minestra e minestra, quindi non davo mai libero sfogo alla mia fantasia mentre cucinavo e, come ogni altra attività, anche questa diventava tediosa.
Mentre preparavo gli ingredienti, Gared apparecchiava la tavola.
“Come sei caduta?” domandò ad un tratto.
Non volevo dirgli la verità: mi avrebbe presa per pazza, si sarebbe preoccupato eccessivamente o, peggio ancora, sarebbe andato a caccia di quel lupo.
“Mi era sfuggito il cestino di mano e, dopo essermi chinata per raccoglierlo, ho ripreso il cammino senza accorgermi che a terra ci fosse un grosso ramo” improvvisai abilmente.
“Come mai sei così distratta di questi tempi?” mi domandò.
Scrollai le spalle: “sono stanca” dissi semplicemente.
“Effettivamente, ti servirebbe una vacanza. Da tua nonna, dal lavoro...” sussurrò per non farsi sentire da lei. Io non ribattei, concentrandomi sul cibo. Visto che il discorso era arrivato a un punto morto, lui deviò: “voglio parlare col governatore: dovrebbero sistemare la strada che taglia per il bosco, così non capiterebbero più incidenti come quello di oggi”.
“Che vuoi che facciano? Che ne sradichino tutti gli alberi? È stata colpa mia: è inutile scomodare il governatore per così poco”.
“Sai che siamo vecchi amici: non mi direbbe di no”.
Come potevo non saperlo? Non faceva che ripeterlo. Il governatore Leonel, da poco salito in carica, era un giovane ambizioso che non aveva ancora fatto nulla per inimicarsi i cittadini ed era amico d'infanzia di Gared. Quest'ultimo, ogni volta che ne aveva occasione, ci raccontava di come lo batteva nella lotta, vantandosene senza remora.
Una volta era capitato che, volendo andare a trovare Gared ma non trovandolo in casa, il governatore fosse venuto da noi.
Vestiva elegantemente e sorrideva con tanta insistenza che mi chiesi come potessero non fargli male le guance. Aveva sì e no cinque anni in più del cacciatore, ma Gared lo superava in altezza d'una buona manciata di centimetri.
Questo era tutto ciò che ricordavo del governatore: per il resto, ben di rado si mostrava in paese.
“Davvero, la strada è in perfette condizioni. Inoltre, sono l'unica a percorrerla”.
A questo Gared non riuscì a trovare un'obiezione: “d'accordo, ma ricordati di me, se avessi bisogno di una mano”.
Annuii sorridendo, poi gli chiesi di andare a chiamare la nonna, perché la cena era pronta.
   
 
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