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Autore: Sospiri_amore    15/08/2017    0 recensioni
❤️SECONDO LIBRO DI UNA TRILOGIA❤️
Ritorneranno Elena, Kate, James, Jo, Adrian, Stephanie, Lucas, Rebecca, (Nik ??).
Ci saranno nuovi intrecci, guai, incomprensioni e amori.
Elena avrà dimenticato James?
Chi vivrà un amore proibito?
Riuscirà il Club di Dibattito a sconfiggere la scuola rivale?
Nik sara sempre un professore del Trinity?
Elena andrà al ballo di fine anno?
IL FINALE di questo libro corrisponde alla fine del liceo, il terzo libro sarà incentrato sulla vita adulta dei personaggi. Più precisamente quattordici anni dopo.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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IERI:
Polvere negli occhi




Quest'anno ottobre è più caldo del solito. Sto a sbirciare dalla finestra aperta, dalla camera di Kate, le case dei vicini. Osservo i loro movimenti, mi estraneo pensando a come potrebbe essere la loro vita. È divertente, almeno quel tanto che basta per distrarmi dai pensieri che mi affollano il cervello.

James su tutti. La cosa che mi da più fastidio, di tutta questa faccenda, è che ho veramente amato quel ragazzo, l'ho desiderato per davvero. Non riesco più a capirlo. Credo sia normale crescere e cambiare, forse sono cambiata anch'io, non so, sta di fatto che James sembra un altro e questo mi manda su tutte le furie.

 

«Credo che stasera ci tocchi ripassare storia. Dopo che sarai stata dalla McArthur intendo». Kate butta sul letto il libro.

«Hmm.. Ok», le rispondo senza smettere di guardare fuori dalla finestra.

«A cosa stai pensando? Sembri su Marte oggi», mi chiede Kate.

«Sai che è stato Nik a convincere James a tornare? Secondo te cosa gli ha detto?».

Kate alza le spalle: «Non conosco bene il Professor Martin. Da quello che mi dite, tu e gli altri, credo abbia la lingua lunga e sappia sempre come cavarsela. Avrà inventato qualcosa». Kate parla mentre cerca il temperino nell'astuccio: «Domani pomeriggio andiamo da S a vederci un film. È domenica, credo che un po' di svago ci voglia. Senti Jo se ha voglia di venire».

«Dici che l'ha minacciato?», le chiedo.

«Chi? Cosa stai dicendo?». Kate si affaccia alla finestra sedendosi di fianco a me.

«Nik. Nik ha minacciato James?», le chiedo.

«Smettila. Basta. Sembri paranoica. Che ti importa cosa gli ha detto Nik a James? La realtà non sono quei due, ma io, Stephanie e Jo. Ci sono anche i compiti e le interrogazioni, ma di quelle farei volentieri a meno anch'io», Kate sghignazza.

«Non sono paranoica!», le rispondo stridula.

«Certo... Te ne stai a spiare i vicini da tutta mattina, sembri quelle svitate pettegole che vogliono scoprire tutto di tutti. Come di Nik e James. Saranno affari loro, no? Sei così presa da questa storia che non hai più idea di cosa sia importante o meno». Con forza mi allontana dalla finestra facendomi cadere, involontariamente, con il sedere per terra.

«Ahia», dico mentre mi strofino.

«Se ti dicessi la parola Rebecca. Cosa ti verrebbe in mente?», mi chiede Kate con voce ferma.

«Complotti. Bugie. Arpia. Strega. Sta organizzando qualcosa per colpirmi», le rispondo a bruciapelo.

«Invece con Club?».

«Sfida. Competizione. Migliore. Tutti vorrebbero vedermi andare male a Dibattito», le dico mentre mi riaffaccio alla finestra.

«Andrew?», mi chiede Kate.

«Pervertito. Furbo. Inganno». Rispondo senza dubbi.

Kate mi guarda con supponenza: «Quindi tu non saresti paranoica? A sentire le tue parole tutti sono alle prese con piani segreti nei tuoi confronti. La tua mi sembra megalomania. Va bene l'egocentrismo, ma adesso esageri. Rebecca non ti rompe le scatole da settimane. Sei stata ammessa al Club di Dibattito senza problemi e Andrew... Beh... Andrew può essere viscido e fastidioso, ma non ti ha fatto nulla fino ad ora».

«Durante il primo giorno alla biblioteca universitaria Andrew non mi ha rivolto la parola. Parlavamo solo per il lavoro di volontariato. Capisci? Quello sta tramando qualcosa». Mi sembra talmente ovvio che anche un bambino lo capirebbe.

«A quanto mi hai detto Andrew è stato tranquillo, gentile ed ha lavorato. Non ha fatto battute, scherzi o altro... Allora perché dici che sta tramando qualcosa? Non ha senso». Kate è a un palmo dal mi naso.

