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Autore: Lost In Donbass    15/08/2017    2 recensioni
Sono passati due anni da quando Will è morto, due anni in cui Tom e Bill vivono felici e in pace, Tom sempre come irreprensibile agente dell'Anticrimine berlinese e Bill sempre come mercenario per conto di July. Ma questa volta, devono far fronte a un problema molto più grande: chi ha rapito Bill, e soprattutto, cosa vogliono da lui?
In una Honolulu troppo afosa, Tom si troverà a dover lottare contro demoni di cui non conosceva l'esistenza, per salvare Bill dal suo passato una volta per tutte, tra segreti mafiosi, isole hawaiane e la sua solita scanzonata allegria.
Sono tornati tutti, ragazze! July, i coinquilini, i G&G, Heike ... non manca nessuno!
NOTA BENE: SEQUEL DI "WON'T YOU BE MY BLOODY VALENTINE" DI CUI SI CONSIGLIA VIVAMENTE LA LETTURA PER COMPRENDERE MEGLIO QUESTA!!
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
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CAPITOLO TERZO: RIPRENDIAMOCI BILL

Tom cadeva. Cadeva così, come Alice nel buco, rotolando in mezzo ad immagini scollegate che rapidamente facevano capolino nel precipizio di rami intrecciati e radici che cercavano di ghermilo. C’erano foto di Bill, mentre cadeva. Foto del suo sorriso accecante e dolce, dei suoi occhi neri come la notte eppure più luminosi del più bel cielo stellato dei mari del sud, delle sue mani lunghe e nobili con le unghie aguzze e smaltate di nero, del suo corpo sodo e perfetto, dei suoi vestiti esageratamente vistosi, delle sue sciabole, del tatuaggio dei triangoli nell’inguine che a Tom piaceva tanto mordere e succhiare come a volerlo cancellare. Cadeva sempre più veloce, in mezzo ad affilate katane, kris malesi troppo affilati che tentavano di affettarlo, fucili di precisione che mitragliavano e gli facevano fischiare grossi proiettili attorno, calci rotanti di lolite coreane che volteggiavano silenziosamente sospese nel vuoto, mentre lui precipitava, in gola un urlo muto che bruciava come fuoco ma che non riusciva ad esternare. L’oscurità gli feriva gli occhi eppure riusciva a vedere con disperante chiarezza i fotogrammi del loro melodramma; rivedeva rapide immagini dei quadri di Will che vorticavano rapidi, con i loro ghigni satanici e le loro abnormi creature sconce e oscene, e sentiva le risate di quelle sirene assassine, di quei demoni incatenati, di quei tormentati vampiri vestiti da gothic lolita, guardando con malcelato orrore i momenti cruciali dell’indagine che li aveva rovinati, più freschi di una rosa eppure puzzolenti come una fogna a cielo aperto. Tom cadeva e non riusciva a fermarsi, le orecchie che fischiavano follemente come se mille radio disturbate stessero gracchiando la stessa frase “Hanno rapito Bill”. Parte di lui non ci credeva, si era ovattata su un ipotetico “non è possibile” e cercava di crogiolarsi nel finto calore che gli comunicava questo pensiero, aggrappandosi spasmodicamente a una speranza più effimera di un foglio di carta velina. Eppure, l’altra parte era lì che ansimava e tentava di riemergere dal buco di Alice, scalciando e urlando, tentando di uscire allo scoperto ed esternare la paura e l’orrore che gli avevano mozzato il respiro. Tom cadeva veloce. Ma in un battito di ciglia era riemerso alla luce del sole
-Cosa!? Cosa hai detto? July ma che cazzo dici, non ha senso, cosa …
-E’ quello che ho detto, Tom-sama.- il coreano lo guardò con quello sguardo di fuoco che forse gli aveva attribuito quello strano appellativo, e il ragazzo si sentì estremamente piccolo e impotente. Ora July sembrava di nuovo molto più anziano di loro; il viso si era riempito di piccole rughe, la bocca si era afflosciata, come gli occhi. Ma fu solo un attimo, come al solito, perché di colpo sembrò di nuovo il ragazzino giovanissimo di sempre, la manina che continuava a stringerli la maglietta con una morsa ferrea – Devi venire con me, subito. Sono misure di emergenza, non posso permettermi di perdere Bill-chan. Nessuno può toccare qualcosa che appartiene a me, tantomeno il mio piccolo cucciolo indifeso. Andiamo, Tom-sama. Il rapimento di Bill-chan è sicuramente legato alle Mudang e all’uomo sghignazzante.
