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Autore: baby80    12/08/2017    6 recensioni
Ho voluto immaginare un epilogo differente della puntata "accusa di tradimento". Cosa sarebbe successo se...
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Generale Jarjayes, Oscar François de Jarjayes, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sono passati due giorni dalla visita di Bernard, le giornate trascorrono lente, monotone, in un susseguirsi di azioni ripetute all'infinito.
André ed io a stento ci siamo rivolti la parola, giusto qualche frase di cortesia per decidere sul da farsi in determinate situazioni; chi avrebbe dormito nella camera da letto, quale frutto mangiare all'ora del desinare, quanto pane consumare per non rischiare di rimanerne sprovvisti. Lo stretto necessario. Nulla di più oltre quello.
O almeno fino a ieri sera, quando il caldo insopportabile, il fetore del quartiere e l'immobile prigionia alla quale siamo costretti, hanno spezzato le ultime fila di una corda già logora.
Fu la mia pazienza a vacillare per prima, durante la cena, frugale come ormai di consuetudine.
Sulla tavola ciò che più abbondava era il vino, di cui vi è una smodata riserva, che colmava i bicchieri fino all'orlo, il resto del pasto era composto da un paio di pere ammaccate e da del pane raffermo. La mancanza di cibo non mi dava pensiero, l'appetito ha abbandonato il mio stomaco dalla sera della fuga, ragion per cui nutrirmi è più un obbligo che un bisogno.
Mangiai a fatica il frutto che avevo nel piatto e non provai nemmeno a fare lo stesso col tozzo di pane, che cedetti ad André senza indugio alcuno.
La sua fame, invece, sembrava non trovare pace. Comprensibile per un uomo sano e robusto.
Da principio tentò di rifiutare il mio dono, asserendo che avrei dovuto sforzarmi, rimanere in forze, e mille altre parole che non ascoltai, finché anche lui smise di ciarlare, e cedette, vinto dai morsi del languore.

“Quando credi che tornerà Bernard?”
domandai prima di portare alla bocca l'ultimo pezzo di pera, così dolce da essere quasi stomachevole. Lo masticai più del necessario, rimandando il momento in cui avrei dovuto ingoiarne il boccone. E quando infine fui costretta a farlo, sentii le interiora rivoltarsi.

“Non saprei. Quando ne avrà la possibilità, immagino. Temi che mancherà la parola data?”

“No, certo che no...”
tentennai un poco, indecisa se tacere o proseguire.

“Ma...?”
mi sollecitò André, mentre poggiava le posate nel piatto ormai vuoto, concedendomi così la sua piena attenzione.

“Non mi piace dover dipendere da qualcuno, anche per le cose più banali. Come un pasto sulla tavola.”
riuscii finalmente a dar voce all'inquietudine che mi tormentava la mente, dall'intera giornata.

“Andiamo Oscar, hai sempre dipeso da qualcuno. La differenza è che a palazzo Jarjayes vi erano pietanze in abbondanza, ragion per cui non hai mai dovuto attendere per averle.”

“È vero, sono cresciuta con uno stuolo di servitori pronti a fare qualunque cosa al mio posto, ma ti sbagli, non è l'impazienza che mi turba.”
ribattei con una insolita tranquillità, che forse avrei dovuto temere, come la quiete prima del giungere della tempesta. E la reazione di André a quelle parole non fece altro che accrescere la mia ira. Mi guardò come era solito fare un tempo, con la medesima sfrontatezza della nostra gioventù; le mani sotto al mento, un sopracciglio inarcato e un mezzo sorriso pronto a schernire senza suono ciò che avevo asserito un istante prima.
Odiavo quello sguardo che era capace di pungolarmi la dove sapeva esservi già un prurito, così da condurmi al tormento. E quella bocca priva di riso, di verbo, eppure colma di sfida, nella propria sfacciata curvatura.

