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Autore: Sapphire_    15/08/2017    2 recensioni
Se una donna fissata con il rosso incontra un uomo dai capelli rossi che ha paura del sesso opposto, cosa pensate che possa succedere?
April Montgomery è quella donna, Aaron Marlowe quell'uomo, ed entrambi vivono la propria vita in quel pulsante nucleo sempre vivo di New York, che in seguito a un fortuito evento tra i due - un vero e proprio cliché - farà da sfondo anche ai loro successivi incontri.
In fondo, il modo migliore per eliminare una fobia è affrontarla, no? Forse non tutti sarebbero dello stesso avviso...
Dal testo:
«Ma sei un idiota?» furente, alzò lo sguardo verso l'idiota che le aveva appena fatto fare una figuraccia di fronte a tutti. Gli occhiali le erano scivolati sul naso e in un primo momento non vide niente, ma li tirò su e una visione la colpì.
Alto, bell'aspetto, sguardo freddo e dagli occhi scuri, piercing al labbro e un importantissimo dettaglio.
«Che bellissimi capelli rossi!»
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Salve a tutti!
Ok, lo so lo so lo so: il mio ritardo è imperdonabile, me ne rendo perfettamente conto. A dire il vero, non ho neanche grandi scuse per questo, se non ché l’ispirazione è andata a farsi una lunga vacanza durata qualche mese. Poi ci sono stati gli esami, poi il ritorno a casa (da brava fuorisede quale sono) e ho solo pensato a godermi il mare. Adesso che già devo riprendere a studiare però cerco rifugio in tutti altri hobby, ed eccomi qui con il nuovo capitolo di “It’s too cliché”!
Pare che l’altro sia piaciuto particolarmente, spero che anche questo sia abbastanza interessante, anche se sarà il prossimo quello più divertente – o almeno lo spero…
Non so che altro aggiungere tranne che spero di ricevere qualche vostro commento – positivo o negativo che sia, ovviamente – per sapere cosa ne pensiate.
Detto questo, vi auguro buona lettura!
Un abbraccio,
 
~Sapphire_
 
 




 
 
 

 
~It's too cliché
 
 
 
 
 
 
Capitolo undici
 
«Che sorriso! Devi dirmi qualcosa?»
La voce divertita di Tom tirò fuori Aaron dalla propria e personale bolla dorata in cui era rinchiuso dalla sera prima.
Tornare sulla terra fu brutto, considerando che si rese conto solo in quel momento del suo effettivo comportamento: aveva passato tutta la mattina, da quando si era svegliato fino a quasi l’ora di pranzo, a vagare con la mente su territori ignoti, mentre un vago sorriso non riusciva ad abbandonarlo.
«Non capisco di cosa tu stia parlando.» rispose subito, assumendo il più in fretta possibile un’espressione indifferente.
Tom, di fronte a lui, inarcò un sopracciglio con aria scettica, mentre giocherellava come al solito con il suo cubo di Rubik.
Per quanto ancora avrà quel coso?, pensò vago Aaron, distraendosi un momento, per poi venire richiamato all’attenzione sempre dall’amico.
«“Non capisco di cosa tu stia parlando”…» lo scimmiottò il moro «Tipica frase di chi ha qualcosa da nascondere. Andiamo, mi racconterai durante la pausa pranzo.»
Dicendo questo il giovane chiuse con una mano il pc del rosso, guadagnandosi un’occhiata pesantemente infastidita; nonostante questo, Aaron non replicò, rassegnandosi all’interrogatorio.
In fondo, era il primo che voleva raccontargli della sera prima, ma allo stesso tempo si sentiva un idiota e in dovere di nasconderlo. Non capiva nemmeno lui cosa ci fosse nella sua testa.
Si alzò quindi con aria arrendevole, seguendo l’amico come un cagnolino.
«A dopo, Daphne.»
Sentì la voce di Tom salutare la loro collega, che rispose prontamente.
«Buon pranzo!»
Fu in maniera distratta e totalmente naturale che la guardò, le fece un vago accenno di sorriso e le rivolse la parola.
«Grazie.»
In quell’esatto momento, sembrò che Tom fosse stato pietrificato.
Si sentì i suoi occhi addosso: aveva uno sguardo stralunato e scioccato, come se avesse visto un fantasma.
«Tom…?» iniziò, incerto.
Ma Tom non lo lasciò parlare: lo afferrò per una manica e lo trascinò fino all’ascensore, pigiando il tasto di chiamata fino a quasi distruggerlo. Come le porte si aprirono, lo buttò dentro senza tanti complimenti.