«Perché vuole... Vuole... Ecco. Non so cosa voglia, ma qualunque cosa sia, c'entro io», le rispondo acida.

Kate scuote la testa rassegnata: «Elena, ma ti senti?».

«Che ne sai tu? Quelli sono dei mostri, si divertono a rovinare la vita degli altri. In modo particolare la mia, visto che io ho una vita. Tu te ne stai tutto il giorno a scattare foto o studiare, non sai nulla di quello che io provo ogni ogni giorno», le urlo in faccia.

Kate è seria, troppo seria: «Neanche tu sai cosa provo io ogni giorno. Adesso se non ti dispiace devo studiare, una delle uniche due cose che, a quanto pare, io so fare».

«Kate, smettila di fare così. Scusa, ho esagerato e... a volte sembra che tu non mi capisca». Alzo gli occhi al cielo, non sopporto quando finge di non vedere le cose.

«Ti sbagli Elena, io ti capisco troppo... È quello il problema». Kate apre la porta della sua camera: «Tra quaranta minuti devi essere dalla McArthur. Non voglio che tu faccia tardi».

«Cosa? Mi sbatti fuori?». 

Kate non risponde, se ne sta impassibile vicino alla porta.

Senza dire nulla infilo i libri nella mia cartella ed esco dalla sua camera.

 

Provo una rabbia mai provata prima.

Perché Kate si comporta in quel modo? Che cavolo le ho fatto?

Senza neanche salutare Hanna e Roger esco da casa Husher sbattendo la porta.

Che vada a quel paese lei e le sue strane idee, ho già abbastanza problemi, non ne voglio uno in più.

 

L'autobus arriva dopo neanche due minuti che sono alla fermata. Con la musica sparata a tutto volume mi accomodo in un posto vuoto sperando che nessuno si sieda vicino a me. Se mi urtasse accidentalmente potrei sbraitare. Non voglio essere disturbata, voglio starmene per fatti miei.

Appena l'autobus arriva alla fermata scendo di corsa. L'idea di dover passare il resto del pomeriggio dalla McArthur è una cosa che mi fa imbestialire. Vorrei passare la giornata sdraiata sul letto e con la musica a tutto volume nelle orecchie. Niente chiacchiere. Niente pensieri. 

Il grande cancello di metallo della villa è aperto, nel vialetto c'è parcheggiata la macchina di James. Mi alzo il cappuccio della felpa e mi infilo gli occhiali da sole.

Suono alla porta.

La solita cameriera, con la solita espressione mi accoglie. Con i soliti gesti mi indirizza al piano superiore poi, con la solita flemma, sparisce dalla mia vista.

Salgo la scalinata di casa McArthur, la porta dello studio è l'unica aperta.

Entro, trovo Geltrude intenta a mangiare il suo gelato, James è seduto di fianco a lei.

 

«Benvenuta», mi dice la vecchia.

Fingo di non sentire. Picchietto l'indice sulle cuffie come per far capire che ho la musica.

«Toglile cara ragazza», mi dice. L'anziana è un po' indispettita, mi mima il gesto di levare le cuffie.

Faccio cenno di no.

«Mi dica cosa devo fare e basta. Oggi non ho voglia di sentire né lei, né suo nipote», le rispondo sgarbata. So che la vecchia non c'entra nulla, ma la discussione con Kate mi ha fatto talmente arrabbiare che ho un accumulo di nervoso e rabbia che non sono riuscita a sfogare.

Geltrude non batte ciglio, mi fissa con alterigia. Esce dalla stanza e si avvicina ad una porta che apre con una chiave. La stanza che mi ritrovo davanti è colma di scatoloni, sacchi e mobili, è talmente piena che non riesco a vedere le finestre sulla parete opposta.

«Dividere. Sistemare. Buttare o Regalare. La vostra vera punizione, per come vi siete comportati a scuola, è questa. La Marquez vi ha fatto un favore con il volontariato», ci spiega la vecchia. Poi se ne va.

Alzo il volume della musica ancora più forte e senza farmelo dire due volte prendo un sacco e inizio a rovistarci dentro, ci sono scampoli di stoffa, pizzi e nastri. Lo appoggio in un angolo e vado a prendere uno scatolone.

James mi blocca il polso.

«Che c'è?», gli chiedo acida.

Senza chiedermelo mi toglie le cuffie dalle orecchie, provo a replicare, ma James non mi da tempo: «Dobbiamo lavorare insieme, ok? La cosa da fastidio a me come a te. Devi lasciare fuori i tuoi problemi personali e cercare di comportarti da adulta, per una volta».

«Senti chi parla!», prendo uno scatolone pieno di cartoncini piegati e lo appoggio vicino al sacco con i pezzi di stoffa.

«Che diavolo stai facendo?», mi chiede rovistando nello scatolone e nel sacco.

«Quelle sono cose inutili, possiamo buttarle».