“Non sopporto che il mio destino sia nelle mani di qualcun altro! E si, mi sento in gabbia!”
confessai infine, battendo il pugno sulla tavola. Le posate tintinnarono nei piatti ed il vino prese ad ondeggiare pericolosamente all'interno dei bicchieri. La tempesta era dunque arrivata, ed ebbi paura di non poterla placare.
Presi un lungo respiro e parlai prima che potesse farlo André, perché se solo ne avesse avuto la possibilità mi avrebbe ferita come solo lui era capace. Scoprendo il motivo di quella mia irrequietezza. Una verità che avrebbe fatto male ad entrambi.
Decisi invece di accampare delle futili scuse, a discolpa di quel mio comportamento. Tutto pur di non confessare che si, sapere la mia esistenza in mani altrui aveva agitato i miei nervi, ma ciò che davvero mi turbava era l'incognita sul destino di André.
Ancora una volta, seppur involontariamente, stavo mettendo in pericolo la sua vita.
Il suo amore era così dannatamente forte da diventare cieco dinnanzi al rischio. E il mio amore? Era amore quello che credevo di provare per il compagno di una vita? Ebbi dei dubbi quella sera.
Il pensiero di dover restare un altro giorno in quell'appartamento con André mi spaventava da morire, così, allo stesso modo, immaginare d'essere distanti.
La sua presenza risultava quasi opprimente, al limite del fastidio, ma il saperlo lontano mi straziava le viscere.
Cosa mi stava succedendo? Quale follia si era impossessata della mia mente? Perché solo con la pazzia potevo dare un senso a quel delirio.
Ero terrorizzata all'idea di averlo vicino e al tempo stesso di non averlo accanto.
Mi portai il pugno serrato alla fronte, socchiudendo appena gli occhi, nella speranza di ricondurre in me un briciolo di buonsenso. Non vi riuscii. L'insensatezza o forse l'istinto di sopravvivenza, lasciò scorrere sulla lingua parole senza coscienza, concepite col preciso intento di sviare il discorso appena sfiorato.

“Perdonami non era mia intenzione alzare la voce, ma sono così stanca... Se solo potessi farmi un bagno, e togliermi di dosso la puzza di questo quartiere!”
l'insofferenza stava mutando ogni aspetto di me. Quasi non riconobbi la mia voce pronunciare quel lamento, così come il gesticolare delle mani, stizzito e frenetico.
Avrei voluto riacquistare il controllo, ma avevo ormai superato il limite di guardia, oltrepassando il confine del ciò che è buona creanza fare, e dire, e ciò che non lo è.
Ma in fin dei conti perché mai avrei dovuto preoccuparmi di mantenere una buona condotta, in quel luogo dimenticato da Dio? Sentii di poter essere inopportuna, fallibile e addirittura sciocca. Mi permisi d'essere indolente.

“Mi rincresce ricordarti che in questa parte di Parigi le case non hanno una camera da bagno, ma qualche volta anche i soldati desiderano darsi una ripulita. Nella corte interna c'è una tinozza, di solito è lì che ci si lava...”
mi informò André, con una insolita inclinazione della voce, indicando la piccola porta accanto al lavatoio della cucina.
Gli occhi seguirono il cenno della sua mano e le gambe ne calpestarono l'invisibile percorso, raggiungendo il cortile che aveva le dimensioni d'un salone dei palazzi nobiliari. E quel luogo, seppur all'aperto, mi fece sentire nuovamente in trappola. O forse ero io stessa, prigioniera della mia mente.
Osservai le mura delle abitazioni confinanti il nostro appartamento, molte delle quali non avevano scuri alle finestre, ma dei lembi di tessuto sgualcito e quella che mi parve semplice carta, unta da ciò che immaginai olio.
Il cielo si era già fatto scuro, illuminato soltanto dalla luna, piena, velata dalla calura di giugno.

“Quello è stato fatto per le signore che frequentano la casa...”
André si palesò d'improvviso alle mie spalle. Ciò di cui mi mise a conoscenza era una sorta di paravento. La costruzione era rozza, approssimativa, ma somigliante all'idea che doveva replicare; su degli uncini, alle pareti laterali di un angolo, era stata fissata una corda. Sulla quale, a sua volta, vi era agganciato alla bene e meglio un vecchio lenzuolo.