Tom boccheggiò, mentre tutti i suoi colleghi avevano fatto loro capannello attorno, increduli e spaventati. Era … esterrefatto. Non solo la sua paura più grande, quella di perdere Bill, sembrava essersi orribilmente avverata, ma ora usciva anche che c’entrava qualcosa con l’omicidio sulla Rosen Strasse. Un brivido e un conato lo scossero come una fogliolina: e se avessero riservato la stessa fine del cosiddetto uomo sghignazzante anche al moro? Se avesse dovuto combattere contro non solo la sua morte ma contro le  torture da lui subite, se avesse dovuto venire a patti col suo viso bellissimo sfigurato per sempre in una smorfia oscena e grottesca? Non ce l’avrebbe fatta, lo sapeva, e non si vergognava di pensarlo.
-So che hai paura, ragazzo mio.- July lo guardò gravemente, stringendosi il bolero addosso – E fai bene ad averne, ma ora sei tenuto a seguirmi in negozio, dobbiamo parlare. Tu mi devi seguire, per Bill-chan e per il caso che stai seguendo.
Tom si morse il labbro, ma non esitò nemmeno un secondo a seguire i tre coreani, tra i colleghi che si aprivano come il Mar Rosso per lasciarli passare, consci che se il loro squinternato Segugio di Berlino aveva in mente una cosa sarebbe sicuramente stato un colpo di genio che avrebbe portato un’altra vittoria allo sfigato Distretto 10.
Gli faceva male il cuore, un dolore così forte da essere insopportabile, e non poteva fare a meno di pensare a Bill, il suo Bill, perso chissà dove in qualche isoletta sperduta nel Pacifico, lontano da casa, lontano da lui. Tom sapeva da solo che non avrebbe potuto aiutarlo in quel senso, che lui non era altro che un normale agente della Polizia di Stato tedesca, ma sapeva che lo avrebbe protetto con il suo amore infinito, che gli avrebbe fatto da schermo contro tutto il male che si annidava lì fuori. Se non poteva proteggerlo fisicamente, poteva chiuderlo nella sua dolce gabbia di affetto e di piedi per terra, per non farlo volare via ma tenerselo tra le braccia, al sicuro. Invece ora, tutto a un tratto, lui non c’era più, e Tom era rimasto lì da solo, il cuore soffocato dal terrore di perderlo e di perdersi di conseguenza nella caligine berlinese che non portava altro che guai inenarrabili. Cercò di nascondere i lacrimoni infantili che gli rigavano le guance ancora da bambino mentre seguiva July, June e May sull’auto lussuosa che li aspettava.

