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Autore: Klainbow    08/08/2017    4 recensioni
Lance sta appassendo, e Keith non può permetterglielo.
Riceverà una sorpresa che gli restituirà la voglia di brillare più del Sole, che si sta spegnendo assieme a lui.
Genere: Angst, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Kogane Keith, McClain Lance, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Buona serata a tutti gli space kids!

Dunque. Questa è la mia prima Klance, e credetemi - non avrei mai voluto esserne tanto insoddisfatta. Non ero sicura che l'avrei postata, perché nonostante ci abbia lavorato più di quanto si possa immaginare continua a non essere ciò che desideravo quando l'ho pensata.
Alla fine però ho ceduto, per il semplice fatto che non avrei mai pensato di riprendere a scrivere, e invece sono qui. Keith e Lance mi hanno restituito la voglia di mettermi alla prova, perciò credo di doverglielo, no?
Comunque sia, prima di leggerla, mi preme avvisarvi che nel corso dell'OS saranno introdotte tematiche delicate quali autolesionismo, depressione, lieve disturbo ossessivo compulsivo e accenni di abuso minorile.

 
Detto questo, mi auguro che la storia vi entri dentro almeno un po'. Grazie in anticipo a chiunque la leggerà!




 
Ad Aniti, ad Alek,
e alle anime
trafitte dalla solitudine.
Fate in modo che il vostro
Sole non si spenga mai.
 


 
Rain on Mars

 
In un giorno qualsiasi di un'estate qualunque della loro permanenza nello spazio cosmico, quando i minuti si rincorrevano l'un l'altro con una lentezza che si consumava sulla sua pelle come polvere pruriginosa alle rose, afflizione assai differente dalla semplice monotonia che era solita infestare la sua vita durante l'esilio volontario nel deserto, Keith Kogane si ritrovò ad essere l'unica persona nell'intero universo in grado di poter affermare, lo stomaco in un nauseante subbuglio, di aver assistito al Sole che piangeva.


Al principio, era stato un bambino solo e spaventato.
Circondato dal grigiore delle quattro mura di cemento della sua camera all'orfanotrofio, la sua forma più smunta ed indifesa aveva passato oltre duemilacentonovanta giorni ad odiare quella sfera di fuoco incandescente, ai suoi occhi tanto luminosa quanto letale, e a sperare ogni pomeriggio che, nel tramontare, la Terra l'avrebbe inghiottita per sempre.
Ma nonostante le sue preghiere disperate, Keith fu costretto a venire a patti troppo in fretta con un'ingiusta rivelazione: quel cerchietto di malvagità sarebbe stato pronto a sorgere ancora, e ancora, e ancora, e nessuna tregua sarebbe mai stata pattuita.
Curiosamente, Keith preferiva di gran lunga la sera.
Di notte, Keith poteva dare sfogo alle sue debolezze senza venire deriso o ripreso in alcun modo. E piangeva, allora, a lungo e silenziosamente. Lacrime di nostalgia s'infrangevano nella sottile trapunta rossa, rifugio di mille sere malate d'insonnia, per dei genitori che non aveva mai conosciuto, sobbalzando al minimo cambiamento di suono in quel silenzio che sapeva di abbandono. Stringendo tra pollici ed indici gli angoli logori della coperta, spesso si interrogava su quali fossero i tratti di quel viso rigato di lacrime che poteva aver ereditato da sua madre, e quali caratteristiche fossero invece appartenute a suo padre. Sarebbe stato bello, pensava, se i suoi occhi fossero stati dello stesso colore che doveva aver catturato l'attenzione di suo padre, e contenuto la fierezza che la donna di cui questi si era innamorato aveva trovato accattivante. Si chiedeva se fossero ancora vivi, e se sarebbe riuscito a riconoscerli per strada, quando - e non se - i loro cammini si sarebbero incrociati. Dopodiché, anziché contare le pecore per conciliare il sonno,  Keith afferrava una ciocca di capelli dal retro del suo collo - e tirava. Tirava per tenersi sveglio, anche se le palpebre divenivano sospettosamente pesanti e la vista gli si annebbiava, perché di giorno la Signora Jeoung gli bloccava i polsi in una presa troppo ferrea quando si rifiutava di fare colazione, e il Signor Cho pretendeva di lavare approfinditamente parti del suo corpicino che superavano il basso ventre sebbene lui gli ripetesse che se la sarebbe sbrigata per conto proprio. E alle 6:15 di ogni mattino, le schiene dei bambini con i quali condivideva il dormitorio scattavano come molle contro i materassi impregnati dalla puzza stagnante di muffa per scorrazzare giardino a giocare - e si mostravano così vivi e ansiosi di crogiolarsi sotto i raggi cocenti del Sole, da insegnargli sin dalla tenera età di essere troppo diverso per poter apprezzare la luce.

A Keith l'alba strappava via le vesti di dosso in un unico scossone privo di accortezza. Ciò che restava, erano i residui di corpo stanco e allergico al contatto fisico.
In fondo, a sei anni e mezzo Keith aveva già appreso di essere destinato a germogliare nell'ombra. Magari era stato proprio a causa dei petali neri che sarebbero fioriti dalla sua esistenza che i suoi presunti genitori l'avevano lasciato prima ancora che gli potesse essere concesso di memorizzare le linee dei loro profili. Dovevano averlo immaginato nell'istante in cui era venuto al mondo, che era difettoso: il suo grido strozzato non avrà rispettato i canoni del pianto-da-neonato che i dottori si aspettano di udire nel processo dello sgusciare fuori dall'utero materno. Aveva dovuto accettarlo, comunque. Non c'era poi molto che avrebbe potuto fare.