“L'acqua la si prende da quel piccolo pozzo, lo vedi? Laggiù, accanto al cumulo di legna. Sotto al lavatoio c'è un pezzo di sapone da bucato e una grossa pentola, per riscaldare l'acqua. Ma con questo caldo non credo sia necessario.”
la sua voce lieve giunse al mio orecchio con chiarezza, elencando semplici istruzioni come fosse stato un comando. Come io avrei fatto con i miei soldati.
Mi resi conto di quanta poca conoscenza avessi del mondo reale, o per meglio dire, d'una realtà dove come dicevano i latini Mater artium necessitas, “la necessità è la madre delle abilità”.
Ed io avevo molto da imparare.
Mi girai per ritrovare il viso di André, compii l'azione nello stesso momento in cui lui lasciò fuoriuscire un respiro dalle proprie labbra. Lo sentii posarmisi sulla gota, sulla bocca. Un alito caldo che assurdamente mi fece rabbrividire, intirizzendo ogni frammento di carne.
Sollevai lo sguardo per incontrare il suo, comprendendo ancor più chiaramente la diversità tra le nostre altezze. Priva degli stivali il divario tra di noi era più che evidente.
Provai uno strano senso di fragilità.

“Se tutto questo non ha avvilito il tuo desiderio di lavarti, io toglierei il disturbo. Sarò qui fuori a fare due passi lungo la via.”
così dicendo sparì nell'oscurità dell'appartamento, ed io rimasi li immobile, con la sola compagnia della luna e del calore estivo. O almeno così sperai.
Mi armai di buona volontà, decisa a vivere appieno la nuova condizione di cui ormai facevo parte. Seguii le direttive di André alla lettera, come si confaceva ad un perfetto soldato; presi il pentolone di rame dalla cucina e lo riempii con l'acqua che raccolsi dal pozzo in cortile. Poi mi diressi verso quella che sarebbe diventata la mia stanza da bagno, che consisteva semplicemente in una tinozza di legno ormai gonfio e scheggiato, grande a malapena per contenere un bambino.
Osservai il catino tentando di capire in quale modo avrei dovuto usarlo, finché non giunsi ad una scomoda soluzione. In piedi, il solo modo per farlo sarebbe stato stando in piedi. Esattamente come un cavallo, pensai.
Sollevai la pentola e ne versai il contenuto nella tinozza, quasi fino al bordo e controllai di avere tutto il necessario; sapone, straccio ed una ciotola. Non mi restava altro da fare se non togliermi gli abiti di dosso.