Bill aveva aperto gli occhi oramai da almeno qualche minuto, ma continuava a non capire dove si trovava. Aveva solamente molto caldo e gli doleva la testa. Socchiuse le palpebre, cercando di superare il dolore pulsante e di guardare oltre all’umida oscurità che lo avvolgeva. La prima cosa che sentì chiaramente, erano le mani legate con delle spesse corde, come le caviglie pallide orribilmente ferite da varie croste e lividi violacei. Cercò di mettersi seduto, ma una fitta alla spina dorsale lo costrinse a trattenere un gemito tra i denti e a rimanere sdraiato su quel pavimento duro, avvolto solamente dalla sua vestaglia trasparente oramai a brandelli. Si leccò il labbro, che sapeva di sangue, e gemette rumorosamente, rovesciando la testa all’indietro, tremando di rabbia. Alla fine, era successo. La più grande paura di July si era avverata: aveva osato troppo e qualcuno era riuscito a metterlo nel sacco e a rapirlo. Non ci volle credere, ma sentì qualche lacrima rabbiosa premergli dentro i grandi occhi stanchi. Era … fregato. Spalancò le palpebre, e, lottando contro il dolore terribile che dipartiva da ogni fibra del suo corpicino picchiato a sangue, fece il più grande sforzo di reni che avesse mai fatto in condizioni simili per mettersi seduto, cosa che gli costò una fitta oscena alla testa e un improvviso attacco di nausea. Tentò di arginare il conato e il giramento di testa, ma si ritrovò a vomitarsi addosso allo straccio lurido che gli era rimasto addosso. Sfarfallò le palpebre pesanti, e storse il nasino. In quella stanza c’era un odore terribile, di fogna, di umido, di muffa, di vomito. Si lasciò cadere appoggiato al muro, e inspirò con forza, per ritrovarsi vittima di un accesso di tosse violenta che gli fece sputare un grumo di sangue e muco. Ma come l’avevano conciato? E perché non si ricordava nulla di ciò che era successo? Il dolore alle tempie era così lancinante che gli faceva venire continuamente attacchi di nausea; provò a liberare le mani, ma le corde sembravano incredibilmente resistenti, e lui troppo debole per poter anche solo azzardarsi a fare un minimo di forza fisica. Provò  a distendere le gambe, e fece una smorfia a vedere le sue belle gambe magrissime e pallidissime rovinate da una corona di sangue secco, ematomi ed escoriazioni. Dio, avevano fatto le cose in grande, proprio. C’era solo una domanda che in quel momento gli premeva fortemente: chi l’aveva scoperto? Come avevano fatto, chiunque fosse il suo rapitore, a sapere che lui si trovava a Honolulu?  E, soprattutto, come diavolo avevano fatto a fregarlo così, lui, Bill Schadenwalt, il gattino prediletto dello Scorpione di Fuoco? Troppe domande affollavano la sua mente distrutta, e, tra tutte, l’immagine di Tom, il suo Tom, così lontano in quel momento. Il ragazzo si morse il labbro e si lasciò sfuggire un singhiozzo soffocato; voleva Tom, in quel momento. Voleva Tom che lo abbracciava e gli diceva che andava tutto bene, voleva baciare quelle belle labbra piene, stringere le sue spalle muscolose, accarezzargli i capelli, sentire la sua voce dolce nell’orecchio. Aveva un estremo bisogno di lui, eppure era lontano oceani, addirittura. In realtà, Bill non aveva paura di morire, non dopo Will, non dopo tutto quello che aveva passato, ma in quel momento aveva paura per Tom. Paura per un ragazzo normale che aveva trascinato in quel gioco di sangue e morte adatto solo a quelli che una vita non la meritavano. Chiuse gli occhi, e sperò che July lo avesse tenuto all’oscuro; sapeva che era una speranza vana ma una parte di lui si appendeva a quello, pregando che Tom fosse tranquillo, laggiù a Berlino, che non si stesse struggendo per lui, chiuso in uno scantinato lurido nelle isole Hawaii. Ma qualcosa gli diceva che in quell’esatto secondo Tom sarebbe stato lì a disperarsi, in lacrime, a pensare al suo Bill in balia di un cattivo da fumetto non troppo ben identificato. E il moro si maledisse per questo, sentendo un altro singhiozzo uscirgli dal petto straziato. Voleva il suo gattino, era l’unica persona a cui riusciva a pensare in un momento come quello, non poteva nemmeno sopportare l’idea di morire senza averlo potuto salutare, baciare, toccare, senza avergli potuto dire ancora un “grazie, gattino, ti amo più di ogni cosa di questo mondo”. Era qualcosa che lo opprimeva e gli faceva aumentare i conati terribili che gli sconquassavano lo stomaco. Si scostò con un gesto del capo i capelli corvini e bianchi sporchi e unticci, cercando di respirare senza vomitare altro sangue e altro muco, quando una luce gli ferì i grandi occhi di tenebra. Squittì tra i denti, cercando di distogliere lo sguardo dalla fastidiosa fonte luminosa che aveva illuminato lo stanzino dove era rinchiuso, quando intravide due piccole figure sgattaiolare dentro e chiudere la porta, dandogli un immediato ristoro alla vista. Istintivamente, quando sentì due risatine femminili, strinse le ginocchia al petto, rannicchiandosi il più possibile. Era inutile fare tanto lo spavaldo in una situazione simile, china la testa e aspetta, gli aveva sempre consigliato July. Guardò con la coda dell’occhio le due figure accendere due torce, e sentì i loro passi leggeri avvicinarsi, insieme alle snervanti e infantili risatine. Strinse i denti.
