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Autore: L0g1c1ta    14/08/2017    0 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Il portone d’acciaio si spalanca lentamente.

L’apertura l’ha sentita, ma l’ha udita con fatica.

Il suo cuore continua ad impazzire, il suo cervello continua ad essere calmo.

La luce trafigge man a mano gli scalini profondi, tocca il pavimento polveroso. Il battito gli puntella le tempie. È strano: un battito non dovrebbe infastidirlo proprio al cranio e nelle membrane del suo cervello. A malapena sente il freddo e a malapena memorizza la figura del suo gemello invisibile a ridosso delle scale, seduto comodo sugli scalini, attendendolo con la caviglia penzolante per aria, nonostante sia stato sempre affianco a lui. Polonia guarda Polska con occhi pieni di lacrime, ma senza voglia di piangere. Il battito continua ad infastidirgli le tempie. Lo rende sordo. Comincia a far male. Ha pupille tentennanti e mortificate. Chiede un aiuto disperatamente, senza un filo di voce. Il più crudele alza il mento verso di lui, i suoi occhiacci non lo squadrano, bensì lo penetrano.

“Era ora che tornassi”

Polonia sente qualcosa muoversi dentro il suo petto, ma non riesce a registrarlo. Non sa cosa sia. Le lacrime gli offuscano la vista. Alza un piede, pesa come ferro e acciaio di mitragliatori. Lo poggia male, il suo peso si catapulta sul tallone insensibile e scivola.

Non ricorda nemmeno di dover chiudere gli occhi. Le lacrime di dolore sono una coltre di fumo, non vede nemmeno dove si ribalta. Ha sorpassato le scale ruzzolandoci sopra come spazzatura abbandonata. Oltrepassa pezzi di pavimento raschiato e il suo corpo lo ribalta a pancia in su. Non sa nemmeno di aver provato altro dolore. Il corpo invece l’ha registrato e incomincia a tremare, consapevole di quanto valga poco questo male rispetto a quelli di prima.

Non immagina di doversi alzare e stringersi nella sua cuccia. Non immagina nemmeno quanta forza potrebbe avere per tentare almeno di strisciare verso il suo riparo, probabilmente distrutto di nuovo dal sosia. La caduta non muove l’altro, il cinico. Polonia avverte e non avverte i suoi stivali adagiarsi sul pavimento accanto a lui. Polonia vede un soffitto irraggiungibile, l’altro vede un animale appena abbattuto, con occhi freddi, come un abile cacciatore. Resta lì, ad osservarlo e a torturarlo con gli occhi, Polonia non ha la forza nemmeno di pensare di fermarlo.

“Che occhi rossi che hai” mormora, fingendo o meno di interessarsi all’altro “Hanno fatto un casino di male, eh?”

La pupilla di Polonia diventa minuta come una puntina da disegno.

 

Urla. Scalci. Bianco. Luce. Troppa luce accecante.

Morsi. Ribellione. Negazione.

Ira degli altri.

Due. Tre mani. Quattro mani. Stringono braccia e gambe.

Urlo.

Puntura. Acido dentro le vene.

Frustrazione. Stanchezza. Muscoli fermi.

Ultimo urlo.

 

Il gemello ha visto la sua paura e il suo ricordo sbiadito. Il veleno nelle sue vene non lo fa agire. Questo bastardo sa tutto, pensa Polonia. Sa bene che lui è stato lì, ad osservarlo contorcersi come il peggiore dei vermi, anneriti di terra e lordura. L’ha guardato con interesse quando ha tentato di prendere il bisturi di uno dei pazzi. L’ha osservato deluso quando ha fallito nel pugnalare una di quelle tante mani.

Aveva paura, il piccolo Polonia. Si sentiva come quando era bambino, quando lo gettavano contro i muri e lo stringevano fino a farlo urlare di dolore. Quando nessuno alzava un occhio per aiutarlo, nemmeno per interessarsi a lui. Polonia si era sentito di nuovo un bimbo, quando i grandi ti squadrano con disgusto, come un figlio di nessuno.

Deglutisce, il sosia ha visto anche questo. Con la coda dell’occhio, punto senza lacrime, vede le sue labbra incurvarsi come una luna mangiata di tre quarti.

“Sai che è stato totalmente divertente quando ti hanno infilato quel coso nell’occhio?”

Polonia guarda in alto, proprio come guardava in alto quando l’hanno messo su quel tavolo e l’hanno legato. Non ha reazioni.

 

Petto calmo, battito regolare, tutto tranquillo. Ma il bianco è assordante, il silenzio è incomprensibile.

Camice bianco, mascherina sul volto, senza occhi, non vede nulla.

Occhi imbizzarriti, corpo immobile come cera: metallo lungo e sottile.

Incomprensione, palpebra forzata, per tenersi aperta. Cuore impazzito, confusione. L’ago d’acciaio fine entra sotto la sua palpebra aperta.

Freddo, panico, il corpo non risponde all’allarme e al pericolo.

Palpebra bollente, dolore.

Un martelletto minuscolo. Martella l’ago lungo e sottile.

Dolore. Voglia di urlare.

Qualcosa si spezza nella sua testa. Un frammento di cranio si sfalda del tutto. Crack.

Spaccato. Cuore battente, mente assente, un motore senza carburante da bruciare.

L’ago se ne va dal suo occhio. Lacrime salate, senza emozioni.

 

Non riesce più a provare nulla dopo quello che gli hanno fatto. Le sue emozioni non filtrano più, si sente congelato. Dovrebbe provare paura, dovrebbe urlare contro il gemello crudele, che ancora sghignazza accanto a lui. Si sente un’anima dentro un corpo non suo. Il suo corpo gli è ora ripugnante. Non si sente bene con questa carne smoderatamente mutata. Il sosia ha sentito anche questo. Allarga il sorriso, gli brillano gli occhi verdi.

“Però è stato divertente anche quando ti hanno tagliato la pancia. Il tuo cuore è tipo piccolissimo! Dovevi vedere anche i tuoi polmoni: si alzavano e si abbassavano veramente! Era totalmente forte!”

Polonia ha come un abbaglio, gli gira la testa.

 

Respiro regolare, battito leggero, tutto nella norma.

Si sente sperduto o abbandonato a morire nel nulla. Non ricorda nemmeno perché si trovi lì e perché il bianco sia così accecante. Il suo cranio scoperto non lo ricordava così scomodo come appoggio per il suo collo. Non hanno nemmeno un cuscino per lui.

Il sosia lo guarda e guarda ammirato il sangue nero pieno di ossigeno su i medici, su di lui e dentro di lui. Non lo vuole guardare. Si sente orribile. Non vuole essere guardato.

Uno di quelli tocca poco più sotto, dentro la cassa toracica. Sospira, nemmeno sobbalza. Battito accelerato. Battito regolare, tutto nella norma.

Il sospiro sfuggito fa cadere la sua testa dal lato inverso. Non vuole guardare se stesso interessato da tutto questo schifo.

Si sente male, vuole andare via da qui, vuole andare via e basta.

Scontra i suoi occhi dolenti contro altri dolenti e rossicci come i suoi. Questi che guarda sono vero rubino fuso. Non riesce a guardare altro e non prova a guardare altro.

Polonia guarda il nero di quella divisa e gli occhi falsamente duri di Prussia che guardano le sue labbra “Aiuto”.

Battito debole, battito assente. Rianimazione veloce. Elettricità. Shock. Un altro shock. Un altro ancora.

Respiro regolare, battito leggero, tutto nella norma.

 

Il gemello s’inginocchia e gli afferra il polso. Polonia sente solo aria soffocante attorno alla pelle scoperta e sotto la camicia strappata. Ascolta l’altro, dimenticandosi di doverlo ignorare. Vuole ogni cosa che non sia silenzio.

“Ti avevo detto di lasciar stare Liet” sussurro adagio, carezzando il nastro diventato meno che cotone strappato “Ti avevo detto di non pensare a lui. Ti avevo detto che non verrà mai qui e non ci verrebbe nemmeno per salvarti, idiota” getta il suo polso e per fortuna o destino la stoffa nera si poggia sulle sue labbra. Polonia dimentica persino di desiderare di baciarlo o di odorarlo. Questo brandello di cucito ormai non ha più l’odore di pino di Liet e non è più morbido come la sua mano o il pane che mangiavano nei suoi boschi di muschi e abeti.

Non ha più niente di Liet.

Il più cattivo dei due si alza da terra. Polonia guarda il suo mantello, come se fosse la cosa più importante in questo momento. Ha bisogno di lui, non vuole che se ne vada. Non vuole di nuovo il silenzio. Si strazierebbe le corde vocali per avere rumore. Vuole una voce per riempire quello che ha visto. Non vuole sognare quello che gli è successo. Il gemello lo guarda, senza sorriso, senza desiderio di calpestare ciò che è stato già calpestato.