“È una follia. A Nanny verrebbe un colpo se mi vedesse ora...”
parlai ad alta voce, strappandomi un lieve riso al pensiero della mia vecchia governante. Lei che si era sempre premurata di mantenere la più rigida riservatezza attorno alla mia stanza da bagno. A nessuno era permesso entrarvi in mia presenza, all'infuori della sua persona.
Lei e il dottor Lasonne erano i soli ad aver veduto la mia vera natura, senza abiti, così come ero venuta al mondo.
Mentivo. Persino i miei pensieri mentivano. Qualcun altro aveva scorto senza consenso un briciolo della donna che ero, in un istante che rovesciò tutto, in me e nel mondo che avevo conosciuto fino a quel momento.
Scacciai quelle immagini e mi liberai degli indumenti, in fretta, senza indugio alcuno.
Infilai un piede dopo l'altro nel bacile, dentro l'acqua fredda che mi bloccò il fiato nel petto, ma fu un fastidio passeggero. Non trascorse molto tempo che inizia a bearmi di quella liquida frescura.
Mi impratichii velocemente, alternando un gesto dopo l'altro; insaponavo la pezza, la passavo sul corpo, tra i capelli, raccoglievo l'acqua con la scodella e la versavo la dove vi era la schiuma, sciacquando via la sporcizia e il malumore di quei giorni.
Gettai la testa all'indietro e lasciai scorrere l'ultimo fiotto di acqua sul capo, seguendo con i sensi il suo intero percorso lungo i capelli, la base della schiena, le gambe, per arrivare ancora una volta la dove era partita.
Guardai la mia figura con gli occhi della notte, trovandola uguale nella forma, e differente nel profondo. Forse fu la fresca umidità sulla pelle ad ingannarmi, o magari il profumo di pulito, ma in quell'ora sconosciuta della sera, mi sentii calma e libera da ogni preoccupazione.
Scordai mio padre, le conseguenze della fuga, i soldati rinchiusi nella prigione e perfino André.
C'ero solo io, esposta, indifesa, eppure forte come non sentivo d'essere da tempo.
Uscii dalla tinozza, spostai i capelli su di un lato e li strinsi ripetutamente tra le mani, liberandoli dall'acqua in eccesso, per poi ricondurli all'indietro, contro la schiena.
Non mi rivestii subito, preferendo il gaudio che, il mio corpo imperlato di minuscolo gocce d'acqua mi concesse con l'aiuto d'una lieve brezza, alla rassicurante difesa degli indumenti.
Il silenzio di quel luogo era quasi irreale, così dissimile dalla confusione che vi era nel quartiere a qualsiasi ora del giorno e della notte. Solo di tanto in tanto udivo del vociare, lontano, ovattato, proveniente dal davanti della casa.
Un frastuono improvvisò spezzò l'idillio, un gatto nella sua folle corsa urtò il cumulo di legname, facendo rovinare a terra un numero imprecisato di ciocchi. Mi parve il caso allora di ritornare in me, indossai i calzoni, la camicia, e fu poco prima di iniziare ad occuparmi dei suoi lacci che mi accorsi d'essere osservata.
Da una delle finestre d'un appartamento ad un piano superiore rispetto al nostro, scorsi una figura, nascosta tra il tendaggio logoro e l'oscurità della stanza. Da principio ne fui scossa, il rigido soldato che ero stata e che ancora risiedeva in minima parte in me si irrigidì, ma la donna che ero prese il sopravvento.
Abbassai la testa e i capelli mi celarono il viso, mentre le dita presero ad accostare i lembi della camicia e legarne i lacci, con estrema lentezza.
Permisi a quella misteriosa figura di guardarmi, priva di colpa e di vergogna, cominciando ad accettare finalmente la mia nuova pelle.
Quando rientrai in casa fui accolta dalla confusione della strada, nonostante l'ora tarda il sobborgo era più vivo che mai. Il caldo rendeva difficile poter dormire, i bambini diventavano irrequieti e i giovani smaniavano per qualche momento con i compagni o con qualche amore. Perfino chi era costretto a destarsi all'alba per cominciare il lavoro preferiva rubare qualche ora al sonno e concederne di più alla letizia.
La porta d'ingresso era aperta completamente, ecco spiegato il suono così nitido della via. Sull'uscio riconobbi la figura di André, di spalle, e poco distante quella di una donna. Lo vedevo gesticolare, come era solito fare quando si affaccendava a narrare un fatto, lo udii persino ridere e così anche la fanciulla che gli stava dinnanzi.
Camminai a piedi nudi per raggiungere l'entrata, con passo leggero ma deciso, e quando fui ad una distanza ragionevole non potei fare a meno di posare gli occhi sulla donna che avevo solo intravisto da lontano.

“Madame...”
mi rivolsi a lei con un saluto incerto, ignorando la sua età, la sua condizione, anche se mi parve giovane, ma avrebbe potuto essere maritata, per quel che ne potevo sapere.
Di rimando alla mia attenzione, mi rivolse un sorriso, un lieve cenno della testa e un semplice buonasera.
Era piuttosto minuta, di media altezza, i capelli castani raccolti in una acconciatura elaborata. Indossava un abito azzurro chiaro e un grembiale di ottima fattura, con bordi di quello che sembrava pizzo pregiato. Avevo già veduto qualcosa di simile, a Versailles si, sicuramente. Ma non mi riuscì di ricordare altro.

“Ho terminato, se vuoi...”
dissi ad André, accordandogli il permesso di rientrare. Si girò con indolenza, perso nel divertente cicalio intrapreso con quella sua spettatrice. Mi infastidii, ma non lo diedi a vedere.