-Hey, disonore con la pistola, sappiamo che sei sveglio.- disse la prima voce, con quel tono canzonatorio da bambina che proprio a Bill non andava giù. Sentì un piedino che gli dava un leggero calcetto alla gamba. Aveva un delicatissimo accento dell’est, abilmente mascherato dall’inglese perfetto.
-Apri gli occhi, dobbiamo parlarti.- disse la seconda voce. In realtà, era identica alla prima, il ragazzo poteva solo supporre fossero due persone differenti.
-Cosa volete da me?- gemette, ingoiando a vuoto, cercando di farsi ancora più piccolo nell’angolino lurido. – Chi siete?
-Come chi siamo?- le due voci parlarono in coro, ridendo – Il tuo padrone dovrebbe averti parlato di noi.
Bill alzò la testa, mordendosi il labbro per evitarsi di sputare in faccia alle sue aguzzine, e guardò in faccia le due ragazze illuminate dalla torcia, che ridacchiavano tra loro, gioendo del suo dolore nel tenere aperti gli occhi. E quando finalmente le riconobbe, un altro conato di vomito lo percorse e lo obbligò a vomitarsi di nuovo sui brandelli di vestaglia, scatenando il loro riso divertito.
-Le … le Mudang?
-Bravo, caro, ottimo!- le due ragazze batterono le manine, sorridendo sadiche – Siamo le Mudang, potresti poi portare i nostri saluti al caro Scorpione.
Bill si sentì sprofondare del tutto, quando sentì quella spiegazione. Le Mudang erano tutto quello che la mafia mondiale temeva come la peste, quasi quanto potevano temere July, June e May. O quanto si poteva temere Will, prima che lui lo uccidesse a sangue freddo. Aleksandra e Valentina Tolmachevy, le sacerdotesse assassine, le peggiori ninja private dopo June Mei Rin e May Ran Mao, educazione moscovita e addestramento da yakuza. Bill soffocò un gemito di dolore quando i suoi polsi martoriati sfregarono contro le dure e rozze corde che li legavano. In realtà, non stava del tutto capendo come mai le Mudang fossero andate a rapire lui, non era conoscenza di nessuna lite recente tra loro e July, nessun traffico deviato, nessun incarico mai pagato, niente di niente.
-Cosa volete da me?- sussurrò tra i denti, cercando di ringhiare per quanto poteva permetterlo la sua bocca piena di sangue. – Lo Scorpione non vi deve niente. E io meno di lui.
-Questo lo dici tu, piccolo.- una delle due si scostò i lunghi capelli d’inchiostro dal viso rotondo, sorridendo con quell’aria perversa e malata che solo due piccole belve cresciute nel sangue e nella violenza più assurda possono avere – Lo Scorpione ci deve eccome, e tu sei la nostra arma.
-Non farebbe nulla per metterti in pericolo, dà?- continuò la gemella, aggiustandosi la frangetta ordinata – E noi faremo di tutto per farlo venire qui ed eliminarlo una volta per tutte.
Bill tacque, ringhiando, distogliendo il viso quando le manine piccolissime delle due sorelle gli accarezzarono le guance ridacchiando. Odiava essere toccato da qualcuno che non fosse Tom o July. E soprattutto, odiava essere toccato dai suoi nemici. Sembrava tutto un incubo, un sogno orrendo dal quale non riusciva a risvegliarsi, sprofondando sempre di più nel dolore fisico e psicologico che le Mudang gli stavano lentamente infliggendo senza una ragione.