“Tu mi detesti, Po, non voglio farti da radiolina da sala” si volta, guarda un frangente di uno dei suoi smeraldi spezzare l’aria in mezzo a loro “Stattene da solo”

E se ne va.

Polonia non fa altro che guardare il soffitto, dimenticandosi di poter osservare altro e non solo sopra di sé.

Il silenzio è penetrante, straccia le sue carni e gli fa sognare l’ago e l’occhio rosso e la pancia aperta e ora rattoppata come uno straccio e Prussia e il suo dolore.

Si sente male. Sogna dolore.

 

 

 

 

Lituania si stringe nella pelliccia della sua coperta. Continua a tremare, non c’è un alito di vento che non sia ghiaccio invernale. E’ inverno e fa maledettamente freddo. È inverno e per qualche scherzo hanno voluto avventurarsi nel bosco. Polska lo voleva, ricorda, voleva fare l’eroe tra loro i due. Voleva vincere la paura di se stesso. Liet non aveva detto niente, aveva accontentato l’amico, come al solito. E ora sono coperti di ghiaccio.

Si è fatto giorno, il mattino brilla dietro i rami coperti di neve, ma Lituania non se ne accorge. Non ha dormito, non ha mangiato. Non hanno cibo. Non ricorda nemmeno perché si trovi lì e perché Polonia abbia voluto fargli uno scherzo del genere. Perché abbia voluto dimostrargli di essere forte. Gli ha chiesto di cercare aiuto, fuori dal loro accampamento di stracci. Hanno perso i cavalli. Hanno finito la carne e la legna non prende fuoco. Hanno il freddo della tempesta passata quella notte.

Liet non ha fatto altro che aspettare Polska per tutta la notte. Ha dimenticato come aprire gli occhi. Si sono fatti brina, le palpebre, e non riesce più ad aprirle. Con fatica sente qualcosa, forse l’eco della bufera scampata. Sa solo che ha freddo. Pensa che Polonia sia scappato chissà dove. Forse si è perso anche lui. Trema ancora, cercando di togliersi il mantello di dosso e la neve che lo avvolge. Sente aghi di pino e neve tra i suoi capelli. Ha perso anche il nastro, le ciocche gli cadono sulla fronte, sulle palpebre.

Fa uno sforzo da eroe. Apre gli occhi. È dolore e luce accecante: il sole lo ha colpito in mezzo agli occhi. Si sente accecato e confuso. Si mette a sedere, cieco come un vero orbo. Le mani, agitate ed infreddolite fin nel midollo, si poggiano sugli occhi. Sente sotto i polpastrelli ciglia ingarbugliate, palpebre insensibili, ciottoli di fredda neve, incastrati fra ciglia e palpebra. Non riesce a liberarsene, non del tutto, fa del suo meglio, ma non si staccano tutte. I ciottoli sono come pezzi di carne sulla sua pelle. Li strappa e sente dolore. Sospira di frustrazione e confusione. È come abbagliato dall’incantesimo di una strega. Se ne libera, apre gli occhi, allontanati dalla luce sprezzante. Si chiede ancora dove sia il suo amico.

“Liet, sono tornato” non nota la voce debole, sente prima il tonfo sordo di fronte a lui. Alza gli occhi, ancora un po’ oscurati e li incrocia con quelli di Polska. Si sente meravigliato e ancora più confuso. Guarda il mantello unto di neve, gli stivali inchiostrati di fango e la stringa del cavallo che regge con una mano. Si concentra su quella, realizzando poco a poco. Questo cavallo è suo, comprende, preso da una scossa. Questo cavallo è quello che ha usato per viaggiare nella foresta. Quel povero animale lo guarda e sbuffa vapore intriso di neve e gelo. Polonia ha lo stesso sguardo rattristato della bestia, pensa Liet, guardandolo come un nemico ritrovato che come un amico.

“Hai trovato il cavallo” non riesce a dire altro, notando una faretra prima piena e ora svuotata di frecce. Vede l’arco, quell’arco che sicuramente è suo. Vede anche cosa ha fatto Polska per tutta la notte, mentre lui lottava col freddo e la fame, mentre lui se n’era scappato, senza voltarsi, senza dirgli nemmeno dove andasse. Liet sa che voleva fuggire e abbandonarlo lì. Lo sa bene. Polonia annuisce, coi capelli grinzosi che gli cadono sulle guance.

“Il mio è morto: è caduto da un burrone ed è ruzzolato a valle” afferma, triste, forse più addolorato per il cavallo che per lui, immagina erroneamente Lituania, ancora convinto e fermo sulla sua idea. Il suo è uno sguardo irremovibile e smorto. Polonia non risponde a quegli occhi: abbassa i suoi e si perde nella cinghia della faretra, stretta saldamente alla vita. C’è solo una freccia all’interno, quella che prima aveva almeno quindici, di frecce.

“Ho trovato da mangiare per noi” Lituania sente quasi per errore. Osserva le mani insolitamente adulte del ragazzo, le guarda voltarsi vero la sella del cavallo e afferrare tre piccole teste bianche, due incoronate di rosso, una integra e con un orecchio spezzato. Dei conigli, bianchi come nevischio e rossi come il sangue che hanno cacciato dalle loro teste. Uno di loro ha un lobo senza occhio. Polska ha cacciato con la sua faretra e il suo arco, comprende. Tra quindici frecce ha preso solo tre lepri. Lietuva guarda le mani esperte di Polska, che afferrano per le orecchie le tre creature senza vita. È ancora inespressivo, ma ugualmente perplesso. Polska non sa usare l’arco, ricorda perfettamente. Polska non sa orientarsi da solo. Polska non sa che per reggere un coniglio bisogna portarlo per le orecchie. Lo vede poggiarli a terra, di fronte a lui, seduto sulla neve. Guarda Polonia rialzarsi e incrociare con fatica gli occhi con i suoi. Il biondo gli divora le iridi, afferra. Polska non sembra lui.

“Po, tu non sai usare l’arco e non sai cacciare” Polonia annuisce, con occhi caldi e profondi. Lo guarda come si guarda un amico ritrovato “Non sai nemmeno come scoccare una freccia senza di me” l’altro continua ad annuire, gli si fanno gli occhi pieni dell’altro. Lituania annuisce lui stesso e sospira, più adulto e consapevole. Rialza gli occhi e guarda Polonia, con occhi ombrosi “E tu sai che questo non è mai accaduto”

“Lo so” dice, senza annuire, senza sforzarsi nemmeno di non far uscire una lacrima. Ne cade una, la cosa più bollente di questo baratro bianco. Lietuva pare un uomo e non un ragazzino. Non batte nemmeno ciglio.

“Tu in realtà te ne sei scappato e mi hai lasciato qui per due giorni”

“Lo so” cade una seconda lacrime.

“Ti eri dimenticato di me e te n’eri tornato nel castello. Non avevi chiamato aiuto e non mi avevi cercato”

“Lo so”

“Tu non hai mai fatto questo. Tu non sapevi cacciare e non volevi farlo”

“        Lo so” piangono i suoi occhi, ma la voce rimane inflessibile. Lituania è un altro, un ragazzo che non conosce, ma che gli ricorda molto lui. Ora abbassa gli occhi, consapevole di tutte queste risposte. Nessun altro conosce Polonia meglio di lui. Si alza, come se tutto ciò che gli era accaduto questa notte non fosse mai successo. Sospira, incrocia i suoi occhi bui con quelli bollenti di Polska. Non cede, trattiene più che può le lacrime: avendo pianto tanto ormai sa come governarle. È ugualmente fiero di lui. Scivola alle sue spalle, così come scivola la mano del ragazzo dalla cinghia del cavallo. Lituania continua a camminare nella neve, ma Polonia non si volta. Sente ugualmente il suo respiro liberarsi e farsi padrone del pianto. Lituania volta piano la testa, guarda l’altro con la coda dell’occhio.

“Non mi cerchi?” esitazione, Polska nega con la testa, veloce, perdendo compostezza “E allora che fai ancora qui? Non ti perdono, Po”

“Non mi aspetto il tuo perdono” singhiozza la vocina dell’altro. Ha ceduto in parte. Lituania è ugualmente fiero di lui.

Si avvia e lo lascia.

 

 

 

 

 

Polonia sente freddo e amaro nel palato, fino alla gola. Si sveglia, ubriaco di malinconia. Un altro sogno cosciente. Apre gli occhi, è ancora ancorato al pavimento del buco. L’aria è fredda, come nel suo sogno. Alza con fatica la testa, capisce di non riuscire ancora a muoversi. Si sente parte del legno sotto la sua schiena. La finestrella la vede con fatica. Entrano lucciole bianche da fuori. Non sfiorano Polska, ma capisce quanto siano ghiacciati. Dev’essere inverno. Ha freddo. La luce è biancastra, vede a malapena cosa dovrebbe esserci fuori. Dopo essere uscito da qui, dopo essere finito in quell’ospedale, forse un ospedale, e dopo avergli aperto la pancia, riesce a vedere attraverso il bianco. Ha un brivido lungo la schiena, sobbalza tutto il corpo.