Così, col passare degli inverni, aveva semplicemente smesso di avere incubi raffiguranti cappelli da somaro e angoli angusti dai quali osservare paia di piccole gambe saltellare in cerchio e venerare un cielo che lo rigettava, relegandolo su uno sfondo nero a stringere le cosce sicché nessuna mano ci si sarebbe intrufolata.
Il nuovo Keith era impavido e austero. Fissando il soffitto dalla brandina al lato sinistro della cella formato scatola di scarpe che gli era stata assegnata alla Garrison Academy, inesorabilmente intoccabile, giurava a se stesso che non si sarebbe mai più permesso il lusso di provare terrore per qualcosa di talmente effimero come la solitudine, l'oblio o la morte, checché se ne dicesse.

Ne fu convinto fino al giorno in cui colui che era lo stampo e la personificazione del Sole non cominciò a minacciare di spegnersi definitivamente - e il panico, dunque, si era appropriato di lui, penetrando attraverso i tessuti, le fibre e le ossa e giungendo a corrodergli le viscere.

Non era stato uno spettacolo gradevole.

Aveva avuto inizio una settimana prima, in seguito ad una sessione d'allenamento piuttosto spossante la cui sospensione si era procrastinata fino all'ora di cena. La routine prevedeva che Keith si ritrovasse a dover passare davanti alla camera di Lance per raggiungere la propria, essendo, suo malgrado, gli unici ad occupare quell'ala del castello.
La prima volta in cui Lance emanò l'aura di devastazione che l'avrebbe travolto, Keith aveva creduto che l'amico si fosse unito agli altri in sala da pranzo da un pezzo. Invece, quasi ne fosse stato il sensore, il pannello d'acciaio zincato che fungeva da porta era scivolato di lato, per poi sparire nel muro, esattamente quando Keith stava per sorpassarlo.
Il Paladino avrebbe tirato fuori una battutina sarcastica riguardo al fatto che sembrava avesse rinunciato al proposito di accumulare più punti di lui nel combattimento simulato coi droni, e lo avrebbe pure fatto, se il corpo non gli si fosse ghiacciato sul colpo nel posare lo sguardo sull'immagine spiegazzata che se ne stava immobile sulla soglia sgombra a mezzo metro dal punto in cui si trovava.
Le labbra di Keith si erano separate appena, e un respiro strozzato ne era caduto fuori congedandosi nell'aria avvelenata da una strana tensione.
Lance aveva tenuto il capo chino, che pareva  essere stato appoggiato sul collo curvo con null'altro che della colla vinilica - come a voler ricostruire un vaso ormai andato in frantumi: a scatti, la testa cadeva in avanti e tornava nella sua posizione originale un attimo prima di precipitare di nuovo. Le sue braccia incredibilmente lunghe e spolpate imitavano il pendolo oscillante di un orologio, dondolando avanti e indietro; le ginocchia non assicuravano di riuscire a sorreggerlo per molto.
''Uhm,'' aveva tentato di dire, Keith. Il singolo suono era riverberato tra le pareti sino a schiantarsi contro le orecchie di Lance, le cui spalle si erano irrigidite in maniera dolorosa soltanto alla vista.
Aveva sollevato piano il viso, giusto per la manciata di secondi che diedero a Keith piena visione del rossore che adornava i suoi occhi, le pupille dilatate quasi a sostituire il blu dell'iride, il cobalto trasformato in un'eterna mezzanotte. Una scia di perle semitrasparenti era ancora fresca sulle sue guance abbronzate. Il sorriso storto che aveva abbozzato a malapena prima di fare un passo indietro e tornarsene in camera si era depositato nel suo ventre sotto forma di spine.

Fu allora che cominciò a rendersi conto che il destino gli aveva giocato proprio uno scherzo niente male, in quanto a meschinità - scegliendo di schiavizzare l'organo che pompava sangue ed ossigeno al centro del suo petto, e di soggiogarlo in funzione di una voce sinuosa, una smorfia perenne, e una pelle incandescente che gli faceva tornare alla mente spiagge sconfinate sulle quali non aveva mai corso a piedi nudi, acque cristalline in cui annegare dolcemente e la stella madre del sistema solare.


 
* * *

 
Quella sera, Lance saltò la cena.

Dietro il piatto di poltiglia verde, Allura domandò se qualcuno lo avesse visto in giro, e Pidge e Hunk scoccarono a Keith un'occhiata incalzante.
Keith pensò che rispondere di no sarebbe stata una bugia solo per metà. Quella sagoma in corridoio gli era parsa la corteccia ectoplasmatica del ragazzo che aveva imparato a conoscere, e forse - accogliere nel suo cuore.
Per i successivi quattro pranzi e tre cene, Keith trovò insopportabilmente vuoto il posto accanto al suo.


 
* * *

 
Lance apparve sotto l'arcata dell'ingresso alla sala strappando un verso di sorpresa dalla bocca di coloro che avevano già cominciato a mangiare.
Si tenne con entrambe le mani alla colonna dietro la quale era spuntato, quasi stesse cercando un sostegno che lo aiutasse a camminare. Evitando con attenzione maniacale le occhiate dei presenti, si concentrò piuttosto sul percorso che lo avrebbe portato alla sua sedia, le labbra sigillate in una linea dritta e dalla superficie scorticata e un cipiglio di difficoltà scarabbocchiato sulle sue fattezze sciupate.
Hunk fece per alzarsi; era chiaro fosse intenzionato ad avvolgerlo in una presa stritolante da Mamma Orsa, ma Shiro scosse la testa, risoluto e preoccupato  assieme. Il silenzio era calato sulla tavola imbandita. I timpani di Keith avevano preso a fischiare impazziti: pericolo, pericolo, pericolo.