-Siete delle infami meschine creature.- sputò, tremando per un improvviso accesso di freddo gelido e di tosse dolorosa. – Credete che July caschi nei vostri sporchi trucchetti? Non sapete con chi avete a che fare, russe di merda.
La sua spalvaderia ebbe le sue dolorose conseguenze, ma Bill cercò di non far trasparire minimamente il dolore che gli venne inflisso quando Aleksandra lo afferrò con violenza per i capelli e Valentina gli tirò un calcio nello stomaco che gli mozzò letteralmente il fiato, facendolo crollare a terra come una bambola.
-Vorrai dire che tu non sai con chi hai a che fare, tedesco di merda venduto ai coreani.- strepitarono in coro le due, sghignazzando impunemente quando, dopo un altro calcio, il ragazzo si vomitò di nuovo addosso. Bill socchiuse gli occhi, cercando di sputare addosso alle due bamboline assassine che, roteando nelle loro corte gonne, si stavano volgarmente esibendo di fronte a lui in un incestuoso bacio che dava il voltastomaco. Il suo sputo non le sfiorò nemmeno, anzi le fece ridere più forte e le fece sgattaiolare via, chiudendo la pesante porta di metallo e facendolo risprofondare nel buio più completo. Fu solo in quel momento che Bill si mise a piangere senza più ritegno.

Come fosse legato da un filo invisibile, Tom, seduto nel retro del negozio “Carabattole e Ammenicoli Vari” , stava singhiozzando come il suo fidanzato, bevendo a piccoli sorsi il the che le premurose June e May gli avevano portato. Non faceva nemmeno caso alle strane forme che assumeva il fumo bluastro della kiseru di July, troppo impegnato a pensare al povero Bill. Anche il caldo asfissiante era passato in secondo piano, tutta la sua intera esistenza era tristemente obnubilata da quel fatto che lo aveva sconquassato nel profondo.
-Tom-sama, riesci ad ascoltarmi?
Il ragazzo alzò gli occhi su July, che lo guardava mestamente, la lunghissima unghia ricurva che mescolava senza voglia il the verde al litchee e limone, e annuì
-Sì, July, scusami. Parla.
-Come ti ho detto prima, hanno rapito Bill-chan, ma questo ti deve spaventare solo fino a un certo punto.- prima che Tom potesse interromperlo, il coreano si alzò, volteggiando nel suo kimono viola con le gru e gli fece segno di tacere – Loro non se ne fanno niente di lui. Vogliono me. E saranno me che avranno, ovviamente.
-Aspetta, fammi capire. Questi “loro” hanno rapito Bill e come riscatto vogliono te? Quindi cosa sono, un altro clan mafioso avversario? Dunque, non gli faranno del male?
-Gliene faranno, ragazzo mio. Ma non lo uccideranno, almeno finché non mi presenterò al loro cospetto. Sanno bene che ucciderlo equivale alla fine di tutto, e questo non conviene nemmeno a loro.
Tom strinse i denti, e gemette, prendendosi la testa tra le mani. Ma perché, perché Bill era nato e cresciuto in quel mondo ignobile? Perché non poteva essere un ragazzo normale?
-Ma July … tu sai chi l’ha rapito?
-Certo che lo so, Tom-sama.- July guardò con noncuranza uno degli enormi arazzi che appesantivano le basse pareti di mogano e poi, veloce come un lampo, ne strappò un pezzo con la lunga unghia ricurva. Tom tremò. – E’ tutto collegato al cadavere che avete rinvenuto stamane sulla Rosen Strasse. È qualcosa di troppo grosso anche per il Distretto 10; è un avvertimento per i clan tedeschi.
-Ma tu sai chi è quell’uomo ucciso in maniera così barbara?- Tom assottigliò gli occhi, bevendo un sorso dell’ottima tisana alla salvia e rosa canina.