«Ora tu mi dici che è successo e perché hai ringraziato Daphne senza che io ti costringessi a farlo, anzi di tua spontanea volontà.» disse categorico.
Merda.
Aaron non se n’era proprio accorto: in quel momento, il “grazie” per il “buon pranzo” gli era uscito quanto mai normale; si rese conto solo in quel momento di averlo detto a una ragazza, quando fino al giorno prima non rivolgeva una singola parola a un esponente del sesso femminile senza esserne costretto – da Tom, dalle sorelle o altri particolarmente suscettibili alla questione.
«Non potrei aver pensato di voler essere semplicemente educato?» suggerì, girandosi e premendo il pulsante zero. L’ascensore iniziò a muoversi.
Tom rise.
«Stai seriamente cercando di fregare me, che ti conosco da una vita?» chiese quasi con le lacrime agli occhi.
Aaron arrossì, sentendosi uno stupido.
«Può darsi.» bofonchiò.
«Bene, ora che hai potuto appurare di non esserne in grado, avanti: sono tutto orecchie.» concluse con un sorriso splendente. Luccicava in maniera così assurda che Aaron dovette spostare gli occhi, accecato.
«Beh, a dire il vero ieri…»
L’ascensore si aprì e il rosso si interruppe. Uscì, dirigendosi verso le porte dell’edificio.
«Ieri sera…? Avanti, continua.» insistette il moro.
Aaron sospirò, ritrovando fuori in strada; iniziò a dirigersi verso Starbucks – sapeva perfettamente dove Tom volesse andare – cercando anche di prendere tempo da quella conversazione. Non sapeva perché ma era in crisi.
«Mi stai facendo preoccupare in questo modo.» disse infine Tom.
Aaron gli lanciò un’occhiata di sfuggita.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi.» borbottò il rosso. L’amico, per risposta, lo fissò con un sopracciglio inarcato.
«Allora perché ti fai così tanti problemi a dirmelo?»
«Non lo so neanche io.»
Si fermò di fronte al semaforo, in quel momento rosso per i pedoni, e osservò le macchine che sfrecciavano veloci di fronte ai suoi occhi.
«Ieri sera sono andato a cena con una ragazza.» disse all’improvviso, tutto d’un fiato.
Non si girò a osservare la reazione del moro: in quel momento scattò il verde e si precipitò dall’altro lato della strada. Solo una volta arrivato sul marciapiede si girò per guardare Tom, ma l’amico non si era mosso dal punto in cui era.
«…Tom?» urlò il rosso.
L’amico parve risvegliarsi dalla trance in cui era caduto, notò il semaforo che cambiava in arancione e corse sulle strisce pedonali.
Gli si buttò addosso come un sacco di patate e Aaron vacillò sotto il suo peso.
«Cosa hai detto?»
Tom non gli diede nemmeno il tempo di lamentarsi: immediatamente lo apostrofò con quella frase detta con un tono così sconvolto e preoccupato che si spaventò il rosso stesso. Quest’ultimo alzò gli occhi al cielo, arrossendo e scrollandoselo di dosso.
«Che reazione esagerata. Ora è diventato così strano uscire a cena con una donna?» bofonchiò, affrettandosi verso lo Starbucks con l’amico alle calcagna.
«Mi stai seriamente ponendo questo domanda?»
Aaron non si girò per osservare lo sguardo di Tom, che già sapeva essere particolarmente eloquente, e tacque rendendosi conto dell’idiozia appena detta.
«Ecco, bravo, stai zitto che fai una figura migliore.» lo pungolò il moro «Avanti, parla!» gli ordinò subito dopo, in una sequenza di frasi che parve piuttosto ossimorica.
«Cosa vuoi che ti dica?» disse Aaron seccato – più per l’imbarazzo che per le domande in sé.
«Ah, non saprei. Magari che mi dica chi sia questa ragazza, come ha fatto a trascinare te a cena fuori da soli – eravate da soli, vero? –, dove siete stati, il tuo comportamento durante la cena, il suo comportamento durante la cena…» elencò Tom, finalmente affiancando l’amico.
In quel momento arrivarono di fronte al solito Starbucks ed entrarono. Ma Tom quella volta non si perse negli aromi della caffetteria e non staccò gli occhi dall’amico. Aaron però non disse una parola e Tom decise, anche se impaziente, di aspettare fino a quando non si sarebbero seduti a mangiare.
Cosa che, in effetti, non accadde dopo tanto tempo.