Bianco. Siringa. Martelletto. Non vuole ricordare: è troppo orribile.

Batte le palpebre, crede di aver sentito qualcosa. Era un rumore ovattato e debole. Lo sente ancora. E’ ripetuto, irregolare. Passi leggeri sulla neve. A Polonia viene in mente il suo sogno. Nella luce tenue del mattino vedeva gli occhi severi di Liet. Era deluso da quello che era accaduto veramente. Si passa la lingua tra le labbra: ha dormito con la bocca socchiusa e ora sente un sapore secco sulla lingua. I passettini sono più decisi. Si stanno avvicinando. Polonia guarda attentamente la finestrella, non riuscendo a vedere altro che la sua luce. Sa chi è.

Vede degli zoccoli di legno, sa che sono zoccoli, gli stessi che dovrebbe indossare anche lui e che ora sono, forse, nella sua cuccia ancora rovinata. Sono troppo grandi per quei piedini. Istintivamente guarda i piedi del tavolo. C’è il pallone rovinato che ha aggiustato con un chiodo e del filo. Ora che riesce a vederlo meglio lo trova ancor più insignificante. È un lavoro orribile. E quella bambina lo vuole a tutti i costi. Erano tre pasti, ricorda, in cambio della palla. Lei gli deve un'altra ciotola di zuppa.

De sibo…?” sente mormorare, piegate leggermente le caviglie. Per la prima volta Polska vede le sue caviglie. Non le immaginava così ossute. Una manina, scambiata per un secondo per un garbuglio di ossa, si fa largo dentro la finestrella. Polska vede la sua mano per la prima volta. La trova ripugnante. Incrocia le sopracciglia, disgustato dal suo stesso pensiero. Deglutisce, prova a rialzarsi, anche se sa che è inutile. Non ci riesce, le ossa non lo aiutano.

De sibo?” chiede, senza più paura. La manina si ancora alla pietra. Si muove il corpo e la camicia a righe. Sbuca una testa. Polska sobbalza dentro di sé. Vede un occhio uscire prepotentemente dalla pelle del cranio senza peli o capelli, senza sopracciglia e con rughe. Rimane sbigottito, gli si mozza la lingua, non vuole che sappia che sia lì, quell’affare spaventoso. La ciotola di zuppa si mostra, non notata minimamente da Polonia. L’occhio si avvicina di più al buco, chiudendo tutta la luce. Anche se di fronte a sé, la bambina non lo vede. Serra gli occhi, terrorizzato da una bambina.

De sibo? De sibo!” alza un po’ il tono di voce. È preoccupata per lui. D’un tratto il corpo di Polska si fa morbido. Riapre gli occhi, socchiusi e terrorizzati prima. Vede qualcos’altro. Immagina quel cranio scavato pieno di riccioli biondi, vede un vestitino rosa addosso a lei, con merletti e fiocchetti. Vede più carne e meno ossa. Vede un occhio color torrone e non brunastro. Polska sente il cuore pesante come un macigno. Ha chiesto del cibo ad una bambina senza niente. Quella lo cerca ancora, si agita sul posto, fa cadere neve dentro il suo nascondiglio. Polonia si vorrebbe scavare una fossa e seppellirsi dentro.

Nessuno dei due ha sentito i passi pesanti.

La bambina sobbalza da terra e, come un gemello, Polonia fa lo stesso. La ciotola di zuppa viene raccolta da una mano guantata e nera. La piccola viene sollevata, capisce. Sente ossa gettate contro il muro. Un brivido di panico raggiunge il midollo delle sue ossa. Non si muoverebbe nemmeno se potesse. Vede ora caviglie senza carne. Chiunque abbia preso la bambina ora le sta gridando contro. L’altra ha la voce minuta, non sa che dire. Parlano una lingua sconosciuta. Polonia ascolta, non capisce nulla, ma avverte il pericolo. Riconosce entrambi gli urli. L’uomo urla, di rabbia, la bambina urla, di terrore. Polonia rimane a guardare la finestrella, col cuore galoppante e le carni insensibili.

De sibo!” capisce nella sfilza di parole mai sentite “De sibo…!” urla all’uomo che non comprende e non vuole comprendere. Polonia sente lo stomaco rigirarsi tra gli altri organi. Sente la saliva acida. Sta per vomitare tutto ciò che non ha mangiato. Sente singhiozzi. Le caviglie vengono sollevate. La bambina urla. Ossa gettate contro il muro. Le pareti della sua tomba si muovono come prese vita. Polonia sente la schiena muoversi a ritmo. Gli occhi sono ancora concentrati di fronte a sé, la bocca socchiusa. Urlo infantile e acuto. Schiocco di un arma. Ricarica di un proiettile. Polonia capisce. Gli occhi si spalancano. La bambina non sa dove scappare. Si volta disperatamente. Vede la finestrella aperta e spera di passarci attraverso. Polonia lo sa: nemmeno un cane ci potrebbe passare. Non vede l’occhio, non vede un corpo. Un braccio tutto ossa, dita e sporcizia si tendono verso il buio, verso di lui. Lui contrae le sopracciglia. L’ha visto.

De sibo!” urla.

Sparo di un fucile. Il corpo si è mosso, si è mossa la parete, ondeggia il pavimento sotto la schiena di Polonia. Fa l’eco lo sparo dentro il buco. La mano è morta, eppure continua ad avere spasmi, continua a dare vita. Il polso si contorce, sbatte contro il muro, le dita si spezzano. La mano smette di fare ciò che non potrà più fare e si arresta. Polonia guarda ancora lassù. Lo stomaco si arresta. La saliva non ha sapore. Non vuole vomitare, non vuole e non deve. Gli trema il labbro. Non riesce a crede che una bambina sia morta qua di fronte a lui. Per una ciotola di zuppa. per un pallone rattoppato. Lo stomaco si contrae di nuovo. Sente acido salirgli per la gola. Serra i denti, chiude gli occhi, respira profondamente. Cerca di fermare la nausea. Non deve vomitare e non deve piangere.

Altri passi, dove la bambina è morta. A Polonia batte il cuore: i passi sono prepotenti. Li segue con lo sguardo. Guarda il suono come se si potesse realmente vedere. Gli occhi verdi percorrono il muro della sua cella. Lo spigolo. Le scale e la porta. Ingoia gli ultimi battiti terrorizzati e accetta quelli più distruttivi: i passi si sono fermati alla porta. Non la vede, ma la sente. Chiunque abbia ucciso la bambina ha spalancato la porta. Il rumore secco sbatte addosso ai muri, fa tremare la sua schiena. I passi scendono la scalinata. Polonia vede stivali neri di soldato e pantaloni scuri. Sbarra gli occhi, il freddo alla schiena si placa.

Prussia guarda dritto di fronte a sé, non gli cadono gli occhi nemmeno per un istante. Non ha palpebre, non batte gli occhi. Quello sguardo non lo mai visto addosso al prussiano. Il freddo alle osso si tramuta in calore. Il comandante smette di far tintinnare le medaglie al petto, moltiplicate più di prima e abbassa gli occhi verso il pavimento, verso Polonia. Lo guarda, ma non lo vede. Polonia lo guarda e gli s’infiamma l’anima. Prussia pare deglutire e battere per la prima volta gli occhi. Si spezza il gelo attorno a sé, vede nel ragazzo qualcosa che lui non vede.

“Ti doveva portare questo, no?” gli occhi di Polonia rispondono per lui. Guarda la mano guantata e vede la ciotola di legno. Gli s’inclina lo stomaco. Prussia guarda attraverso Polonia. Non incontra i suoi occhi “Meglio che la mangi prima che si raffreddi-…”

“L’hai ammazzata tu” sibila. La voce di Polonia infastidisce Prussia. Gli infastidisce il tedesco sulle labbra del ragazzo. Gli occhiacci rossi si ingarbugliano fra gli occhi fermi del prigioniero e il pavimento. Non sa dove guardare. Si sente pesante come un macigno.

“Non mi devi parlare in questo modo, bastardello!” ruggisce e sbatte lo stivale per terra. Polonia dimentica chi è Prussia. Mostra i denti. Ruggisce anche lui.

“Perché l’hai fatto?!”

“Non doveva farlo! Non doveva violare il regolamento!” ruggisce ancora, muovendo la mano vicino alla tempia, come se pulsasse tanto da rischiare di esplodere. Al ragazzo si mozza la lingua. Gli s’incrinano le sopracciglia. Guarda l’uomo come se non lo conoscesse. Non riesce ancora a credere che l’abbia fatto. Quello abbassa la mano dalla tempia pulsante: fa ancora male, ma non può calmarsi ora. Ricorda di avere una mano occupata. Guarda la zuppa nella ciotola e lo disgusta. Per un attimo si chiede perché ce l’abbia in mano. Deglutisce, odia stare qui, con Polonia. Si è già pentito di tutto, eppure tutto gli si sta ritorcendo contro ancora. Con la mano sgarbata, mostra al più piccolo la ciotola. Polonia la guarda, confuso e nauseato. Non deve vomitare.