-Non di persona, ma aveva collaborato con me, tempo addietro, per il cartello della droga tra Shangai e Vladivostok. Traffico d’oppio.- July si lisciò le pieghe inesistenti del kimono e si passò una mano tra i capelli lucidi di gel e glitter violetti – Vedi, hai presente il simbolo che aveva sul polso? La S e la V intrecciate? E quel cerchio con detro una X? Quella è la firma delle Mudang. Le nemiche giurate di ognuno dei Signori.
Tom non avrebbe voluto chiederlo, ma si ritrovò a sussurrare
-E chi sarebbero le Mudang?
-La tradizione le vorrebbe come sciamane delle tradizione coreana, le intermediarie tra l’umano e il divino attraverso i sacri riti gut. La realtà, le vuole come una coppia di sorelle gemelle russe, le peggiori ninja sul mercato mondiale. Aleksandra Andreevna e Valentina Andreevna Tolmachevy, allenate da quando erano bambine a diventare delle belve inumane. Si dice che la loro famiglia le abbia rese completamente folli a causa delle continue sevizie e degli allenamenti impossibili a cui sono state sottoposte continuamente per tutta l’adolescenza e l’infanzia. Fino a che non si sono ribellate, e non sono diventate la mina vagante più pericolosa che ci sia. Capiscimi, Tom-sama: non hanno logica, rigore, non hanno nulla che non sia la loro visione distorta delle cose, la loro violenza e la loro crudeltà.
-E mi stai dicendo che il mio piccolo Bill è in mano a ste due psicopatiche?!- Tom a quel punto era balzato in piedi, di nuovo carico di quella rabbia che pensava solamente Will potesse scatenargli nel petto. Da quando lui era morto, pensava che nulla avrebbe mai risvegliato in lui quella vena omicida, ma evidentemente si sbagliava. – Cazzo, July!
-Stai calmo, Tom-sama. La rabbia è cattiva consigliera.- July lo fulminò con i suoi terribili occhi a mandorla, e si risedette sul divano – Le Mudang non mi hanno ancora fatto la loro proposta di riscatto; teoricamente, secondo loro, io non dovrei saperlo ancora. Ovviamente, si sbagliano, e io l’ho saputo immediatamente, ed è per questo che dobbiamo coglierle di sopresa. Per salvare Bill-chan. E per dare una parvenza di risoluzione al tuo mistero.
-Hai intenzione di spedire qualche tuo sicario giù a Honolulu?- chiese stancamente Tom, tirandosi le lunghe treccine scure – Sei sicuro che riescano nell’impresa senza nuocere alla salute di Bill?
-No, Tom-sama. Non manderò giù proprio nessuno.- rispose pacificamente July, bevendo un sorso di the – Sarebbe troppo pericoloso per tutti noi; come ti ho detto, le gemelle Tolmachevy non ci mettono niente a uccidere qualunque gattino io gli possa spedire contro. Ci vuole ben altro; possono essere folli, ma la loro educazione è delle più ferrate. Hanno anche loro una mandria di scagnozzi siberiani da scatenarci contro.
-E allora cosa dovremmo fare?!- urlò istericamente Tom, balzando in piedi – Senti, io non ci sto capendo più un cazzo di niente. Gemelle russe, santone coreane, un morto sfigurato che c’entra col cartello della droga cinese, le Hawaii, Bill rapito. Insomma, ma che razza di delirio è?!
-E’ comprensibile il disordine nella tua testa, figliolo. Nemmeno io riesco a capire del tutto come abbiano fatto le Mudang a incastrare Bill-chan. È una cosa così strana … è un gattino così accorto, così intelligente.- July scosse la testa, stringendosi nelle gracili spalle – Eppure, Tom-sama, ho una richiesta da farti.
Tom osservò con malcelata ansia il giovane che si alzava e si andava ad accomodare accanto a lui, prendendogli una mano tra le proprie
-In nome dell’amore che provi per Bill-chan, te lo chiedo fiducioso. Alle isole Hawaii non mando nessuno perché ci andrò io personalmente a riprendermi ciò che è mio. A questo punto, Tom-sama: vuoi venire con me a risolvere il tuo caso dell’uomo che ride e, soprattutto, a riprenderti Bill-chan?

  
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