«Bene, direi che ho aspettato per abbastanza. Avanti.»
Aaron sospirò arrendevole.
Non sapeva da cosa derivasse tutto quell’imbarazzo: Tom in fondo sapeva ogni singolo dettaglio della sua vita – che glielo dicesse lui stesso o una delle sue sorelle, a quanto pare, era irrilevante – e una cena con una donna non era di certo la cosa più imbarazzante che Tom sapesse di lui.
«A dire il vero, lei è…» si bloccò per un attimo, poi riprese «Immagino tu ti ricordi la ragazza che mi ha fatto la scenata nell’agenzia matrimoniale.»
Non che Tom avesse assistito alla scena, ma aveva saputo tutto grazie a Victoria. Il moro, ricordando le parole della sorella, ghignò.
«Sì.»
«Ecco, ieri l’ho incontrata mentre tornavo a casa. Avevo deciso di tornare a piedi – avevo bisogno di pensare… Beh, questo non è importante – e lei mi ha fermato per strada afferrandomi per una spalla.­»
Non era proprio vero: l’aveva solo sfiorato, ma ad Aaron piaceva infarcire un po’ i racconti.
«Oddio, immagino la tua faccia!» il moro iniziò a ridere e l’altro arrossì, per poi prendere un boccone del suo pranzo.
«Sono stato molto composto.» precisò infastidito «Comunque sia, mi ha detto che voleva scusarsi per la sceneggiata dell’ultima volta e mi ha convinto ad andare a mangiare con lei.»
«Quindi non sei stato tu a invitarla fuori.» considerò il moro. Aaron fece una smorfia.
«Beh, direi di no…»
«Peccato. Ma come mai non sei fuggito come al tuo solito?»
Aaron tacque. Bella domanda, come mai?
«Non so…» fece indeciso «All’inizio ero intenzionato a scappare, ma ha insistito e, non so quando esattamente, ma non mi è sembrata così tanto spaventosa.» bofonchiò.
Tom si era tolto dalla faccia il sorrisino divertito e lo osservava pensieroso, tanto che Aaron si arrese e sbottò.
«Smettila di fissarmi in questo modo. Mi metti a disagio.»
«Oh, scusa. È che… Non ti ha spaventato. Come mai non ti ha spaventato?»
«Ho detto che non lo so. Cioè, non è che fossi completamente tranquillo, però sono riuscito anche a chiacchierare.» spiegò.
Parlarne così ad alta voce lo faceva sentire strano; non era abituato a fare discorsi del genere e improvvisamente sentì la propria stranezza tutta insieme. Si chiese, per un attimo, come fosse ridicolo agli occhi degli altri.
«Ed è finita così? Cioè, una cena e basta? Dovete rivedervi?» chiese Tom con la bocca piena, guadagnandosi un’occhiata disgustata dal rosso; subito dopo però si concentrò sulla risposta da dargli.
«Beh, non saprei… A dire il vero mi ha lasciato il suo numero.» bofonchiò.
Silenzio.
«Ti ha lasciato il suo numero?» Tom quasi strillò, attirandosi vari sguardi.
Aaron fece una smorfia.
«Ho pagato io la cena e lei si è arrabbiata, perché me la voleva offrire come scusa per l’altro giorno. Quindi mi ha lasciato il numero per uscire un’altra sera in modo da poter ricambiare.» spiegò conciso.
Tom lo guardò con un sorriso smagliante in volto.
«Ma che bella notizia! Quando la chiamerai?»
Aaron stette zitto e si concentrò sul suo pranzo, improvvisamente diventato la cosa più interessante del mondo.
«…la chiamerai, vero?»
Il rosso non disse ancora una parola.
«Aaron.»
«Sì?»
«Non fare stronzate, per favore.»
L’ultima frase venne detta con un tono implorante, tanto che Aaron alzò lo sguardo e si ritrovò a fissare gli occhi neri dell’amico.
«Se non me la sento perché la dovrei chiamare?» disse infine.
«Perché pare essere l’unica donna al mondo – escluse le tue sorelle e tua madre – che non ti fa morire di paura.»
Logica ineccepibile, considerò Aaron. Ma ciò non cambiava il fatto che avesse comunque paura a chiamarla.
Eppure ieri ero così convinto…
«Non saprei…» continuò vago il rosso.
Tom sospirò.
«E se venissi anche io?»
Aaron sollevò di scatto gli occhi, osservando l’amico che lo guardava esasperato.
«Lo faresti davvero?»
Provò a nascondere il tono piagnucoloso, davvero, ma non ci riuscì.