Lo guardò scendere i tre scalini che lo separavano da loro incespicando, e pure quando cercò di riprendere fiato le gambe rivestite da un paio di pantaloni che gli scivolavano giù da un fianco ossuto, continuarono a tremare. Sorvolato l'ostacolo, fece strisciare i piedi coperti dalle ciabatte sul pavimento immacolato e pattinò fino a fermarsi dinnanzi al suo posto.
Keith notò, incapace di frenare i battiti scalmanati del suo cuore inferocito, che le nocche gli erano diventate bianche, forse dallo sforzo di far leva sul piano del tavolo per pochi frangenti e mantenere una postura meno arcuata. Poi, si fece cadere indietro. Affondò nello schienale della sedia, e un unico soffio venne rilasciato come risultato di una tale fatica.

Pensò, i pugni chiusi e cinque minuscole mezzelune calcate su ciascun palmo, che il Sole si stava spegnendo.


 
* * *

 
Quella che gli era stata servita era l'equivalente di un'insalata mista, sulla Terra. Nulla di complicato, e il sapore non era nemmeno estremamente disgustoso.
Perciò, Keith non capiva il motivo per cui Lance stesse separando i pezzi gialli - simili al mais - da quelli arancioni - carote tagliate a cubetti - posizionandoli sul bordo del piatto in ordine di grandezza, trascinando i rebbi della forchetta da un lato all'altro per spostare quelli più piccoli in prima fila e gli altri in basso, e componendo una torre con le foglie verdognole la cui architettura era studiata in base alla loro ampiezza.
Afferrò il suo bicchiere, posto sulla sinistra dell'insalata, vicino alla ciotola con la minestra, e lo poggiò di fronte al piatto, dividendolo attraverso una perfetta simmetria. Stette fermo, le mani sospese nell'aria in attesa di un giudizio personale che non tardò a palesarsi: no. Ne prese di nuovo il collo di cristallo tra le dita e lo spinse circa di mezzo centimetro- verso la parte gialla.

''Sai, Lance.'' disse Pidge, il tono ricolmo di un debole sarcasmo. ''Se sei così propenso a mettere a posto, stasera potresti lavarle tu le stoviglie, uh?''
Keith si trattenne dall'urlarle di smetterla, ed ingoiò il boccone che stava masticando prima che gli fosse tornato l'impulso di sputarlo. Desiderò con ogni suo atomo di udire almeno una risata di scherno in risposta.
Ma Lance non pronunciò una parola. Anzi, non vi fu alcun indizio che dimostrasse che la voce di Pidge gli fosse arrivata, impegnato com'era a ripiegare il proprio fazzoletto ora in un triangolo, ora in un rettangolo, e a stirarne caparbio le increspature non appena si fossero formate.
''Lance'', lo chiamò Shiro, la fronte corrugata nascosta dal ciuffo bianco.
Lance teneva la testa bassa e continuava imperterrito a torturare il quadrato di stoffa perché gli angoli ne venissero fuori più precisi di quelli di un origami.
''Lance'', ripetè Keith; un lamento desolato, una supplica insensibile. Le sue mani si mossero senza preavviso e volarono su quelle dell'altro, inibendone i movimenti compulsivi. Il contatto improvviso generò una scarica elettrica che, dalla punta delle dita, seminò una scia di brividi lungo le braccia distese, intrufolandosi subito sotto la t-shirt e proseguendo il loro cammino tra le scapole, dove si depositarono; i muscoli congelati.
In un altro momento, Keith era sicuro che le sue guance si sarebbero dipinte di un rosso più carico di quello di un campo di papaveri, per aver azzardato tanto. Al contrario, Keith era confuso, e disorientato, perché si sentiva reduce da un tuffo in un lago ghiacciato, e Lance era innaturalmente gelido.
Lance alzò lo sguardo, e un paio di occhi spenti furono nei suoi. Due biglie opache lo guardavano senza vederlo.

Keith sussultò: il Sole aveva bruciato il proprio calore per riscaldarsi, e vitreo, si stava spegnendo.


 
* * *
 
Prudevano. Prudevano maledettamente.

Non riusciva a zittire la voce nella sua testa che gli suggeriva di affievolire quel fastidio.
E se non altro, perché avrebbe dovuto ignorare il consiglio?
Per nessuna ragione, si sentì rispondere.
Quindi le unghie che aveva ormai smesso di accorciare s'immersero nella tenera scorza che avvolgeva la sua anima. Era rotto all'interno, lo sapeva già. Avrebbe completato l'opera scheggiando anche il resto.
Si grattò i polsi fino a squarciarsi la pelle.
Liquido rosso scarlatto zampillò dai graffi a fiotti. Era caldo e non arrestava la sua corsa, ma a Lance non importava: voleva soltanto dormire un po'.

Sulla Terra doveva essere una bella giornata. Sperò che il Sole avrebbe continuato a splendere anche senza di lui.


 
* * *

 
Le cuciture che tenevano insieme le giunture del suo cuore erano sul punto di cedere.

Se ne accorse quando un'aliena verde fluo alta un metro e settantadue che si faceva chiamare Xarys bussò ai cancelli del palazzo in cerca di un posto dove passare la notte, e lo trovò.
Trasudava un odore di cannella sebbene Keith fosse sicuro che non indossasse del profumo. Sulle spalle appuntite, una chioma fluente, tinta di viola e sfumata d'arancio, e vantava, tra la mercanzia, un davanzale quantomeno notevole che rimbalzava al primo accenno di movimento, a malapena fasciato dal crop top di ecopelle che indossava.

Lance si voltava verso l'ampia vetrata che occupava la parete in fondo alla sala delle riunioni non appena provasse ad accendere il suo interesse, e frugava tra le stelle e gli asteroidi in cerca del Sole, che ovunque fosse arenato, si stava spegnendo.