“T     u te la mangi” alza gli occhi verso i rossi di Prussia, incredulo, confuso, disgustato, pentito. Scuote la testa con rabbia, si rende conto di riuscire a muovere soltanto il collo e le palpebre.

“Non la mangio!”

“Sì, tu te la mangi, altrochè!” e gli si getta al collo.

Polonia ricorda chi è Prussia e perché dovrebbe avere paura di lui. La mano nera gli si accanisce al collo. D’istinto chiude gli occhi. Ricorda di non riuscire a muovere un muscolo. La mano stringe forte. Chiude la bocca, ma non riesce a fare altro. Chiede aiuto alla mano, ma non si muove. Chiede aiuto al piede, ma non vuole muoversi nemmeno lui.

“Apri questa cazzo di bocca!”

Polonia stringe di più i denti. Gli batte forte il cuore. Nemmeno le dita riescono a sollevarsi. Non vuole vedere. La mano stringe un punto sensibile dietro al muscolo. Polonia sente un disturbante dolore. È come un ago poco affilato che tenta di infilzargli la carne, senza riuscirci. Polonia non ce la fa. Non riesce a respirare. Gli si blocca il naso. Lo stomaco scalcia nella sua pancia. Apre la bocca, vuole aria. Prussia trova l’occasione e gli getta tra i denti il legno della ciotola. Polonia ha dolore ai denti, li allontana dal legno, cacciato fin dentro la gola. Non respira. Sente liquido scivolargli dentro la trachea e i polmoni. Vuole aiuto dalle sue braccia, ma non fanno nulla. Vuole combattere, ma non reagisce.

“Dai, mangia, so che lo vuoi” mormora il sosia, mentre pezzetti di cibo gli si incastrano nella gola. Non ci riesce, lo stomaco si ribella. Prussia si allontana, con la ciotola vuota e pochi rimasugli di patate invernali e carote ammuffite.

Polonia rigira il collo a terra e vomita.

 

 

 

 

 

Non ha più acqua in corpo. Se ne rende conto passandosi la lingua sulle labbra. Ha sognato di nuovo un frammento di memoria mai accaduto. Deglutisce, non ha più saliva e ha la gola in fiamme. Muove le dita, gli gira la testa, non ha più nausea. Prussia l’ha lasciato lì e non ha voglia di muoversi. Il suo vomito non puzza e sembra più saliva e acido che patate e minestra. Quella zuppa la odia.

Dalla finestrella passano debolissimi raggi di luna. Il braccio della bambina resta ancora lì, a ciondolare giù dalla finestra, con una cascatella di sangue rappreso che macchia la finestrella, il muro, il tavolo e le sedie, fino a terra. Non sa nemmeno il nome della piccola. Non sa nemmeno che lingua parlasse. Non sa che Nazione la rappresentasse. Forse nevica fuori, ma non capisce bene. Muove i palmi delle mani e si tira su dal pavimento. I gomiti schioccano, intorpiditi. La spina dorsale gli duole fin alla nuca. Che schifo, che male. Si siede. Non guarda il braccio della bambina e non vuole vedere la cosa disgustosa che ha vomitato e sputato.

“Perché lei è qui?” il sosia sente il suo mormorio, ma non si muove, né gli occhi vogliono tendersi verso il nuovo ospite. Guarda Polska come si guarda un bambino capriccioso. Ma Polska non ha capricci. Polska è solo stanco ed esausto di stare lì. Polska accetta la sua condanna, ma non le sue punizioni.

“Perché ti voleva totalmente vedere. Cioè, dopo tutti questi anni vorrà sapere come ti sia tipo-…”

“Non voglio parlarle”

Non la guarda, non la sfiora nemmeno con la coda dell’occhio. Si alza. Le ossa scricchiolano dopo ore ed ore di immobilità. Le ginocchia si stirano con così tanta forza da fare eco, in quel buco. Guarda il suo mucchio di stracchi che faceva da letto e gli sembra tutto ciò che è meno confortevole in questo posto. Sfiora le sedie con le dita e cammina ancora. Non crede di riuscire a rimanere fermo per altri minuti. Ma non può nemmeno voltarsi, la guarderebbe senza dubbio. Poggia la fronte al muro. Respira come non ha mai respirato prima. Non sa più cosa siano le lacrime.

“E perché, Po?” chiede l’altro, senza emozioni. Polska gli risponde, ugualmente senza anima.

“Perché mi ha abbandonato” Perché la odio, risponde con severità dentro di sé. Lei l’ha lasciato e ha sposato un altro. Per lei, da bambino, avrebbe dato il mondo nelle sue mani. Per lei si sarebbe inginocchiato di fronte al Signore per unirsi a lei. Ma lei l’ha lasciato. È stata la tua ingenuità a farla scappare, trilla una voce dentro di sé. Polska si meraviglia che questa vocina esista. Non sente passi o schiocchi scocciati di lingue.

“Davvero, Po?” sogghigna “E perché dovrebbe essere qui, se non ti vuole?”

“Perché… mi vuole…” …umiliare, si risponde nel cuore, già di per sé umiliato. Sente l’anima lasciargli il corpo, non ha più forze per fare tutto questo, non ha più forze per farsi ancora così male. Perderà la testa se gli succederà altro di orribile, ne è certo. Puro velluto tocca le sue braccia. La sua mano di fanciulla gli carezza la pelle scoperta dalle maniche della camicia. Sospira, sta per perdersi. Sente l’anima strapparsi del tutto da sé. È solo un corpo pieno di passioni. Vuole carezze, vuole baci, vuole conforto dopo questo Inferno. Vuole la pace. Alla carne non si nega. Si sente circondare da braccia. Lei lo abbraccia. Il sosia sorride, sa bene che sorride, lo vede nei suoi pensieri, nelle sue riflessioni. La parte marcia del suo cuore. Quello sogghigna, nel suo orecchio.

“E tu la vuoi, Polska?” le labbra bianche di lei schioccano sotto il suo orecchio, a raso sulla pelle, ma vorrebbe tanto che lo avesse sfiorato per davvero. E gli si apre la memoria. La ricorda coi suoi riccioli neri, ricorda come profumava di pesche, ricorda gli occhi, zaffiro scuri, che lo guardavano e brillavano, era certo, che brillassero come gemme. Polska sa che non è vero, ma vorrebbe che sia vero. Ricorda anche come abbia voluto baci e carezze da lei. E lei, maledetta, se n’era fuggita. Polonia ricorda di aver perso Lituania, di aver ucciso una famiglia intera, di aver portato alla morte una bambina e di avere una pancia cucita tristemente, aperta senza alcun motivo. Dopo tutto questo non ha più motivo di vivere. Ma non vuole nemmeno morire.

Se si volta si perde, lo sa. Ma Polonia vuole perdersi. Vuole morire nella carne di quella che lo ha ucciso da bambino. Si volta, non la guarda nemmeno.

Si, la voglio.

Le serra le guance fra i palmi ruvidi, contro la sua pelle di seta. Chiude gli occhi. Cozza le sue labbra strappate contro le sue di pesca. Lei non si muove, non reagisce. Forse voleva ribellarsi debolmente, forse voleva riavere il respiro smorzato, ma socchiude le labbra. Lui getta la lingua dentro la sua bocca. È umido, è caldo, è bollente. Sente il suo stesso alito vomitevole in quello della ragazza. Non vuole che scappi e la stringe con più forza alla carne morbida delle braccia. È più bassa di come la ricordasse. Non ha più il vecchio profumo di pesca. È cambiata.

Polonia è rigido, inesperto, rabbioso. La fa arretrare e la sbatte per terra, insieme agli stracci del suo letto, insieme a se stesso, caduto addosso a lei. La vuole, si fa fiamma e fuoco maligno. Si sente accaldato. Rigira la lingua secca e nauseante nella sua bocca. Non deve andarsene più. Non deve fuggire, non deve abbandonarlo come ha fatto e come altri hanno fatto. Sente le fiamme percorrergli arterie e vene. Sta sudando. Allunga la mano e la tende al suo petto. Vuole spogliarla e poi spogliarsi. Questi stracci saranno la sua alcova e lei sarà sua. Tira indietro la testa, respira con affanno che non ha respirato affatto finora. Le guarda il petto: le ha strappato il corpetto. Le ha scoperto il seno giovane.