«Se è necessario per darti una mossa…»
«Tom, quanto ti amo!»
«Aaron, quando fai certe uscite mi convinco sempre di più che tu sia gay.»
Il moro lo fissava implacabile, terminando di mangiare il proprio pranzo, negli occhi un’espressione di pena per l’amico.
«Non guardarmi così.» borbottò Aaron.
«Allora, quando la chiamerai?»
«Appena avrò un momento libero…»
«Aaron.­»
«Il prossimo mese penso di non avere impegni.»
«Aaron.»
«Mh, forse sono libero anche la prossima settimana.­»
«Forse dovrei chiamare una delle tue sorelle per chiedere di aiutarti per scegliere un vestito adatto…»
«…le chiederò per questo sabato.»
Tom fece un sorrisetto soddisfatto, totalmente opposto allo sguardo avvilito di Aaron, sbiancato non appena le sorelle finirono nel discorso.
«Direi che è un’ottima idea!»
«Sei un bastardo.»
«Lo so.»
Entrambi avevano finito di mangiare e, di conseguenza, Tom si alzò.
«Fidati, mi ringrazierai.»
«Lo stai facendo solo perché vuoi conoscerla anche tu.» puntualizzò Aaron, seguendolo.
«Beh, prova a capirmi: è la prima ragazza della tua vita che non ti spaventa! Permettimi di essere curioso!»
 
 
 
«Hai finito con quegli articoli?»
Una mano sbatté con forza sulla scrivania, facendo sussultare April che non si era minimamente accorta dell’arrivo della signorina Adams, la responsabile delle stagiste – tra cui figurava anche lei, ovviamente.
Alzò lo sguardo di scatto.
«Emh, sì, cioè quasi.» finì per balbettare spaventata.
La donna la guardava dall’alto dei suoi tacchi dodici, i capelli biondi legati in una coda alta come al solito e gli occhi azzurri abilmente truccati. Bella era bella, April lo riconosceva, ma una bellezza fredda e un po’ spaventosa.
«Sì o no?»
«No. Mi manca poco però.» precisò.
Vide Miranda annuire, poi rivolgere gli occhi alle altre due ragazze – Melanie e Gwen – che la osservavano di sottocchio.
«Neanche April ha finito, quindi. Quando avete terminato, venite tutte nel mio ufficio.» sentenziò infine.
Non attese la risposta delle tre, uscì dalla sala e scomparve nel corridoio.
«E ora che vorrà mai?» mugolò April tra sé, già spaventata.
«Bella domanda.» rispose però Melanie, spostandosi i capelli scuri che le erano scivolati sul viso.
«Sbrighiamoci, voglio evitare di farla aspettare più del dovuto.» intervenne Gwen con tono gelido.
April le lanciò un’occhiata: dalla sua faccia, sembrava ancora arrabbiata con il mondo intero.
Scrollò le spalle; non che gliene importasse qualcosa, in effetti.
Senza dire altro riprese rapida a lavorare, cercando di leggere più velocemente possibile senza però perdersi una singola lettera.
Riuscì a terminare il tutto in poco più di mezzora; notò che anche le altre avevano appena finito, perciò si alzò, prese il cellulare infilandoselo in tasca – quel giorno aveva optato per dei comodi jeans – e uscì con le altre dalla sala, per dirigersi nell’ufficio della signorina Adams.
Fu Melanie a bussare, mentre April e Gwen rimasero alle sue spalle in attesa.
«Avanti.»
Entrarono quindi nell’ufficio della donna; era di medie dimensioni – Miranda era sì una responsabile, ma comunque un “pesce piccolo” – sui toni del crema; al centro della stanza una scrivania in vetro era per metà coperta da fogli, computer, portapenne e una piantina grassa, tutto in completo ordine. Una grande finestra occupava le spalle della scrivania – non c’era una grandissima vista come April aveva invece visto nell’ufficio del vicedirettore del reparto di Tecnologia, ma era comunque meglio di niente.
A completare il quadretto, una libreria di legno, pochi quadri con paesaggi bucolici e due poltrone.
«Prego.» fece Miranda, accennando alle poltrone.
Gwen si sedette senza attendere le altre due, mentre April e Melanie si guardarono tra di loro, nessuna intenzionata a sedersi e rubare il posto all’altra.
«Siediti pure.» fece infine April con un sorriso accennato; la mora annuì, mormorando un grazie a mezze labbra, e si sedette nell’unica poltrona rimasta.