 
* * *


C'erano attimi in cui Lance sembrava voler reagire all'apatia che lo aveva colto. Attimi sparsi in cui si circondava lo stomaco con le braccia, e pareva confortarsi.
Si abbracciava, e cullandosi proteggeva le pupille dal mare in tempesta vestendole di una coltre di ciglia che svolazzavano irrequiete.

In quelle rare fotografie di speranza, Keith lo spiava dalla spalla di Shiro, in disparte, e sospirava: avrebbe salvato il Sole prima che si fosse spento.

 
 
* * *

 
Keith attraversò in poche, pesanti falcate il corridoio che conduceva al salotto, dove sapeva che avrebbe trovato gli altri Paladini - non tutti, si corresse, il groppo in gola che cresceva - intenti ad arrovellarsi i sensi alla ricerca di una soluzione che potesse restituirgli il Lance che conoscevano.

La sua risata.

I suoi fianchi che si muovevano a tempo di musica.

La sua esuberante vitalità.

Keith lo avrebbe portato indietro.

''Ho un'idea.'', proruppe affannato. Le sopracciglia folte cucite assieme, Keith si fermò davanti alla poltrona semicircolare che campeggiava al centro della stanza e fece scorrere lo sguardo su ciascuno di loro.
Shiro era l'unico a starsene in piedi. Camminava avanti e indietro senza sosta, toccandosi il mento quasi fosse un tic. Aveva la faccia di chi si reputava colpevole di non aver fatto o detto di più per aiutare un amico che aveva smarrito la strada. E di non aver capito di quale ''più'' Lance avesse bisogno. Keith pensò che se avesse teso le orecchie avrebbe udito chiaramente i meccanismi del suo cervello lavorare frenetici.

Pidge stava costruendo lo scheletro di una mano bionica dal design simile a quello dei soldati galra. Assemblava i dadi di metallo costutuenti le falangi attraverso dei cavi blu, rossi e verdi attorcigliati e tenuti fermi con del fil di ferro. Ciascun pezzo era forato in modo da permetterne il passaggio. Tendeva a farlo quando era particolarmente tesa; erano la propria versione delle collane di spago e perline colorate.

Ne mancava ancora uno all'appello.

Hunk gli era seduto di fronte, curvo su se stesso. Aveva i gomiti scavati nelle gambe separate, e si stava scoprendo il volto dalle mani per potersi concentrare su di lui. Pareva invecchiato tutto d'un tratto, con quel labbro le cui estremità traballavano verso il basso intrappolato tra i denti e la faccia modellata da file di linee d'espressione, rughe del dolore: pareva che le emozioni fossero diventate incontenibili, e avessero scelto di palesarsi una per una sulla sua pelle, in segno di rivolta.
Keith era sempre stato invidioso del legame tra Hunk e Lance. Hunk lo conosceva meglio di chiunque altro, ed aveva a disposizione un repertorio di aneddoti e figuracce riguardanti perfino le loro famiglie a cui non avrebbe mai potuto aspirare. Quegli anni di amicizia e denti da latte che cadevano e notti passate a ridere e a bisbigliarsi i segreti più reconditi, non gli sarebbero mai appartenuti.
Quando Hunk lo guardò, lo stupore macchiato dalla paura, Keith capì di essere stato uno stronzo egoista. Si era arrogato il diritto di appropriarsi del titolo di Colui-che-amava-Lance-di-più, e di credere di essere stato l'unico a soffrire per la sua decadenza. Invece non aveva ammesso neanche una volta ed a voce alta, di voler vivere e respirare lo stesso ragazzo che tutt'ora lo identificava come suo rivale.
Non ci aveva riflettuto a sufficienza, riguardo quanto poco contassero, in effetti, i suoi sentimenti impalpabili e silenti.
Lance era il migliore amico di Hunk, e a discapito della sua reputazione da fifone si era comportato in maniera decisamente più dignitosa di Keith.

Fu la consapevolezza di non essere da solo a ricaricarlo della forza di cui necessitava per mettere a punto ciò che aveva escogitato.

''E' folle,'' ricominciò, passandosi il pollice sulle labbra per cancellarne il sudore che vi si era accumulato. ''Io -'' tentennò. Hunk non spezzò il contatto visivo, tantomeno Shiro e Pidge. ''Non so nemmeno se è fattibile'' Fece spallucce, come se lo considerasse un dettaglio trascurabile. ''Per questo mi serve il vostro aiuto.''

Le reazioni furono istantanee.
Shiro si raddrizzò, derubato dall'insicurezza.
Pidge esibì un sorrisetto storto.
Hunk smise di mangiarsi le unghie, sull'attenti.
Keith si augurò che non avrebbero riso troppo.


 
* * *

 
''Chi lo avrebbe mai detto, che sarebbe stato il nostro Lance a farti perdere la zucca.'' commentò Shiro, quando Keith terminò di illustrargli il piano.
Keith aprì la bocca per protestare, le gote arrossate e un no, non è vero!
in fase di lancio, ma prontamente, Shiro lo interruppe.
''Non fraintendermi.'' Ammiccò affettuoso. ''Ne sono contento.'' E così dicendo, gli rifilò una spinta che lo fece barcollare indietro.
Non era certo che fosse a causa della forza di Shiro che la testa avesse preso a girare. Lo avevano capito, che Lance era speciale per lui.
''Al dispositivo penseremo io e Hunk.'' continuò lui, riscuotendolo dai suoi pensieri. Keith si voltò a guardare il diretto interessato e vide che sorrideva apertamente.
Stava forse approvando? Keith non avrebbe osato chiederglielo, quindi tacque, e annuì grato.