Ha uno scatto, le guarda il volto, ha ricordato qualcosa. Si fa bianco come la pancia di un pesce. L’anima gli ritorna in corpo. Vede sfregi sul suo viso, che lo ricordava immacolato come quello della Vergine. Non ricordava quelle labbra spaccate, né i capelli crespi, né le guance infiammate. Né un occhio cieco e chiuso. Il fuoco nel ragazzo si spegne del tutto. La guarda sconvolto. Vede lacrime nei suoi occhi, anche nel cieco.

“Sono morta giovane, Polska!”

Rimane ancora immobile a contemplarla e si alza in piedi, quasi dimenticando quel che aveva intenzione di farle. Non riesce a farne a meno, è un istinto potente: le guarda il seno. Vede un neo scuro, tondo e schiacciato, come il petto infantile. Deglutisce. Ricorda la verità che scoprì da bambino. Ricorda una lettera di un soldato che conosceva. Vede fiamme, un rogo, delle urla mai viste, ma sempre immaginate. Ricorda il suo pianto e la vergogna che aveva di se stesso. Lei piange e si rialza a fatica, con la veste cucita di stracci, come quella dei carcerati e degli impiccati. Si copre il petto con le braccia. Si vergogna di sé.

“Mi hanno presa per strega e mi hanno bruciata viva!” mormora “Per colpa tua, Polska! Per colpa tua!” sente le sue spalle contro al muro, contro un vero muro. Allarga i piedi, si sente piccolo come un insetto. Non riesce a scrollarsi gli occhi dalle figura di lei, che cerca di coprirsi, di sfogarsi. Polska non ha parole, Polska sa che ha sbagliato e dentro di sé sa che è vero “Non esisto più ora, Polska! Sono solo cenere e nient’altro!”

Non sai nemmeno il mio nome.

E muta in vera cenere.

La sua figura diviene un mucchio di smog e polvere di stelle nere. Quella nube crudele si ingrossa, si arriccia su se stessa. Si gonfia come una nube ricolma di pioggia e lampi. E si getta addosso a Polska. Polonia chiude gli occhi appena in tempo e si para con le braccia, come se avesse di fronte a sé un reale nemico. La nube è bollente e inabissale. Si sente bruciare anch’egli, come prima bruciava di una passione violenta e sbagliata. Polonia si pente anche di questo. La coltre di fumo pare passata o perlomeno è andato via il suo calore asfissiante. Per poco non soffocava. Polonia inghiotte saliva aspra e resta con le braccia alzate e gli occhi stretti. Non sa cosa gli accadrà se aprirà gli occhi.

Gli occhi bruciano sotto le palpebre: vede luce, la nebbia di cenere se n’è andata per sempre. Riesce a respirare aria pulita. L’aria profuma di gelsomino e lillà. Sa anche di quercia e mandarino. Non sa da dove venga questo profumo. Con le mani ancora tese di fronte a sé, tocca qualcosa. No, qualcosa tocca i suoi palmi. Li stringe e li tira a sé. Polonia è talmente confuso ed ammaliato che non protesta, anzi, apre gli occhi.

S’illumina di immenso.

“Polska, sono io, sono Jadwiga”.

La guarda.

Guarda le mani che hanno le sue, pulite ed esili. Guarda i capelli di miele. Guarda la tunica turchina. Guarda gli anelli e le pietre alle sue dita, i ghirigori dorati della sua veste, guarda tutto e non vede niente. Guarda il sorriso estendersi e si sente vinto dalla lama di un nemico.

“Polska, passeggiamo un po’, ti sentirai meglio”

Si lascia trasportare. Polonia si sente sordo, muto e cieco un'altra volta nella sua vita.

Gli fa vedere un giardino che non ha mai visto in tutta la sua vita. Pare una valle interminabile. Vede alberi e boschi che non ha mai conosciuto. Le passeggia affianco con la mano nella mano. Vede un cielo sereno e poche nuvole ad ombreggiarlo. Si sente increspato di gigli e azalee. Il suo letto di stracci non sembra esistere più. Non esiste più nemmeno l’aroma raccapricciante della terra e dei suoi sali, della polvere e della fame. Coi piedi scalzi sente terriccio ed erba verde. Si sente… calmo, come per miracolo, dopo chissà quanti giorni e settimane di lacrime. Si sente… felice.

“Polska, non mi parli?”

Ritorna la vista e l’udito, eppure la lingua è ancora mozza. La guarda e si sente ammaliato, così com’era ammaliato quando l’aveva vista in fasce, quando la rincontrò da bambina e quando crebbe più in fretta di lui. Nulla è cambiato nel suo cuore per lei. Ne è sorpreso e contento. Per lui la ragazza senza nome era principessa e poi strega, per lui ora Jadwiga è regina ed è ancora regina. È semplicemente felice che la sua mente non sia stata dispersa dai mali e dai ricordi. Per lui è ancora Vergine bellissima.

La guarda e le poggia la tempia al ventre. Non sa perché l’ha fatto, sa che ne ha bisogno.

“Polska, piangi, non ha importanza” ride la sua voce, senza deriderlo. Gli occhi si liberano dalla cenere e dal buio di quel luogo dov’è stato finora. Piange senza voce. E si libera di un peso ben più pesante delle sue stesse sofferenze. Finalmente piange di felicità.

 

 

 

 

 

“Vivi qui, Jadwiga?”

“Sì, questo è il mio giardino. Finalmente ho un ospite insieme a me”

“Mi sei mancata tanto. Non sai quanto…”

“Lo sapevo, Polska”

“…Mi guardavi da qui?”

“Sì, tutti i giorni”

“Come… come mi avevi promesso”

“Sì, Polska. Ho pregato per te da quando venni qui”

 

Non ha portato con sé le sofferenze del parto, né la freddezza di un corpo debole. Sembra ritornata come la ricordava. Polska è fiero che la propria memoria sia tanto ferrea.

Non ha cuore per rovinare i fiori o per strappare rami dagli alberi. Vuole solo stare con lei il più possibile. Le si stringe alla gonna come un bambino a quella della madre. Chiude gli occhi e dorme, con la sua mano ad accarezzargli il capo rasato.

 

“Perché mi hai portato qui? Questo… questo non è il posto dove dovrei stare”

“No, è vero, Polska. Non sei ancora pronto per stare qui con me. Però non è ancora troppo tardi. Sono qui per ridarti nuova vita”

 

La collina che hanno raggiunto non è affatto ripida come si aspettava a valle. Si sporge, guarda in basso. Sembra una montagna, eppure la scalata è stata veloce. Jadwiga lo richiama, vuole che si avvicini a lei. Polska si volta, si fa di nuovo piccolo come un cucciolo. Le si fa vicino, la guarda negli occhi.

Lei si fa raggiante, sorride, avvicina le labbra alla sua fronte e la bacia.

 

“Devi dimostrare di amare, Polska. Salverebbe la tua anima e soprattutto la tua coscienza. Questa ti ha veramente fatto toccare il fondo del peccato. Devi sdebitarti con essa”

“Come posso dimostrartelo, Jadwiga?”

“No, Polska, non devi dimostrarlo a me, ma a te stesso. Sei in pena con te stesso, soltanto tu sai come dormire in pace”

 

Gli lascia le mani. Polska la lascia e si fa lasciare da lei. Lei si volta e, così com’è apparsa, come un miraggio straordinario in un deserto, scompare nella luce dov’è apparsa, con la veste che si fa parte di cielo zaffiro. Polonia si lascia trascinare per terra, non per lo sconforto.

Si tira le ginocchia alla pancia, solo ora si vergogna di essersi fatto vedere vestito come il peggiore dei miserabili. Poggia la fronte sull’osso e sospira in sé.

 

“Come? Con chi?”

“Lo sai bene”

 

 

 

 

 

Tira un forte vento su questa collina. Ulula selvaggio nelle sue orecchie e fra i suoi capelli. Ha voglia di fare il maldestro, il vento, e glieli agita sul viso. È tempestoso come un dannato oggi e vuole che anche altri siano turbolenti quanto lui: nuvole, alberi, erba e vesti di persone. Anche le sue. Eppure non gli tocca affatto ciò. Gli piacciono le urla sorde della corrente. Gli piace stare sulla collina e nient’altro gli importa ora. Guarda in alto, c’è solo una nuvola in cielo. Vorrebbe che fosse il tramonto, sarebbe maestoso da quassù.

“Hey, hey…” mormora Polska, rilassato “Hai qualche storia interessante sulla tua capitale?” Lietuva si volta, con capelli ancor più imbrigliati dei suoi. Avrebbe potuto portarsi il nastro, ma se n’è dimenticato. Gli occhi azzurri lo scrutano interessato, le ciocche castane volano sulle palpebre.

“Uh? La nostra capitale?”

“Già, la vostra capitale” annuisce il biondo “Ho capito che chiedere qualcosa alle persone è un buon modo di ascoltare storie. È tipo un trucco inventato da me” Lituania rimane in silenzio per un po’. Questa domanda l’ha preso di sorpresa e la risposta non la conosce. S’ingarbuglia nella sua memoria qualcosa che possa somigliare ad una risposta, eppure… Tiene le mani fra le cosce e continua a riflettere. Polska volta i piedi nella sua direzione. Si stringe le ginocchia allo stomaco. Pazientoso, lo attende. I capelli ora non gli vanno più in faccia.