La signorina Adams non parve minimamente scalfita dal fatto che April fosse in piedi, e cominciò a parlare come se nulla fosse.
«Immagino vi stiate chiedendo perché vi abbia convocate qui. Sarò breve: i vostri livelli e le vostre preparazioni sembrano essere tutte più o meno sullo stesso livello, motivo per cui è stato deciso di mettervi alla prova con un progetto.» spiegò.
Le tre ragazze finirono per scambiarsi delle occhiate preoccupate.
«Dovrete scrivere un articolo. Non mi interessa come deciderete di strutturarlo, se vorrete fare un’intervista, chiedere consiglio a un esperto, lasciarvi prendere dalla fantasia o affidarvi a internet, tutto questo sta a voi. Io vi darò soltanto l’argomento.»
Altra pausa, forse un po’ ad effetto.
April sentì il cuore tremare presa dall’ansia.
«L’argomento è il matrimonio
Silenzio.
Beh, non è un argomento così difficile, è qualcosa di già trattato in fondo…, pensò vaga April, un po’ più tranquilla.
«Immagino che qualcuna di voi stia pensando che sia un argomento facile. Toglietevelo dalla testa.»
April chinò d’istinto la testa, sentendosi toccata.
«È vero, è un argomento molto diffuso nei giornali da donna, ci sono anche delle riviste esclusivamente dedicate a questo. Ma proprio per tale motivo scrivere un articolo originale sarà ancora più difficile: dovete essere interessanti, divertenti, piacevoli, senza però cadere nei luoghi comuni o nello stucchevole.» spiegò la donna.
«Qual è la scadenza?» intervenne Melanie.
La donna sorrise.
«La fine del vostro stage, ovvero fine settembre. Siamo a maggio, avete parecchi mesi per poterlo scrivere, consideratelo come un test finale.» spiegò.
Quattro mesi e mezzo quindi… Beh, ho tempo a sufficienza per tirare fuori qualcosa di interessante, considerò April tra sé.
«Quindi abbiamo completo campo libero?» chiese conferma Gwen.
«Esatto. Non mi interessa su cosa voi vi vogliate concentrare, come lo vogliate strutturare. Deve essere però un articolo sui matrimoni.» le guardò «Avete altre domande?»
Le tre si lanciarono una veloce occhiata, ma tacquero.
«Pare di no. Beh, in questo caso tornate pure a lavoro.» concluse la donna.
Le due giovani si alzarono mentre April si avvicinava già alla porta. Un rapido saluto e poi uscirono, dirette di nuovo al loro mini ufficio.
La bionda sentì le altre due chiacchierare, ma non si unì alla conversazione e tirò fuori il telefono: era già l’ora della pausa pranzo.
Poi, proprio mentre scorreva il pollice sulle notifiche non lette – prevalentemente avvisi di nuove mail, ultime news del giornale e un avviso sul meteo del giorno – il telefono vibrò, mostrando l’avviso di un nuovo messaggio.
Lo aprì rapida, senza darsi il tempo di leggere il mittente.
“Ehi, April. Dovrebbe essere l’ora della tua pausa pranzo, giusto? Che ne dici di mangiare assieme?”.
In alto, in cima alla chat, c’era scritto “Damian Ph.”, così come lei lo aveva salvato.
Il viso le si illuminò e, mentre si sedeva di fronte alla scrivania, si affrettò a rispondere.
“Sì, sto proprio per andare a pranzare a dire il vero. Non saprei, hai qualche idea su dove andare?” scrisse in risposta.
Mentre attendeva fremente il nuovo messaggio, si affrettò a prendere la giacca e a ficcare tutto il necessario dentro la propria borsa.
Il telefono vibrò di nuovo.
“Ovviamente. Ti aspetto tra dieci minuti nella hall.”.
April ridacchiò mentre notava che l’uomo non l’avesse interpellata su altro.
Non rispose e andò in bagno, senza accorgersi dell’occhiata infastidita della collega; si aggiustò rapida il trucco, ripassandosi un po’ di mascara e il rossetto. Si pettinò i capelli lisci e biondi, si aggiustò la frangia sugli occhiali rossi e corse verso l’ascensore.
Quando arrivò alla hall Damian era lì che l’aspettava, seduto su una poltroncina; aveva un paio di jeans scuri, una camicia verde sollevata fino ai gomiti e i suoi soliti occhiali neri.
«Dovrei dire che il tuo messaggio mi ha stupito?» lo apostrofò la bionda, avvicinandosi con un sorrisino.