Non fece in tempo a preoccuparsi per la questione principale, nonché l'enigma al quale aveva rinunciato a trovare una risoluzione, che Pidge gli saltò al collo urlando ''lo so io!''. Agitò il pugno sopra le loro teste, poi gli diede un buffetto sulla guancia e si lasciò ricadere a terra con un balzo maldestro.
Keith boccheggiò per un totale di tre volte, tentando di assimilare la notizia e al contempo di riprendersi dall'assalto ricevuto. Come sarebbe a dire che lo sapeva?
''Davvero?'' chiese Shiro, rendendo tangibili i suoi dubbi.
Così come si era manifestato, l'entusiasmo di Pidge scemò in un secondo.
''Pidge...'' esordì Shiro. Per ironia della sorte, era il medesimo tono d'avvertimento che ormai portava il nome di Lance.
''Beh...'' si dondolò nervosamente sulla punta dei piedi. ''Si tratterebbe di un tentativo un po'... fiabesco?'', suggerì in una risatina stridula.
Keith la invitò ad essere più precisa, il naso che puntava in alto e la mascella serrata. Avrebbe accettato qualunque sfida.
Pidge si sedette sulle proprie ginocchia e mise da parte la mano bionica. ''Sono secoli che studio questo fenomeno,'' spiegò febbricitante. ''E pare proprio che durante i mesi caldi dell'anno marziano, che si dia il caso essere intorno questo periodo-''
''Anno marziano.'' la interruppe Hunk, confuso. Una pausa, e i suoi occhi si spalancarono come dei piattini di ceramica nella realizzazione. ''Marte?!''
Pidge gli lanciò un'occhiataccia. ''Hai un'idea migliore?''
''Beh,'' borbottò Hunk. ''Perché non la Terra, a questo punto?''
''Perché, mio caro, grande amico, sarebbe meglio non mettere piede sulla Terra. Finché non potremo ritornarci insieme.'' Pidge attese un'ulteriore commento, e quando si fu accertata che non sarebbe stato fatto, si schiarì la gola e riprese.
''Come saprete, si è discusso per decenni circa la presenza di acqua su Marte. Ebbene, l'acqua c'è eccome, sotto la superficie del pianeta. In stato liquido, probabilmente salato dato il perclorato di magnesio che fuoriesce assieme ad essa con la liquefazione dei ghiacciai.'' Fece un gesto casuale con la mano, come a voler scacciare una mosca invisibile. Era evidente che trovasse la spiegazione alquanto elementare, se non finanche superflua. ''La consistenza potrebbe essere gemella a quella terrestre, e in ogni caso adatta a simulare, se combinata con i giusti elementi ed odori, l'effetto che vorresti ricreare.''
''Ma...'' aggiunse Shiro.
''Come la trovo?'', tagliò corto Keith. Shiro mormorò un ''e va bene'' .
Pidge gli fece un occhiolino, compiaciuta della domanda. ''In prossimità dei bordi dei crateri è stata registrata la formazione di strisce scure d'acqua larghe circa cinque metri. Tali fuoriuscite risultano più abbondanti nelle regioni vicine ai poli - ecco perché ti consiglio di partire da lì - grazie alla presenza di ghiaccio che con l'aumentare della temperatura si scioglie e viene fuori a getti.''
''Quindi devo soltanto prelevarlo?''
Pidge fece oscillare la testa. ''Sì - e no. Non sarà facile, Keith.''
Keith strinse le labbra. Sapeva che non lo sarebbe stato, non se lo aspettava mica. Tuttavia, si sentiva un passo più vicino alla vittoria adesso che sapeva da dove iniziare.
Pidge dovette accorgersene, perché si illuminò nuovamente. ''Sono sicura che troverai l'acqua. Non è necessario che la temperatura superi gli zero gradi centigradi perché Marte si bagni, e se i miei calcoli non sono errati, adesso dovrebbe essere salita attorno ai quindici!''
Keith si chiese se le parole di Pidge fossero del tutto sincere, o se le avesse scelte in modo da suonare confortanti.
Non doveva avere l'aspetto di un re, in quel momento, con le sclera striate di rosso e le occhiaie annerite che si estendevano fino agli zigomi. Da pochi giorni a quella parte, la palpebra destra aveva preso ad essere scossa da spasmi costanti e non s'era più rabbonita. Per di più, non ricordava quando era stata l'ultima volta che si era cambiato d'abiti.
''Non ti resta che parlare con Allura e Coran.'' disse Shiro, e fu come se un camion lo avesse investito.
Non avrebbe chiesto la loro - che cosa? Una benedizione?
''Non devo - ''
''Sì, che devi.'' Gli stropicciò i capelli, una carezza fraterna. ''Devono aprirti un warmhole per mandarti su Marte, o vagheresti per l'universo all'infinito.''
Keith grugnì con disappunto, ma non disse altro. Shiro non aveva tutti i torti.

''Hey, Keith.'' si sentì chiamare.
Hunk.
''Grazie.'', gli disse.
Keith fece di sì col capo e si allontanò.

Pregò un Dio che lo aveva diseredato e calciato in strada che il Sole sarebbe stato ancora acceso, al suo ritorno.


 
* * *

 
''Dovete lasciarmi andare.'' Keith scandì con irritazione le sue istruzioni per quella che doveva essere la quinta volta nel giro di dieci minuti.
''Keith...'' rispose Allura, prolungando il suono delle vocali del suo nome più di quanto trovasse sopportabile. Gli aveva sempre dato l'impressione di pronciare le frasi come in una cantilena, e sebbene non vi avesse mai dato peso, in quel frangente potè avvertire distintamente la sua mandibola dolere per l'eccessivo digrignamento dei denti.
Coran se ne stava appiccicato alla principessa senza proferir giudizio. Keith non ebbe bisogno di concentrarsi sui suoi movimenti per sapere che stava tentando di non dare nell'occhio mentre faceva scivolare una mano verso il pannello di controllo alle loro spalle - probabilmente pensando di poter pigiare dei bottoni a caso che, con un po' di fortuna, avrebbero attivato l'allarme di sicurezza e condotto i Paladini a trascinarlo via dalla sua protetta.
Se non altro, Coran non sottovalutava la sua rabbia.
''Non dovrei nemmeno essere qui a chiedervelo, eppure mi sono fidato di voi e ho voluto mettervi al corrente della mia partenza.''
Coran si arricciò i baffi: stava riflettendo su come impostare l'ennesimo rifiuto.