«Quelle cose che tu chiami inutili sono stoffe decorate a mano che mia madre usava per abbellire i suoi abiti e quelli sono i cartoncini di tutte le opere in cui ha cantato», James mi guarda malissimo.

«Do-Dobbiamo sistemare le cose di tua madre?», chiedo con un groppo in gola.

James non risponde, accarezza una stoffa dorata con piccoli cristalli applicati.

 

Osservo con più attenzione la stanza che dobbiamo svuotare. Non c'è polvere o sporcizia, tutto sommato quell'ammasso di cose ha un certo ordine. Sugli scatoloni ci sono grosse D fatte con il pennarello, in altre c'è scritto Demetra per esteso.

Io e James dobbiamo decidere sugli oggetti appartenuti a Demetra, dobbiamo smontare, riciclare, regalare o buttare i pezzi della sua vita.

Mi sta prendendo malissimo.

Ho già dovuto farlo per mia madre, adesso mi tocca decidere anche per lei.

 

«Come mai queste cose sono qui da tua nonna?», chiedo con un filo di voce.

«Papà ha deciso di stare in pianta stabile a Boston, ha messo in vendita il nostro attico. Adesso abito dalla nonna, quando andrò a Yale vivrò nei dormitori... Non aveva senso tenere una casa vuota, abbiamo portato qui tutto quello che pensavamo potesse servirci», James pare in trance, sfoglia i cartoncini con i nomi delle rappresentazioni in cui ha cantato Demetra.

Per un attimo vedo in lui la dolcezza che mi aveva conquistata, la fragilità che lo contraddistingueva: «Se non eri d'accordo dovevi dirlo a tuo padre. Del resto è la casa in cui sei cresciuto», gli dico senza filtri come se parlassi ai miei amici.

«Non ho chiesto il tuo parere, la tua interpretazione o la tua compassione. Ti ho solo esposto i fatti». James prende il sacco con i ritagli di stoffe e lo mette da una parte: «Questi li regaliamo alla sarta di mia madre, era lei a farle i vestiti su misura. Saprà come usarli al meglio. Mentre questi li metterò in ordine in un album come ricordo», mi dice mentre sposta i cartoncini in un altro angolo.

«Ok. Visto che sai tutto, cosa me faccio di questo?». Prendo la prima cosa che trovo nella stanza, peccato che la mia mano si appoggi su un piccolo armadietto che pesa un quintale. Lo trascino a fatica cercando di dissimulare lo sforzo che sto facendo. Il mobile è piuttosto piccolo, ma è pieno di altre cose che traballano al suo interno. Non posso svuotarlo perché l'esterno è avvolto dalla pellicola trasparente.

Grondando sudore lo porto fuori dalla stanza.

«Mia mamma ci teneva le cose a cui era più affezionata, lo chiamava il mio posto speciale. Ci ha sempre messo le cose che non voleva perdere». Con un taglierino James rimuove la pellicola. Inizia a ispezionare il contenuto.

 

Tre grossi raccoglitori pieni di disegni fatti da un bambino.

Una bottiglietta vuota di profumo.

Un barattolo di vetro pieno di monete.

Un portagioie in legno laccato di verde.

Diversi mazzi di lettere.

Tre cucchiaini di plastica colorata.

 

«I raccoglitori con i miei disegni puoi metterli vicino ai cartoncini di prima, voglio tenerli. La bottiglia di profumo non mi serve, buttala. Le monete credo potrei regalarle, non hanno molto valore, vengono da tutti i posti che mamma ha visitato». James mi passa gli oggetti, non oso contraddirlo. Ubbidisco e basta.

«Questa scatola di legno verde è chiusa». James prova a scuoterla ma non risuona nulla al suo interno. «Mettila vicino ai miei disegni, potrebbe servire alla nonna».

«Cosa vuoi fare delle lettere?», gli chiedo.

James sfoglia alcune buste: «Le darò a papà. Credo siano le loro lettere d'amore».

«Va bene», prendo le buste e le matto in un angolo.

«Questi li puoi buttare». James mi allunga i tre cucchiaini di plastica.

«Che cosa sono?», gli chiedo.

«Un ricordo di tanto tempo fa. Nulla che ora abbia importanza». Di scatto James si alza e si passa la mano sugli occhi. Sta piangendo.

«Tutto bene? Vuoi...», provo a chiedergli, ma vengo interrotta.

«Non ho niente. Mi è entrata solo un po' di polvere negli occhi. Adesso butta quei vecchi, inutili cucchiaini, non mi pare una cosa difficile, no?», mi dice duro.

«Certo», gli rispondo. 

 

Senza farmi vedere da James infilo la mano nella giacca riponendo al sicuro quegli oggetti a cui Demetra non avrebbe mai rinunciato. 

Tre semplici cucchiaini di plastica.

Un ricordo di tanto tempo fa.

Un frammento di una vita che non c'è più.

   
 
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