L’uomo, fino a quel momento chinato sul telefono, alzò lo sguardo e fece un sorriso divertito.
«Solo se è la verità.»
La verità era che April si era piuttosto sorpresa al messaggio, ma decise di mostrarsi sicura di sé e di conseguenza scrollò le spalle.
«Allora non lo dirò.»
Damian rise.
«Vogliamo andare?» disse solo, facendo gesto con la mano verso la porta.
April annuì con un sorrisetto, precedendolo verso l’uscita.
Una volta fuori dall’edificio, Damian le poggiò una mano sulla schiena, guidandola verso la sinistra.
«Da questa parte.»
April lo seguì.
«Dove mi stai portando?»
«Niente di che, sta tranquilla. È un ristorante che ho conosciuto da poco, è italiano, fa dei risotti che sono la fine del mondo.» spiegò l’uomo.
«Cucina italiana! La adoro!»
Italiano? Risotti? Oddio…, pensò poi preoccupata.
La verità era che, anche se aveva appena fatto finta di essere un’amante della cucina italiana, non la conosceva per niente. Troppo costosa per i suoi budget limitati, motivo per cui aveva raramente mangiato cibo italiano – e quasi sempre pizza e pasta di altro tipo. La sua conoscenza terminava lì, ma sarebbe morta piuttosto che ammetterlo.
Arrivarono infine di fronte a un locale dall’aspetto piuttosto piccolo ma accogliente. Entrarono all’interno, dove un cameriere con un papillon nero, panciotto e mani incrociate di fronte a sé andò loro incontro.
«Salve signori. Un tavolo per due?» domandò educato.
April però era troppo presa dal guardarsi attorno: l’interno era molto bello e le dava un’idea di grande raffinatezza. Non era mai stata in un posto del genere – nessuno l’aveva mai portata in posti del genere.
Spero solo che paghi lui. Non credo di avere abbastanza soldi appresso, pensò agitata.
La cosa peggiore sarebbe stata fare la figura della poveraccia. Lo stage non le offriva un grande stipendio, e i suoi genitori… Meglio lasciare stare.
Si ritrovò trascinata in un tavolo nell’angolo del locale; era già apparecchiato e un vaso di vetro, al centro, mostrava una rosa rossa dai petali perfetti.
Banale, pensò, ma le piacque comunque.
All’interno non c’erano molte persone, giusto tre o quattro tavoli erano occupati, ma considerando lo scarso spazio era considerevolmente pieno.
«Vi porto subito i menù.» disse ancora il cameriere.
April annuì, più concentrata a guardarsi attorno.
«Ti piace?»
La voce del suo accompagnatore la riportò sulla terra.
«Molto! Non sapevo ci fosse un posto del genere qui vicino.» disse sinceramente stupita. Damian rise.
«Nemmeno io, se non ché ci sono per caso passato l’altro giorno mentre cercavo un posto diverso dal solito in cui pranzare. Ho subito pensato che potesse piacerti.»
April arrossì, ma si sforzò di nasconderlo con una risata e rispose.
«Oh, immagino ora debba imbarazzarmi e stupirmi del fatto che tu abbia pensato a me.» lo provocò.
Il fatto che fosse effettivamente così ma stesse mentendo non la fece sentire per niente in colpa.
«Magari.» rispose a tono Damian, con un sorriso affascinante.
April stava per rispondere, ma l’arrivo del cameriere con i menù la interruppe.
«Ecco a voi, signori. Nel frattempo, gradite qualcosa da bere?­» chiese il giovane.
April guardò Damian.
«Del vino rosso andrà bene, quello della casa magari?» fece l’uomo retorico, osservando April.
Merda, non so nulla sui vini.
«Per me è uguale.» si ritrovò a dire, per poi darsi dell’idiota.
Ora gli sarò sembrata una poco sofisticata!, pensò preoccupata.
Ovviamente, tutto ciò rimaneva nella sua testa, dato che da fuori continuava a mantenere un sorriso impeccabile. Avrebbe dovuto tentare una carriera da attrice.
«Allora va bene quello.» terminò Damian, facendo un vago gesto con la mano. Il cameriere annuì, poggiando i menù sul tavolo e sparendo dietro la cucina.
April prese il menù, iniziando a sfogliarlo.
Risotto alla milanese, risotto agli asparagi, ai porcini, pasta ai frutti di mare, alla carbonara, all’amatriciana…, scorreva i piatti senza sapere cosa fossero – tranne ovviamente quelli di facile interpretazione – e il viso con il consueto sorriso.