''Tu non lo sai, Allura, ma le persone possono morire a causa della depressione, sulla Terra!''

Poi, inaspettatamente, la voce scelse di spezzarsi, infrangendosi in milioni di altalenanti sfumature d'impotenza. Keith scivolò contro il muro e si accartocciò sulla sua figura. ''Vi prego. Devo aiutarlo.'' sussurrò, più a se stesso che a chiunque altro.

Allura si accovacciò per abbracciarlo, e un paio di sopracciglia argentate si inarcarono con elegante pietà:
''Lasciamolo andare, Coran.''

 
 * * *
 
Il Pianeta Rosso non era tanto differente dalla sua vecchia dimora.

Un'immensa distesa di sabbia si estendeva per centinaia di chilometri, dinnanzi al suo Leone.
Non vi erano che rocce e detriti d'oro sbiadito a recintarlo. E Keith, che sottratto da Red rimaneva un granello grigio la cui sussistenza non era neppure una vergogna, tanto era irrilevante, si ritrovò di nuovo ad essere l'unico essere vivente con cui poter chiacchierare.
L'avrebbe concepito come un déjà vu, se non fosse stato per il fatto che nel deserto, nondimeno, non gli sarebbe mai capitato di assistere allo spettacolo del quale invece si stava improvvisando spettatore, e di vedere colline costeggiate da ruscelli d'acqua come in una creativa rivisitazione della neve che si ammucchia sulle Ande.

''Stavolta ho qualcuno da cui tornare'', argomentò.
Stavolta ho il Sole da cui tornare.

Restò su Marte un giorno e mezzo.
Ne trascorse altri tre fra aromi di foglie triturate, terriccio e fango e sassolini sporchi. Era un odore complesso, quello del cielo che piangeva.

 
* * *
 
Eccolo lì, si disse. Ora o mai più.
 
* * *

 
Keith sfiorò la spalla di Lance con una delicatezza che non pensava di possedere. Fu un tocco ovattato, a stento percepibile. Il palmo della mano venne solleticato dal tessuto della sua maglietta senza che vi si posasse davvero, privandolo dalla possibilità di perdere il controllo sulle sue sinapsi già provate.
Era talmente gracile che aveva il timore che la sua smania di sentirlo l'avrebbe disintegrato. Occhi segnati da semicerchi ombreggiati, matidi di lacrime ingabbiate che ne velavano le pupille rendendone lo sguardo offuscato, furono nei suoi.  Il grigio screziato dal viola si condensò ad un azzurrino  torrenziale, nel quale sprazzi di blu più scuro s'arrovellavano sull'altro, aggrappandosi a coriandoli di pagliuzze dorate come paracadute in un cielo timido di vita. Sgomento, stupore e sollievo si riflessero sulle sue retine arrossate.

Lance si inumidì le labbra. ''Sei qui'', gracchiò, la voce arrochita dal disuso.
''Stavo preparando una cosa.'' rispose; un bisbiglio soffice attraverso il quale non era abituato ad esprimersi. ''Potrei mostrartela?'' Non sarebbe dovuta suonare come una domanda; in verità non era nemmeno sicuro di dove volesse andare a parare. Non si era preparato alcun discorso: non ne aveva avuto il tempo. Non aveva voluto trovarne, comunque, perché avrebbe significato posticipare ancora il salvataggio del Sole.

Ci fu un terremoto, in quel suo scrutarlo, nonostante Keith stesse provando a non lasciar trapelare l'ansia che intanto lo divorava.
Però Lance annuì timidamente, le nuvole blu che galleggiavano nel suo sguardo si stavano stabilizzando.
Keith spostò lentamente la mano dalla spalla al bicipite, dove indulgiò un secondo di troppo nel saggiare la consistenza dei suoi muscoli appena accennati, poi scese ancora, tracciando cerchi invisibili e vortici incompleti con i polpastrelli, che s'improvvisarono scultori avari di levigare quelle vene sporgenti che sbucavano dalle maniche arrotolate oltre i gomiti e pulsavano - Dio, non appena Keith vi strofinasse le dita contro.
Le labbra di Lance si dischiusero in un modesto gemito di apprezzamento che Keith inalò a fondo.
Non gli restò che giocherellare un'ultima volta con la peluria del suo braccio - che sto facendo? -, e infine allacciare insieme le loro dita e trascinarlo verso l'uscita sul retro della nave spaziale.

Nella corsa verso il traguardo, Lance non fece domande - il ché fu anche più strano del fatto che avesse continuato a seguirlo senza sfuggire dalla sua presa, e mandava Keith in una confusione tale da cancellare dalla sua testa qualsiasi razionalità. Di fatti, non si accorse di essere arrivati a destinazione finché non rischiarono di finire contro la porta di latta alta circa cinque metri e larga due che si ergeva imponente al loro cospetto.
Keith si voltò verso Lance per verificare che non fosse scappato. Faceva ancora fatica ad accettare il modo in cui le loro dita fossero ingarbugliate, sorprendentemente calde seppur inesperte ed umide di sudore, e ancor di più ciò che sarebbe successo di lì a poco.
Ne era passato, di tempo, al margine dell'eccesso, al confine delle cose che si possono perdonare, da quando l'aveva visto piangere fuori alla sua camera quella sera, e Lance aveva cominciato a sbriciolare le proprie ali per non consumare la sua voglia di volare. Doveva essere stufo di aspettare ancora, era ragionevole.
Prese un breve respiro di incoraggiamento e pensò ''ti prego, fa' che funzioni'', poi posò la mano libera sulla maniglia, e la spinse verso il basso.