“Ecco…” gli spunta un sorriso sincero e volta anche lui il corpo verso il biondino “Mi racconti una storia sulla vostra capitale”

“Cioè, puoi anche darmi del ‘tu’!” lo interrompe, alzando di scatto la testa, arrossendo anche un po’. Si è imbarazzato. Nessuno gli ha mai dato veramente del ‘lei’ o del ‘signore’. Si sente grande e adulto e questa cosa lo innervosisce molto. Non gli piace sentirsi quel che non è. Alla risposta, a Lietuva il sorriso scompare e diventa bianco come un cencio.

“D-Davvero?!” abbassa lo sguardo, ritornato il colore alle guance. Rialza gli occhi. Si sente imbarazzato quanto l’altro “…Allora come potrei chiamarti?” Bam! Lietuva sobbalza per questo strano verso. Gli occhietti verdi di Polska brillano e il sorrisetto malandrino si mostra. Gli punta un indice al naso con qualcosa di simile alla superiorità.

“Potresti chiamarmi ‘Signor Polska’, se vuoi. Oppure, facendo una totale eccezione, potresti chiamarmi tipo ‘Po’. Che ne pensi?” Lietuva sobbalza un'altra volta, preso di sorpresa ancora una volta, anche per il suo cuore da bambino. Si fa impacciato e fa fatica a tenere gli occhi alzati. Osserva il compagno quasi con paura.

“Cosa?!”

“Stavo scherzando” Lietuva riacquista di nuovo colore. Si scema l’ansia. Polska sorride sotto i baffi, ma pare anche qualcos’altro che lui non comprende. Riapre le palpebre e lo guarda, con occhi adulti “Tutti mi chiamano Polska, quindi… se ti va puoi chiamarmi così” e riabbassa lo sguardo, vergognoso… o forse no. Lietuva non nota nulla. È sollevato che stesse scherzando. Sospira di sollievo.

“Ah, va bene. Per me sarai Polska” ripete, come un fanciulletto. Si sente veramente tranquillo ora.

“Ma ad una condizione…” il castano si fa di ghiaccio, gli si blocca il cuore “…che io ti chiami Liet. È, cioè… il diminutivo di Lietuva” il ragazzino si scongela e annuisce. Non gli dispiace questo patto. E, in verità, questo soprannome già gli piace. Non sapeva nemmeno che l’altro conoscesse il suo nome nella sua lingua. Si sente importante e arrossisce. Alza il suo peso e si avvicina di più a Polska.

“        Quindi, riguardo alla storia…” Polska guarda in alto, perso in qualche pensiero, con occhi spenti. Ricorda qualcosa che Liet non immagina.

“Ah, la storia… ce n’è una sulla mia capitale…” Liet si avvicina ancora, attendendo. L’alleato riabbassa lo sguardo verso l’erba. Attende ancora, il castano, ma l’altro non sembra avere vita. Inizia a preoccuparsi. Sta per aprire la bocca, per chiedergli cosa c’è che non va. Polska rialza gli occhi e annuisce fra sé e sé “Va bene, te la racconto” Liet lo guarda perplesso, non capendo cosa sia successo “Si dice che un tempo ci fosse un spaventoso drago sotto il castello di Cracovia”Liet chiude gli occhi e vede occhi grandi e luminosi, che lo guardano minacciosi nel buio “Questo essere creava un gran scompiglio nella città, soprattutto perché mangiava qualsiasi cosa gli capitasse di fronte: anche donne e bambini, se lo desiderava. La situazione era disperata, allora si decise di chiamare un saggio principe, in modo da trovare un sistema per ucciderlo” Liet vede di fronte agli occhi l’uomo con la lunga barba grigia e la lanterna nella destra, mentre attraversa le rovine sotto terra “Finché… arrivò faccia a faccia col dragone” il ragazzino vede l’uomo sobbalzare di fronte alla gigantesca creatura nera “Quella bestie era davvero minacciosa e possente, tanto che il principe credeva che non potesse veramente esistere un mostro del genere, sotto la sua città, sotto ai suoi piedi” Liet vede l’uomo con occhi più irosi di quelli della bestia. Vede la sua mano sulla spada e sguainarla con un urlo di battaglia “Allora prese coraggio, sguainò la spada e si lanciò verso di lui”

Sembra proprio una storia emozionante. Polska è bravissimo a raccontare leggende, pensò dentro di sé, col cuore in gola per l’emozione.

“Con la sua saggezza il principe lo uccise facendogli mangiare dello zolfo” Liet riaprì gli occhi. Polska lo guardava, incredibilmente adulto “In questo modo la nostra capitale diventò pacifica e il principe divenne nostro eroe”

“Capisco, sembra fortissimo” ha un abbaglio, ricorda qualcosa. Un ricordo lontano gli si para di fronte a sé “Ah! Ora che ci penso, c’è una storia che il Granduca mi ha raccontato un po’ di tempo fa…”

E ritorna a parlare, con la sua voce fanciullina, come Polska la ricordava. Parla e parla e Polonia non sente nemmeno una parola. Guarda i suoi piedini, ora veramente minuti. Liet è cresciuto tanto in poco tempo, lui è rimasto piccolo ed infantile, come da piccino. Sente suoni e suoni della sua voce, tanto giovane e tanto cortese. In futuro avrebbe conosciuto il sangue e autentiche grida di cavalieri e soldati. Ora Liet non è un cavaliere, è un apprendista che vuole conoscere tante cose. Si stringe nelle ginocchia, consapevole del futuro. Fra qualche anno Lietuva diventerà cavaliere e imparerà ad usare la spada e a cavalcare. Fra qualche anno lui vedrà guerre insieme a lui. Fra qualche minuto Polonia non rivedrà mai più il bambino con gli occhi celesti, limpidi per l’età giovane, e con le leggere lentiggini, che lui stesso scoprì secoli e secoli dopo. Lituania è lentigginoso e lui lo scoprirà in guerra contro il suo stesso fratello e amico. Trova questo molto triste. Immagina che Russia lo avesse scoperto anche prima di lui. Lui, che è un mostro, conosce il suo amico meglio di lui stesso. Questo è… triste.

“…a me sembra un po’ romantic- ah!” Lietuva sussulta. Polska è stretto alle ginocchia, con la fronte nascosta tra le mani. Il vento gli scompiglia i capelli, come i suoi. Non capisce ed è preoccupato. Il biondino capisce che abbia smesso di raccontare e alza la testa. L’amico vede occhi limpidi come pozzanghere. Si sente imbarazzato e preoccupato allo stesso tempo. Istintivamente alza la mano, ma si blocca. Non sa se possa toccare il principino. Ha una sinceramente apprensione per lui “T-Ti senti bene?”

“Mi è venuta in mente un’altra storia” lo interrompe “La vuoi ascoltare?” non vede più lacrime agli occhi. Per un attimo aveva immaginato di vederlo piangere. Liet è perplesso, ma decide di non intervenire, non conoscendo ancora il compagno.

“Oh, erm… va bene” annuisce, non convinto di quel che sta vedendo. Polska acconsente e inizia a raccontare. Respira profondamente e il bambino dai capelli castani non vede altro che la storia.

“Non molto tempo fa c’erano un cavaliere e un principe. Per vari motivi, politici, reali ed altro, s’incontrarono. Non passò molto tempo che divennero amici, sin da ragazzini. Passarono anni insieme e vissero battaglie e avventure, ma la loro amicizia non era reale, non del tutto…”

“In che senso?” chiede il ragazzino, molto curioso. Chiude gli occhi, li vede insieme, i due protagonisti, stringersi la mano, in segno di amicizia.

“Il cavaliere era ingenuo e molto buono. Credeva che il principe fosse altrettanto con lui, ma non era così. Spesso lo mortificava, talvolta lo umiliava, ma lui non se ne accorgeva. E poi… anche perché il cavaliere sapeva che il principe gli volesse molto bene, solo che non lo dimostrava affatto. Ma questo perché non sapeva dimostrarlo, non perché non gli volesse bene per davvero… capisci?”

“Oh, sì, capisco…” dice il ragazzino, intimidito. Il tono alto dell’amico aumenta il suo interesse e… anche una certa tristezza. Non sa perché voglia sottolineare tutto ciò e perché sia tanto importante per la storia “Poi che accadde?” Polska sospira. Sembra intristito. Guarda in alto il cielo, chiude gli occhi e parla.

“Persero una battaglia contro tre grandi re” Liet sussulta, preoccupato. “Uno di loro veniva dal Nord, vide il cavaliere e decise di portarlo nel suo regno e di farne sua guardia personale. Il principe invece… si ammalò”

“Perché? Di cosa si ammalò?” chiede, sconfortato. Li vede sconfitti, sul campo di battaglia, strappati entrambi da tre colpi di spada.