«Se mi permetti, ti consiglio il risotto ai porcini. È qualcosa di divino.»
Alzò di scatto lo testa verso Damian, sentendole il collo dolerle all’improvviso.
«A dire il vero è da molto che non mangio quello alla milanese.» si ritrovò a dire, senza sapere neanche lei cosa fosse.
Damian però non parve sospettare di nulla.
«Come preferisci.» disse solo.
«Credo mi fiderò di te però.» aggiunse subito dopo.
Meglio qualcosa di collaudato da altri, pensò.
L’uomo le sorrise e subito dopo arrivò il cameriere con il vino. Lo versò a entrambi, per poi raccogliere le ordinazioni e sparire così com’era arrivato.
«Spero ti piaccia questo posto.»
«Eccome!» rispose rapita April, che aveva ripreso a guardarsi attorno.
Appena si accorse del tono usato, però, si schiarì la gola e sorrise affascinante.
«Mi piace parecchio, mi ricorda un posto in cui sono andata un po’ di tempo fa.» mentì.
Damian annuì.
«Quindi sei un’appassionata di cucina italiana?» domandò.
Merda merda merda.
«Diciamo di sì, ma non mi ritengo un’esperta.» disse con modestia. Prima che l’altro potesse replicare qualcosa, continuò a parlare «Come va il tuo lavoro?» chiese.
Meglio parlare di argomenti più stabili, pensò con un brivido April.
Damian non sembrò scalfito dal repentino cambio di argomento e scrollò le spalle.
«Come al solito. Corro da una parte all’altra, faccio una foto a questo tizio e poi all’altro, ritocco con i filtri giusti…» snocciolò con tono annoiato.
«Ritocchi?» fece April stupita.
Damian rise.
«Cosa credi, che le foto dei giornali non siano ritoccate?»
April arrossì, ma anche questa volta cercò di nasconderlo.
«Certo che no. Solo che non sapevo ti occupassi anche di questo.» cercò di salvarsi in extremis.
«Quando serve.» disse solo l’altro.
April annuì.
«E tu? Ho sentito che vi stanno sommergendo di lavoro in questo periodo.»
«Quanto basta per non avere mai un attimo libero, ma mi piace ciò che faccio.» rispose April sincera forse per la prima volta da quando erano usciti.
Questa verità, considerò, non poteva nuocere all’immagine che voleva dare di sé.
«Meglio così. Non c’è cosa peggiore che fare qualcosa che non piace.» rispose Damian.
April annuì, senza saper cosa rispondere.
«Spero che al tuo ragazzo non dispiaccia che tu sia venuta a pranzo con me.»
La frase la fece ridere dentro di sé.
Ecco dove voleva arrivare, pensò a metà tra il divertito e il soddisfatto.
«Non ho un ragazzo.» rispose con aria noncurante, mostrando le sue carte.
Damian sorrise affascinante.
«Oh, beh, meglio così.» disse.
La semi conversazione venne interrotta dall’arrivo del cameriere, che aveva con sé due piatti fumanti.
«Ecco a voi, signori.» disse educato, poggiando i due piatti.
«Grazie.» rispose April, venendo seguita dall’altro.
Il resto del pranzo proseguì in maniera tranquilla, mangiando e parlando del più e del meno.
Il risotto la riempì così tanto che non fu in grado nemmeno di ordinare un dolce, mentre il vino rosso le diede più alla testa di quanto pensasse.
«Sei sicura di non volere un dolce?» le chiese Damian.
April annuì.
«Assolutamente. Non credevo mi saziasse così tanto.» disse sincera.
L’uomo annuì.
April diede un’occhiata al cellulare.
«Oddio! Non credevo fosse così tardi!» fece all’improvviso.
Damian la guardò.
«Adesso andiamo. Non preoccuparti, ci metteremo cinque minuti a ritornare.» la tranquillizzò.
Poi si alzò in piedi, la mano sul portafoglio.
April si alzò di conseguenza, prendendo la propria borsa e iniziando a frugare all’interno.
«Non osare tirare fuori il borsellino. Io ti ho invitata, io pago.» la frenò l’uomo.
April, da brava attrice, iniziò a protestare.
«Non voglio sentire lamentele.» disse però il fotografo.
Alla fine la giovane si arrese, lasciando che l’uomo andasse alla cassa da solo.
Per fortuna. Non sono ancora sicura di avere abbastanza soldi, pensò tra sé.
Lo aspettò perciò al tavolo, giocherellando con il cellulare. Poco dopo, Damian si avvicinò.
«Vogliamo andare?» chiese.