Fuori, il cielo era trapunto di stelle che illuminavano il porticato dell'uscita secondaria come lanterne ad olio offerte dalla notte perenne di quel luogo, e gettavano sul viso di Lance una luce bianca che accentuava la vulnerabilità intrisa nei suoi lineamenti.
L'aria pareva immobile, quasi solida. Keith si sentì impigliato nella sua rete, e capì che non sarebbe finita finché non avesse dato inizio alle danze.
Guardò in alto, per accertarsi che Hunk e Shiro avessero montato l'apparecchio correttamente. Ed era lì, sulle loro teste, a circa centonovanta centimetri di distanza, affisso alla parete del castello. Da una delle sommità ciondolava una cordicella nera appena più robusta del mignolo di Lance (che Keith era davvero molto consapevole stesse sfregando contro il suo).
Guardò per terra - prima dietro di sé, dopo alla sua destra e alla sua sinistra e infine ai piedi di Lance - piegando le ginocchia per riuscire ad avere una visione ravvicinata dei segmenti che aveva  tracciato col gesso sulla superficie rocciosa.
Quando fu certo di rientrare nell'area delimitata dalla piastrella di metallo, Keith lasciò andare la mano di Lance e tentò di non andare in autocombustione nel notare il modo in cui si era imbronciato e le sue dita sembravano voler inseguire le proprie. Ma Keith fu più veloce, e le piazzò sulle sue spalle per guidarlo in una posizione più centrale.
''Ecco'', sussurrò. Un suono smorzato dai denti che battevano, e non per il freddo. Avanzò a sua volta, più vicino, tanto che se si fosse sporto i loro toraci si sarebbero scontrati.
Lance provò a parlare. Keith gli intimò di tenere gli occhi chiusi.
Obbedì.
Keith recuperò la fune, e dando un'ultima scorta al ragazzo, la tirò.

La prima goccia cadde su Lance. Keith la vide piombare da uno dei fori del pannello e picchiare sulla sua fronte, macinandoglisi sulla pelle come un microscopico chicco d'uva. La seconda atterrò tra le sue sopracciglia, che svettarono in due virgole vertiginose quando una terza, e una quarta, e una quinta goccia lo bersagliarono su uno zigomo, una palpebra, il mento.

Lance teneva ancora le palpebre abbassate quando cominciò a piovere.

E piovve sul serio.

Gocce d'acqua caddero caparbie ed inafferrabili ovunque potessero, penetrando oltre i vestiti leggeri che a zone aderivano già ai loro corpi.
Non appena si rese conto di ciò che stava accadendo, gli occhi di Lance si spalancarono all'inverosimile, e le labbra formarono una ''o'' con il mal di mare, che si apriva e si richiudeva e si allargava e si distendeva e si metteva a zigzagare per l'incredulità.
Si pizzicò l'interno del gomito, come a voler constatare di essere cosciente, ma il dorso del suo dito indice slittò lungo il braccio a causa dell'acqua.
Fissò le proprie dita bagnate come in una sorta di trance, e...

''Keith!'' singhiozzò, le braccia divaricate e i palmi girati verso l'alto, come vassoi ad arginare la pioggia. ''Keith!'' ripetè, stavolta urlando per sovrastare lo scroscio incessante. ''Sta piovendo!''
Keith rise di gusto, il petto che bruciava. ''Sì, Lance, lo vedo.'', lo rimbeccò. Diamine, si sentiva uno stoccafisso a lasciarsi annacquare così. Ma era felice, perché ce l'aveva fatta.
Gli occhi di Lance si chiusero di nuovo mentre gettava la testa indietro e si esponeva alla mercé della pioggia che Keith gli aveva portato in dono.
Col mento rivolto a lui, il pomo d'Adamo risaltava in bella vista. Affascinato, Keith lo osservò solcargli il collo aggraziato e suonarlo come uno strumento musicale, e immaginò di poterlo saggiare con le labbra e ferire con i denti.
''E' una magia!'' sputacchiò Lance. Aveva le ciglia di rugiada, e le orecchie lievemente a sventola in evidenza ora che i suoi capelli si erano inzuppati. I ciuffi appiattiti sul cranio lo facevano sembrare un bambino che non sapeva come raccontare ai genitori di essersi messo a sguazzare in una pozzanghera sulla via di casa.
E chi lo sa, magari Lance aveva ragione, magari la pioggia era un incanto, perché perfino le guance rese scarne dai suoi digiuni parvero rinvigorirsi.
''Non posso credere che tu...'' farfugliò, gesticolando.
''Di cosa sa'?'' domandò Keith. Non ci fu bisogno di specificare a cosa si riferisse.

Lance si prese il ponte del naso tra le dita e le tirò via subito dopo. ''Di pioggia,'' rispose, respirando a pieni polmoni. ''Sa' di pioggia vera, di pioggia de mi Playa Azul alle sei del pomeriggio, quando dimentico l'ombrello e il titolare del bar dove lavoro nei week-end mi offre un succo di naranjas e mamoncillos - e di nuvole, ed erba tagliata.''

E diluviò.
Diluviò anche dagli occhi di Lance, che non si coprì la faccia e lasciò che Keith vedesse ancora una volta il Sole piangere. Solo allora si accorse di aver tirato la cordicella che faceva cadere l'acqua con troppa grinta, dopo che Lance aveva mescolato le sue interiora con un bastone, e lo aveva portato con sé nella sua città natale per un attimo che Keith aveva ritenuto eterno.