“Per la perdita e anche per le ferite: la battaglia colpì soprattutto lui. Tornato in sesto, scoprì di non essere più un principe e di non avere più un regno. Era… diventato una persona normale, insomma. Visse sotto l’ala del primo e del secondo re che lo sconfissero. Divenne un loro servo, ma non si sentì mai infelice. Sapeva che un giorno avrebbe riavuto il suo regno e avrebbe governato insieme al suo cavaliere, proprio come facevano da ragazzi. Ma il cavaliere… non visse bene”

“Oddio… cosa gli è successo?” Liet si avvicina di più a Polska. Il biondino lo vede con la coda dell’occhio. Potrebbe sfiorargli la mano, se volesse. Non lo fa. Chiude di nuovo gli occhi e ritorna con lo sguardo in alto.

“Il re del Nord era un uomo inflessibile e a volte anche crudele. Lo trattava come uno schiavo, rendendo schiavi anche due fratelli dello stesso cavaliere e mortificandolo sempre più. Il cavaliere si sentì anche lui malato. Man a mano appassiva e perdeva vita, anche perché credeva che il principe fosse morto o che lo avesse abbandonato al suo destino. Però, dopo molti anni, il principe riuscì a ricostruire un esercito e decise di affrontare il re del Nord, per riavere indietro il suo trono e il cavaliere. Ma il cavaliere non voleva unirsi a lui”

“E perché? Erano amici!” dice, indignato, Liet.

“Perché il re del Nord era astuto e perché si era affezionato tanto al cavaliere, però anche lui, come il principe, non sapeva dimostrare il suo affetto. Era tanto legato a lui da non immaginare la sua vita senza. Gli raccontò delle falsità su di lui e il cavaliere gli credette, anche perché molte cose che diceva sul principe erano vere. Diceva che era egoista e che lo usava per i suoi scopi e in parte era vero, ma nemmeno lo stesso principe era consapevole di fargli del male” si ferma un attimo. Deglutisce “Si incontrarono sul campo di battaglia. Si scontrarono e vinse il principe”

“Riebbe almeno il trono?”

“Sì, e anche altri territori, ma il cavaliere era ancora sotto l’ala del re del Nord. Più avanti scoprì che il re gli aveva mentito e non voleva più avere a che fare con lui. Il re non poteva accettare tutto questo. Aveva sopportato il silenzio del ragazzo per anni, ma non ne poteva più. Non… non voleva che il cavaliere avesse a cuore qualcuno che non fosse lui stesso. Lo rivoleva indietro e decide di iniziare guerra contro il principe e il suo nuovo regno, fino a distruggere ogni cosa di lui” Lietuva si sente indignato. Questo re lo detesta già e non lo comprende.

“Ma… ma perché? Lui cosa voleva da loro? Era davvero tanto importante questo cavaliere?” chiede Liet, confuso e ancor più interessato. Polska lievemente alza una palpebra.

“Te l’ho detto: dopo anni ed anni, anche se con un cuore di ghiaccio, il re del Nord si era affezionato al ragazzo” Russia amava veramente Liet “Forse… forse voleva adottarlo e farne principe anche lui, ma, ovviamente, il cavaliere non voleva, dopo essere stato tradito, e lui si arrabbiò tanto da distruggere il regno del principe e lo uccise lui stesso…”

“No…” mormora, amareggiato. Polska sembra anche lui preso dalla narrazione e annuisce anche lui, scosso dentro di sé. Lietuva vede un castello in fiamme, Polska vede una scena realmente accaduta.

“Sì… il cavaliere lo seppe e seppe anche che il principe l’aveva sempre considerato come un fratello, anche se non era mai riuscito a dimostrarlo. Aveva un grande orgoglio e non poteva credere di aver solo dubitato di lui. Perse la testa e tentò di raggiungere l’amico nell’altro mondo…” Liet spalanca gli occhi, ferito “…ma i suoi fratelli e lo stesso re lo fermarono e lui riacquistò il senno. Il cavaliere decise di essere fedele ai suoi fratelli e al re del Nord. Il re gli aveva dimostrato il suo pentimento e lo aveva trattato come un figlio, per questo lo perdonò. Il principe lo aveva sempre guardato dall’alto dei Cieli e gli aveva giurato di rincontrarsi, in futuro”

Lietuva annuisce, piuttosto scosso e anche addolorato. Questa leggenda lo fa sentire male “E’ una… storia molto triste…” l’altro riapre gli occhi e annuisce al compagno. Sospira e deglutisce: parlare così tanto e di vecchi ricordi gli ha reso la gola secca. Polska gattona sull’erba, fino alle sue spalle. Liet si stringe nelle ginocchia, preso dalla storia. È un bambino, si commuove per nulla. Ricorda il cavaliere e il dolore che ha patito. Ha una gran pena per lui. Sente la presenza dell’amico alle sue spalle, alzato sulle ginocchia. I capelli ribelli del castano si agitano e sbattono contro i rami del vento. Che disastro, pensa Polska, per non commuoversi anche lui.

“Sì, è vero, ma questa storia insegna molto: anche se tutto va a rotoli, l’amicizia… è la cosa più importante che ci possa essere” il castano ci riflette un po’ e alla fine annuisce, sorridendo. Questo insegnamento lo apprezza molto.

“Giusto, la loro amicizia ha fatto vivere il cavaliere, nonostante tutto” Polska mormora qualcosa dietro al suo orecchio, ma non ci fa caso. Parte dei suoi capelli smette di dimenarsi sopra di sé. Sobbalza: sente le mani di Polska fra i suoi capelli. Volta di scatto la testa. Incontra gli occhi severi del biondino. Ha veramente le dita fra le sue ciocche scure “M-Ma che stai facendo?”

“Ti lego i capelli. Dovresti: il vento te li tira sempre” Sei un disastro anche da bambino, Liet, pensa l’infelice Polska e fa voltare la sua testa con le mani. Liet lo lascia fare, stringendosi nelle spalle. Polska gli afferra con premura i capelli e le ciocche ribelli. Si guarda il polso. Non ci riflette un attimo: non vuole ripensamenti. Con convinzione libera il nastro del suo amico dal polso e così gli lega la chioma. Fa un fiocco basso, com’è sempre piaciuto a lui. Gli è sfuggita qualche ciocca. È una pessima coda e lui è un pessimo ascoltatore: non ha udito nemmeno una parola della sua storia. Ne è consapevole e sospira. Il nastro sembra ritornato nuovo come un tempo, come se la lordura e il buio della cuccia dov’è stato finora non abbia modificato nulla di Liet. Non lo rivedrà mai più. Il ragazzino ricorda qualcosa e volta la testa.

“Ma il cavaliere e il principe alla fine si sono rincontrati?” Polska si fa cupo. Lo guarda alto, severo, adulto. I suoi occhi verdi fanno quasi paura.

“No, non ancora” Liet sobbalza. Polska si alza, si stira i vestiti, guarda brevemente il nastro, senza un filo di lacrima al volto. È sicuro di quello che sta per fare “Io vado via, Liet” e si avvia, senza voltarsi. Se si volta si perde, sa bene. Per fortuna non ha alcun desiderio di farlo. Si sente in pace e sicuro di sé. Il castano volta i piedi verso di lui, confuso, comprendendo erroneamente. Si alza in piedi, perplesso come solo un bambino riesce ad esserlo.

“Ma… dove vai? Tornerai presto?”

Polska ferma i piedi. Tentenna, ma si volta. Liet non è certo di quel che stia accadendo. Il biondino sorride, un autentico sorriso, non uno da bambino, uno da ragazzo ben cresciuto. Il vento si fa tutt’uno coi suoi capelli di grano e gli occhi verdognoli. Polonia sorride felino, col cuore finalmente leggero e con la coscienza pulita. Si sente sinceramente contento di se stesso. Ha concluso tutto ciò che avrebbe dovuto cambiare in meglio nel suo passato. Liet lo ricorda nella casa di Russia. Ricorda Russia e come soffriva, nascosto fra gli alberi del suo confine, a guardarli correre sotto il sole, fra i campi i suoi immensi campi di grano. Ricorda come Estonia dava voce alla sua ira e frustrazione, quando vide Liet con le braccia straziate dalla sua stessa lama, affilata dalle sue dita. Ricorda Lettonia e come ha accompagnato il fratello in camera loro per proteggerlo e come ha giurato di stargli accanto. Sa che sta bene, nel mondo dei vivi.

“Liet, sarai felice anche senza di me”

 

 

 

 

 

“Ma sei pazzo?!”