“Oscar... si, certo... arrivo tra un attimo...”
si limitò a dire con il riso tra le parole. Poi vi fu un mutamento inatteso in lui, quando infine focalizzò il suo sguardo su di me.
Il sorriso gli abbandonò le labbra restituendo al suo volto la serietà degli ultimi giorni, e non potrei affermarlo con certezza, ma sembrò smettere di respirare.
Percepii addosso l'attenzione del suo unico occhio, posarmisi sul viso, lungo il collo, e giù verso la camicia. Non capii. Non subito almeno.
Abbassai il mio stesso sguardo e vidi ciò che lui aveva scorto; i miei lunghi riccioli stavano gocciolando piccole scie d'acqua, bagnando la stoffa sulla quale erano poggiati. Le macchie umide avevano reso trasparente l'indumento, rendendo esplicita la presenza della pelle nuda al di sotto.
Inspirai ma il fiato decise di non oltrepassare la gola, lasciandomi senza aria. Tentai l'impossibile e ritornai in me, mi congedai velocemente augurando la buonanotte ad André e alla sua compagnia.

“Buonanotte Monsieur...”
porse a sua volta i propri saluti rivolgendomisi al maschile, con tono flebile, la fanciulla di cui ignoravo il nome. Mi voltai in fretta, constatando che André era stato il solo a notare l'inconveniente della casacca.
Quella notte dormii poco e male.
Quando André rientrò ero di già a letto, le braccia incrociate sotto la testa e le palpebre sbarrare ad osservare il nulla. Lui si attardò in cucina per riordinare la dove avevamo cenato, ma qualcosa non andava. Vi era della tensione in ciò che stava facendo, le stoviglie sbattevano una contro l'altra, le sedie brontolavano trascinate senza riguardo sul pavimento.
Mi domandai quale fosse la causa di quella che aveva tutto l'aria d'essere rabbia, forse l'aver interrotto la conversazione con la donna senza nome? O semplicemente la mia presenza?
Appoggia il braccio sugli occhi, premendo così forte da procurarmi dolore, ma cos'altro avrei potuto fare per cacciare quelle parole che avevano preso a sussurrarmi alle orecchie?
Se solo mi fosse riuscito di dormire.
Maledissi la notte, falsamente silenziosa e maliarda, capace di sedurre con i dubbi più subdoli.
Tentai di ignorarla ma non fui abbastanza determinata. Ero oramai corrotta dalle tenebre e dalla sua nenia che quasi mi condusse alla pazzia.
Chi era quella fanciulla? A lei apparteneva il fattibello che trovai in quella stessa camera la sera della fuga? Era lei una delle donne per le quali era stato allestito il paravento nella corte?
La mente prese a figurarsi scenari torbidi ed immorali, i cui protagonisti erano André e la dolce ragazza minuta.
Ebbi voglia di piangere, ma ricacciai indietro le lacrime, provando a focalizzare l'attenzione su altro. Il frinire d'una cicala(1) venne in mio aiuto. Serrai gli occhi e ne ascoltai il suono, convincendomi che fosse un segno, una profezia; la cicala vive una sola estate, ma le sue larve rinascono in quella successiva direttamente dalla terra, facendo di essa il simbolo della resurrezione. O quantomeno era ciò che avevo imparato, nei miti e nelle leggende legati a quel piccolo insetto(2), e quella notte volli aggrapparmi ad una favola per placare il cuore.
Mi destai che era ancora scuro, udii i rintocchi di Notre-Dame, cinque, come le ore di quel nuovo giorno. Si dice che il sonno è portatore di buoni consigli, e se così fu, io non gli diedi ascolto.
La calma della sera precedente era ormai un fantasma lontano, come aprii gli occhi tutte le preoccupazioni tornarono a farmi visita. Il destino dei miei soldati e sopra ogni altra cosa, André.
Uscii dall'appartamento con gli stivali stretti contro il petto, li calzai solo quando mi trovai sul selciato della strada. Presi il nostro unico cavallo e lo spinsi al galoppo.
Dovevo raggiungere Versailles il più velocemente possibile.