April annuì con un sorriso, lasciandosi condurre fuori dal locale e uscendo tra le calde strade di New York dove l’estate preannunciava il suo arrivo.
Continuarono a chiacchierare del più e del meno durante il tragitto e finirono ben presto per ritrovarsi di fronte all’ascensore del proprio edificio.
«Grazie mille per il pranzo.»
«Grazie a te, spero tu mi possa concedere un’altra uscita, una di queste sere.» rispose l’uomo.
April sorrise ammiccante.
«Vedremo.» disse vaga.
Eh no tesoro. Questa volta non mi farò fregare: aspetterò un po’ prima di venire a letto con te, pensò decisa.
Non voleva finire come con Daniel, che una volta ottenuto quello che voleva (senza aspettare troppo) l’aveva mollata via telefono. Come anche Andew, o Gabriel, o John…
Damian le sorrise un’ultima volta mentre le porte dell’ascensore si chiudevano, all’interno April che tornava a lavoro.
Lo so già. Questa volta sarà completamente diverso.
 
 
 
Aaron fissava il proprio telefono con aria disperata.
Sullo schermo brillava il profilo di April, aperto nella rubrica. Il suo numero era sempre là, non era fuggito nonostante le preghiere di Aaron.
Merda, dov’è finito tutto il coraggio di ieri sera?, pensava depresso.
In effetti il giorno prima era carico: aveva già deciso di richiamarla – di sicuro nella cena gli avevano messo qualche droga, altrimenti non si spiegava.
Sospirò, lasciando andare la testa sul divano di casa propria.
Era tornato da mezzora e i messaggi di Tom avevano già iniziato ad assillarlo.
“Se non la chiami farò in modo di avere il suo numero e ti distruggerò.” c’era scritto nell’ultimo.
Aaron, a quel punto, si era arreso e aveva deciso di chiamarla. Ma questo non significava che fosse tranquillo, tutt’altro.
Avanti Aaron. Comportati da uomo. È solo un’uscita per accettare le sue scuse, no? Non c’è nulla di male, lei l’ultima volta non ti ha fatto niente quindi non c’è alcun motivo per avere paura.
Con questo pensiero in testa si costrinse a pigiare lo schermo in corrispondenza della cornetta. Prima che potesse anche solo ripensarci, la chiamata partì.
La cornetta rossa non gli parve mai così invitante come in quel momento.
Non rispondere, non rispondere, non rispondere
«Pronto?»
Merda.
«A-april? Sono Aaron.» balbettò dopo un paio di secondi di agitazione.
«Oh, Aaron, ciao! Come stai?»
Malissimo. Vorrei morire in questo momento.
«Benissimo.» mentì «Senti, ti ho chiamato a proposito di ieri sera…» iniziò.
Un attimo di silenzio e Aaron se la immaginò lì, con i suoi occhioni verdi immersi nel nulla per pensare.
«Oh, certo! Dimmi tutto.»
Aaron sospirò e si costrinse ad avere un tono normale.
«Ecco, se ti andava bene si poteva fare per questo sabato, che ne dici?»
La sua voce tremò solo alla fine, ma si convinse che fosse solo una sua impressione.
«Questo sabato? Non dovrei avere impegni…»
Le parole di Tom gli risuonarono nella testa: “Dille di chiamare anche una sua amica. Non voglio essere il terzo incomodo.”.
Aaron non voleva per niente avere un’altra bestia a cena con sé, ma considerò che fosse un prezzò da pagare per non passare la cena da solo con quella ragazza.
«Perfetto allora. A dire il vero c’è anche un mio amico che viene con noi, quindi se vuoi portarti un’amica appresso…» fece, lasciando la frase sospesa.
«Oh. Beh, ok allora. Dove ci incontriamo?»
A questo non aveva pensato.
«Emh, a dire il vero non avevo ancora un’idea precisa. Facciamo che ti mando un messaggio?» rispose.
«Va benissimo. Ci sentiamo, allora.»
«Ci sentiamo.» disse solo Aaron.
La chiamata si chiuse un secondo dopo per merito della giovane, mentre Aaron aveva ancora il telefono sull’orecchio.
Sospirò, ponendolo di fronte agli occhi.
“L’ho chiamata. Ci vedremo sabato. Non osare mancare.” scrisse telegrafico.
“Ricevuto. Ora puoi riprende a respirare.”.
“Fottiti.”.
Non ricevette risposta, ma Aaron già lo immaginava ridendo.
Ma chi me lo ha fatto fare?
  
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