Era riuscito a visualizzarlo, Lance, seduto su uno sgabello altissimo, di quelli impagliati che Keith aveva visto in tv, ad infossare le guance e produrre un gran baccano con la cannuccia (rigorosamente a forma di spirale) ostacolata dai cubetti di ghiaccio nel tentativo di ripulire il bicchiere dalle restanti gocce di succo. Il suo titolare gli stava accanto con un ghigno vagante tra l'esasperazione e il divertimento, e lo puniva con un colpo di straccio quando diventava troppo rumoroso, cantandogli: ''sei un bravo ragazzo, ma devi crescere!''. Ed era stato costretto a farlo. Lontano dalla sua amata Varadero.

Pensò, sono così innamorato di questo tornado ambulante.

Prima di registrare di essersi mosso, una mano si chiuse a coppa sulla mascella di Lance. Uno dei due stava tremando, forse entrambi. Si sarebbero presi un malanno.
I loro visi si fecero vicini.
''Lance...'' Un mugugno stordito fu ciò che ottenne.
Avrebbe voluto ringraziarlo per essersi sfilato la maschera in sua presenza, e di essere ancora lì, vivo, avviluppato nella fragilità che lo rendeva umano. Ma le rade lentiggini spruzzate alla rinfusa sul suo viso avevano un ché di ipnotico, e non potè più proseguire perché si perse, incastrato in quella polvere di comete, e non poteva, non voleva essere cercato.
Lance fece sfiorare i loro nasi, vezzeggiandoli in una coccola contenuta e, per qualche motivo, soave.
''Keith,'' soffiò, gli archi di cupido in rotta di collisione. ''fottiti.''

E ​oh. Oh.
Si stavano baciando, sotto quella cascata di ruscelli marziani filtrati dalle ninfee, e la galassia era vacante, e non esisteva mondo che avrebbe potuto ospitare il fuoco che gli stava divampando dentro.
Si baciarono come avrebbero dovuto fare sin da quel primo incontro, a scuola, quando Lance era andato da lui per presentarsi e Keith aveva finto che non gli interessasse, perché quando era nei paraggi si sentiva stupido e imbarazzato.
Lance gli circondò il collo con le braccia e le lasciò lì, a riposare morbidamente sulle spalle. Le mani di Keith vagarono sulla sua schiena e finirono presto sotto l'orlo della maglietta. Lì, la spina dorsale fletteva contro la pelle tesa e appiccicosa per via del sudore e della pioggia e gli plasmava i palmi con le vertebre in rilievo, un cornicione di ossa.
Keith realizzò quanto fosse dimagrito e il suo cuore vacillò. Lo strinse a sé con più energia, l'esigenza di approfondire il contatto che si faceva impellente. Non aveva idea di come si baciasse una persona, ma le labbra di Lance erano una calamita, e Keith intendeva morderle. Si appropriò del suo labbro inferiore, la voglia di martoriarlo che si trasformava in pratica.  La punta della lingua di Lance si intromise nella sua bocca e si scontrò con la sua in una breve lotta di predominanza. Keith sbuffò una risata e intrecciò le loro lingue a lungo e con rinnovato ardore, ebbro del gusto della saliva che si miscelava alla sua.

''Ecco che cosa succede, a baciare il figlio illegittimo di Apollo.'' valutò Keith quando dovettero separarsi per riprendere fiato.
''Cosa?'' Lance gli portò un ciuffo dietro l'orecchio e fece unire le loro fronti.
''Niente.'' ridacchiò lui.

Lance sorrise snudando i denti bianchissimi, e due fossette gemelle nacquero agli angoli delle labbra gonfie delle sue attenzioni.
Non era un ghigno, non era una curva che pendeva da una parte.

Era quel genere di sorriso da non dare per scontato. Un sorriso capace di sciogliere i ghiacciai e portare la pioggia su Marte.

 
* * *

 
Epilogo: Lettera di un figlio fatto di nuvole.
 
Hey mamà,
Come stanno tutti? Avvertire la vostra mancanza è diventata la mia costante. Certe volte il vuoto che mi porto dentro mi fa sentire come se potessi svanire assieme al ricordo dei tuoi abbracci, e del sorriso di papà, e dei picadillos che Abuela mi forzava a mangiare anche se cercavo di spiegarle di avere lo stomaco pieno. La cucina qui è pressappoco un disastro.
Penso spesso a Carlos, il mio nipotino. Sono andato via prima che potessi conoscerlo. Spero che sia bello quanto il suo tìo preferito.
Ci sono delle notti in cui sogno una mano dalle minuscole dita grassottelle chiudersi intorno al mio indice. Mi sveglio di soprassalto, ed evito di non guardarmi intorno perché so già che non riuscirei a vedervi. Non penso sarebbe opportuno parlargli di me, comunque, perché i bambini sono curiosi, e tu non sapresti come rispondere alle sue mille domande.
Vorrei che sapeste che sono vivo, anche se per molte settimane mi sono sentito più morto che altro, e che ho conosciuto delle persone che si stanno prendendo cura di me.
Sono pazzo di un ragazzo che si chiama Keith. Mi rivelasti, quando ero piccolo, che l'amore, l'amore vero, è in grado di favorire l'allineamento dei pianeti. Keith è più il tipo da smuoverli.
Non vedo l'ora di fartelo incontrare.
Ha fatto piovere per me, mamma.
 



 
 
N.d.a

Volevo fare un disclaimer, siccome per il compleanno di Lance giravano su Tumblr delle fan art con la pioggia come coprotagonista. Ci tenevo a sottolineare che non ne ho tratto alcuna ispirazione: l'idea mi frullava in testa da un bel po', ormai, solo che non sono riuscita a terminarla in tempo per il 28 a causa di imprevisti vari.

Ad ogni modo, rinnovo i ringraziamenti a chiunque sia arrivato fin qui. Significa il mondo, per me.
  
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