Sono arrivata alla Reggia da pochi minuti e mi pare d'esservi stata lontana per anni. Il paesaggio è immutato eppure fatico a riconoscerlo, sarà per l'assenza di luce o per la fitta bruma che proviene dal terreno, ma provo una sinistra sensazione. Come se lo scenario che ho dinnanzi fosse il presagio di un imminente futuro. Il solo pensiero mi mette i brividi.
Smonto da cavallo e, dal cortile Reale, raggiungo l'ampio vestibolo ornato di colonne con molta facilità. A quest'ora del mattino chi risiede a Versailles è ancora nel pieno del riposo, ragion per cui la mia presenza è come quella d'uno spettro.
Cammino fino alla grande porta che vi è sulla destra e che conduce là dove desidero andare; alla Cappella Reale.
Marcio lungo la navata, calpestando il pavimento di marmo con passo quasi inconsistente, così da non farmi udire. Ma son certa che lei non mi sentirebbe nemmeno se entrassi qui dentro in sella ad un cavallo.
Ed eccola la, inginocchiata ai piedi dell'altare dedicato a San Luigi, col capo chino e le mani giunte in preghiera.
Sapevo che l'avrei trovata qui, sola, lontano dal chiasso della Reggia. Non è trascorso molto tempo dalla morte del piccolo Luis Joseph(3) e da allora la nostra Regina si raccoglie in preghiera, ancor prima del giungere dell'alba.
Dovrei onorare questo suo intimo momento col Signore, ma non posso attendere, la vita non può farlo.
Compio gli ultimi passi che mi distanziano da Maria Antonietta e seppure senza rumore lei percepisce la mia presenza.

“Oscar... siete voi...”
lo stupore ha alzato il tono della sua voce, facendo riecheggiare il mio nome tra le volte della chiesa. Prima ch'io posso fare anche solo un cenno, la vedo alzarsi dalla propria posizione ed avanzare nella mia direzione. Ed io mi ritrovo a prostrarmi dinnanzi alla sua figura.

“Alzatevi, non è il caso. In questo luogo io non sono nessuno. Dio è il solo davanti al quale doversi inchinare.”
ed io obbedisco, come ho sempre fatto.

“Oscar sono stata in pena per voi. Cosa vi è accaduto? Dove siete stata?”
è sempre bellissima la mia Regina, ma le ferite della vita le hanno lasciato dei profondi segni sul volto, ed una stanchezza che ha spento il bagliore che le illuminava lo sguardo.
Mi domando quante lacrime abbia dovuto mascherare col sorriso e le sciocche chiacchiere, e quante ancora ha versato, nella solitudine della propria anima.
Il cuore mi si stringe in una morsa feroce, immaginando il vuoto che sta riempiendo quello di questa piccola donna, che ha sulle spalle il destino d'un intero paese.
E se tutto ciò non bastasse, vi è anche la preoccupazione per me, che l'ha sinceramente angustiata. È facile comprenderlo dall'urgenza delle parole che ha liberato poc'anzi.
Vorrei poterla confortare ma prima di trovare il coraggio, è nuovamente lei a parlare.

“Oscar, perché siete fuggita? Ditemi la verità, ve ne prego.”
si avvicina con sveltezza, prende le mie mani e le stringe forte tra le sue. Dovrei rispondere alla supplica della mia sovrana, ma la sua richiesta è una farsa. Concepita da qualcuno che crede di conoscerne già la replica. Allora perché inscenare questa pantomima?
Cosa vorrebbe sentirsi dire? Che non è possibile vivere senza il proprio cuore e il mio è dove vi è lui, André.
Mi sciolgo dalla costrizione della sua presa, delicatamente.

“Datemi la punizione che ritenete più giusta, ma non domandatemi nulla.”
affermo risoluta, pronta a sacrificare me stessa per salvare colui che possiede una sola ed unica colpa. Amarmi.



(1) Cicadidae

(2) Questa interpretazione è una delle mie preferite: Platone, nel dialogo Fedro, espone il mito delle cicale, secondo cui esse sarebbero nate, per mano divina, dalla metamorfosi di antichi artisti, specie nel campo musicale e dell'eloquenza, che avevano smesso di mangiare e accoppiarsi per amore della propria disciplina.

(3)  4 giugno 1789 muore Louis Joseph Francois Xavier, conte di Viennois, all'età di 7 anni.
  
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