Sente l’urlo ancor prima di svegliarsi dal sogno liberatorio. Apre gli occhi, rilassato, indifferente e si ritrova nella sua cuccia spoglia. Guarda la finestrella, la prima fonte di luce: la bambina è sparita e il suo sangue non scorre più lungo il muro, fino a terra. È svanito, così come il suo corpo. Si rimette in piedi. Sente la sua anima perfettamente aderente a sé. Non ha un capello in testa, ha un braccio bruciato dal ferro e degli stracci come vesti, ma si sente libero. Guarda la sua cuccia, questo buco dov’è vissuto. Non gli sembra poi tanto orribile. Trova gli zoccoli di legno che avrebbe sempre dovuto indossare e li indossa. Sono troppo grandi, come li ricordava, eppure non gli dispiacciono.

“Lo vuoi abbandonare veramente?! Tu hai bisogno di Liet!” la voce del sosia sembra rimbombare nelle pareti e muoverle col suo solo eco. Quel piccolo frangente della sua mente gli sembra davvero ridicolo. Polonia si volta verso il suo doppione, i suoi occhi sgranati e il suo mantello sbiadito. Non lo ricordava più basso di lui. Cala piano gli occhi scuri verso quelli patetici del più piccolo. Non ha voglia di perdere tempo e di prestargli una minima attenzione.

“No, non è vero. Lasciami andare” e si volta. Il sosia digrigna i denti, lo sente chiaramente, lo capisce senza nemmeno voltarsi. Il gemello aveva sempre saputo cosa stava pensando e dove voleva nascondersi da lui, ma ora anche Polonia sa cosa voglia l’altro e cosa pensi. Ora è arrabbiato, disgustato dal suo sosia più maturo. Ora lo vuole umiliare e farlo cadere. Ora non sa cosa inventarsi.

“Hey, mister Po, tipo calmati e ascolta: senza quel ragazzo ora che farai?” sembra quasi convincente… “A… a te non piace stare qui, totalmente, vero?” peccato, è ritornato patetico. Polonia pensa che questo ragazzino viziato non dovrebbe essere nemmeno ascoltato, ma immagina anche che dovrebbe sapere che non si può sempre avere ciò che si desidera.

“Sì, ma me ne farò una ragione. Me l’hai detto anche tu” sibila come un serpente, senza ironia, ma sapendo di essere crudele. Il sosia stesso vorrebbe tranciarsi la lingua. Era la sua possibilità di scappare. Non voleva veramente aiutarlo. Polonia è felice di non averlo ascoltato. Guarda la porta blindata, pesante quanto dieci uomini, così la immaginava. Ora le si avvicina e guarda la toppa scoperta. Gli sembra una semplice porta, come ce n’erano tante anche nei bunker di Tymek. Quello, alle sue spalle, si fa disperato e gli trema la voce.

“S-Stavo scherzando, Po! Non ero in me, davvero…! Senti, tipo torna indietro, dì a Liet che gli manchi, perché è così! Lui ha bisogno di te!” Polonia si alza di nuovo in piedi, in cerca di un’uscita. Scende le scale, sorpassa il ragazzino stupido e guarda la finestrella sgombra, quella dove nessuno sarebbe riuscito a fuggire e ora le sembra una qualche finestrella come tante, forse un po’ più piccola, per non far passare persone indesiderate e per avere comunque un po’ di luce. Inizia ad arrampicarsi.

“Non è vero, lui ora è con Lettonia, Estonia e Russia” raggiunge la cima, il sosia è a terra, alle sue spalle. Lo sente sghignazzare, il suo sghignazzo orribile, che non lo faceva dormire per il terrore. Ora è solo la risatella disturbante di un bambino affatto cresciuto. Si alza e vede la luce: gli zoccoli lo ricompensano un po’ in altezza e lo fanno vedere meglio. Sa che non potrebbe passarci comunque, ma vede qualcosa nella neve, abbandonato apposta lì, capisce. Nessuno abbandonerebbe una cosa del genere per errore. Si sporge più che può, tenta di prenderlo.

“E tu ti fidi di Russia?! Quello che ti ha totalmente ammazzato e portato qui?!” afferra tra le mani una pistola. Alla luce del giorno vede il cane e il grilletto. La apre. Tre proiettili: più che sufficienti per fuggire da lì. Scende dalle sedie e dal tavolo. Si rigira l’arma tra le mani e sa già cosa dovrà fare. Il ragazzino imbranato vuole la sua risposta.

“Sì” e non dice altro. Lo ignora, così come l’ha ignorato lui stesso quando chiedeva aiuto e cibo da fuori. Lui ora lo osserva con gli occhi fuori dalle orbite. Polonia lo guarda con la coda dell’occhio, prima di dirigersi verso le scale e puntare la canna della pistola verso la toppa sconnessa della porta. Ha la faccia così altera da sembrare anziana, piena di grinze e ombre sotto agli occhi e sulla fronte. Sembra veramente noioso adesso, il suo doppione stupido. Non sospira, non gli mostra nulla, se non le spalle. Toglie la sicura e mira.

“Tu sei pazzo, Po… Smettila di ignorarmi! Smettila, Po!”

Bang!

La toppa scoppia e diventa incandescente. La porta ora è aperta, potrebbe essere aperta. Polonia guarda in alto, verso la sua salvezza da questa puzza e questa oscurità. Dal buco che ha creato entra una debole luce. C’è la neve fuori. Non ricorda più il vecchio sogno e le lepri che avrebbe dovuto cacciare per Liet. Non gli importa più. La sua coscienza è stata sufficientemente soddisfatta. Vuole uscire e dire addio a tutto questo. Ma sa anche che la sua coscienza ha un lato sporco dentro di sé e vorrebbe liberarsene il prima possibile, prima che ritorni ancora là sotto, a piangere e pregare nell’oscurità. Sente il parassita del suo cervello strisciare alle sue spalle.

“Liet ha totalmente bisogno di te! Non puoi andartene via così!”

Si volta e spara.

Bang!

Il petto del sosia assorbe l’impatto e si trascina all’indietro. Non cade, ha ancora forze per reggersi in piedi. Fiotti di sangue bagnano il pavimento. Raggiungono i piedi Polonia e bagnano i suoi zoccoli di legno. Non se ne importa, che di sangue ne ha visto di più autentico. Il gemello guarda la sua ferita e la mano che tocca il suo stesso sangue. Non sembra avere più una pupilla, tanto è spalancata. Rialza lo sguardo verso i felini occhi verdi della Nazione cresciuta. La Nazione lo guarda. Lo trafigge con gli occhi e per la prima volta il più piccolo sussulta. Il più grande fa un passo e l’altro per la prima volta trema.

“Io ora non ho bisogno di Liet”

Bang!

“E Liet non ha bisogno di me”

E cade a terra con occhi ancora vivi. In mezzo alle sue iridi scorrono due scie di sangue che toccano le due guance rossastre di lacrime. Piange come un bambino. Chiede pietà con le mani alzate, come un codardo, come un moccioso lamentoso. Polonia lo ricorda quando si era inginocchiato di fronte a Prussia con le mani alte. Quello era lui, nel suo corpo, ad ordinarglielo, capisce. Lui aveva mosso la sua codardia fino ad ora. Lui aveva dato dolore a Liet, con le sue mani. Lui non è una persona. Lui è il male dentro di sé. E ora se ne libererà.

“E tu…” butta la pistola, senza più proiettili “…tu non devi più starmi vicino” si volta, senza più guardare il pattume che ha creato. Con occhi vivi e severi si volta e percorre le scale. Si libererà della sua anima marcia e ne creerà un'altra migliore, ben più forte. Spalanca la porta e i suoi piedi toccano luce e neve. È fuori, finalmente, al freddo, ma lontano dall’oscurità. Si volta solo per poco, deve fare un’ultima cosa. Il suo doppione ora striscia sulle scale e lascia la sua disgustosa bava dietro di sé. Lo trova più che ripugnante. Afferra l’anta e lentamente sbarra la porta, per sempre. L’altro lo guarda sconvolto e i suoi occhi sputano sangue e lacrime.

“Po, Polska, aspetta! Non è vero! Ti sei totalmente fottuto il cervello! Po!” chiude quella porta per sempre. Sente piangere, sente rimorso, quello che Polonia non ha. Non si volta più, non vuole più stare laggiù. Avanza nella neve e nulla lo farà voltare.

“Tu hai bisogno di me…”

Non lo sente nemmeno. È finalmente uscito dall’Inferno e ora s’incammina verso il bianco e congelato Purgatorio.

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLO DI L0G1

Beh, poteva andare peggio, ma poteva anche andare meglio… Diciamocelo, con una media dell’otto e un orale da trenta, non ti aspettavi un misero settanta (maledetti…). Tuttavia, si pensa in positivo e si guarda al futuro: università, giurisprudenza, sto arrivando!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto (forse quello che ho visionato di meno, chiedo scusa per eventuali errori ortografici…), ci sentiamo nei commenti.

L0g1c1ta

 

 

 

  
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