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Autore: Pascal76    17/08/2017    0 recensioni
Quando il mondo ti crolla addosso, non lasciare mai che la cosa
ti distrugga, indipendentemente dalla violenza con cui ti colpisce.
Questo Nina lo sa.
Lo sa da quando il primo attacco ha ridotto tutte le persone che conosceva,
pure i genitori, in mostri assassini. Sa che un giorno splenderà il sole anche per lei e suo fratello, sa che un giorno tutto si sistemerà, anche se nulla sarà più come prima. Nina lo sa, e questo le basta per lottare, per far si che la malattia che silenziosamente le sta portando via il fratellino venga sconfitta.
Ma quando entrambi verranno portati al Bureau, centro di raccoglimento per i pochi sopravvissuti all'attacco, Nina avrà di fronte una realtà ben più amara della precedente a cui è sopravvissuta.
Capirà che ha di fronte una realtà ben più grande e complessa di lei, che a volte l'unica arma per vincere una battaglia è evitare che questa ti spezzi il cuore, o peggio ancora l'anima.
Genere: Avventura, Generale, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TIRED AND UNDER PREPARED

 

I quattro giorni successivi li passo sdraiata sul lettino a fissare la parete : magari, attraverso la mia immagine, riesco a scorgere qualcosa che accade dietro a quell'insormontabile muro di vetro.

A regolari intervalli di tempo viene un'infermiera a controllare la mia situazione : da quel che ho capito, sono pronta per essere dimessa. Ma la vera domanda è … una volta fuori di qui, dove vado?

Lei mi spiega che mi trovo nel Bureau, una sorta di enorme punto di raccolta per persone che, come me, si sono salvate da ciò che loro definiscono un “errore inevitabile”. Ogni volta che le chiedo di più, lei non risponde e se ne va, così capisco che magari devo lasciare un po' di tempo e darle l'impressione che sono pronta a sopportare qualsiasi brutta informazione.

Di Alex non so più niente da giorni e la cosa mi sconvolge e non poco : se non posso vederlo, vuol dire che di sicuro è successo qualcosa di orribile.

Man mano che le ore passano, si fa largo in me il brutto presentimento che abbiano trovato qualcosa di sbagliato – magari un virus o qualcosa che io ho sbagliato – in lui.

Quando, il quinto giorno, l'infermiera mi dice che devo rimanere ancora in osservazione, le speranze di poterlo vedere di nascosto calano drasticamente. Le chiedo ancora se sta bene, ma lei non mi risponde, ignorando la domanda e andandosene come se nulla fosse.

Tutto ciò mi fa pensare che in realtà non vogliano che io lo sappia perché temono una reazione non contenuta da parte mia. Ma d'altronde che possono aspettarsi da me, che sono riuscita a tenerci in vita per ben 6 mesi, quando mi sputano in faccia il fatto che non posso vedere Alex?

Gioia? Festoni e coriandoli? Un biglietto di “congratulazioni”?

Non lo conoscono. Sapranno più cose di me questo è vero, ma non avevano la più pallida idea di quello che gli stava succedendo finché non gliel'ho detto io.

Devo riprenderlo, liberarlo. O come minimo lasciare che mi concedano la libertà di visitarlo quando voglio.

 


Quando mi risveglio il settimo giorno, ho delle visite. All'inizio mi ci vuole un po' a capire di chi si tratta, essendo convinta che sia Alex, ma rimango delusa quando vedo seduto sul mio letto un ragazzo in tuta mimetica.

Sta fissando il monitor, il volto piegato in un'espressione concentrata. I capelli biondi sembrano splendere alla luce bianca candida emanata dalle pareti.

Quando si accorge che lo sto fissando, mi fa un cenno con il capo che all'inizio non comprendo. Poi capisco che è come un saluto, una sorta di “sei viva, ma speravo che non lo fossi”, non detto. I suoi occhi azzurri mi guardano duramente e per un attimo in quello sguardo riconosco qualcun altro.

« Chi sei? » gli chiedo, circospetta, anche se la sua presenza non mi disturba del tutto.

« Sono di turno ai controlli. Devo assicurarmi che non sia morta o non abbia completamente dimenticato chi sei. » risponde, la voce piatta che nasconde però una punta di sarcasmo.

« Perché ce l'avete così tanto con questa storia? » chiedo, scettica.

« Quale storia » dice, guardandomi di sbieco.

« Io so chi sono, mi ricordo tutto quello che ho passato. Non c'è bisogno che continuiate a chiedermelo. »

« Buono a sapersi, perché tuo fratello non ricorda assolutamente nulla. » improvvisamente mi sento come quando stavo sprofondando nell'oblio e non c'era via d'uscita o un ramo a cui appigliarsi. La sensazione di cadere nel vuoto, i polmoni svuotarsi d'aria, la mente confusa ed annebbiata e le stesse parole che si ripetono in un susseguirsi di ricordi che mi fanno male. Prima i nostri genitori, poi Alex …

« In che senso? » chiedo, con un filo di voce.

« Non rcorda molto, biascica in continuazione cose strane e continua a ripetere il tuo nome, anche se non sembra sapere chi sei. » risponde, la voce piatta come prima. Forse perché ha visto la mia espressione, forse per altro, aggiunge : « è sotto effetto di farmaci pesanti. Tutto regolare. Devi solo dargli tempo. »

« Quanto? » chiedo, con gli occhi che cominciano a pizzicarmi.

« Può variare … di solito ci impiegano un paio di ore a ricordare tutto. » risponde, con nonchalance. La sua indifferenza mi colpisce come un mattone in faccia.

« Da quanto sei qua? » chiedo con l'intenzione di cambiare discorso.

« Da molto prima di te » risponde. Alzo gli occhi al cielo. « Intendo... da quanto tempo sei qui in camera con me? »

« Neanche un quarto d'ora. »

All'improvviso la porta scorrevole si apre ed entra la donna dagli occhi verdi magnetici. Penso che la ricorderò così : occhi verdi, aria socievole, ma di lei non mi fiderò mai troppo.

Si avvicina al mio letto e controlla il monitor. Non so che diamine ci sia scritto, ma devono smetterla di darmi l'impressione di essere una malata terminale. « Tuo fratello ha chiesto di poteri incontrare.  Sembrava molto confuso, ma piano piano ha cominciato a ricordare le cose con chiarezza e ora non la smette di parlare di te, di quanto sei meravigliosa, di come ti sei battuta contro i mostri... sei il suo idolo insomma » dice, riempiendomi il cuore di speranza. Piego le labbra in un sorriso involontario e per la prima volta dopo giorni sento finalmente di poter gioire per qualcosa che ne vale la pena.

« Quando? » chiedo a bruciapelo. La donna esita lanciando fugaci occhiatine al ragazzo biondo, il che mi fa pentire amaramente di quell'attimo di gioia. « Che c'è? Cosa non va? »

« Le procedure dell'incontro saranno diverse per te che vieni dall'Esterno, ma non preoccuparti, lo facciamo per il tuo bene. » sono confusa. « Sarai in una stanza diversa dalla sua, ma avrete comunque la possibilità di comunicare tra di voi. »

« Perché non posso stare con lui? » chiedo, ancora più confusa.

« Siete entrambi in Quarantena. » si limita a rispondermi, ma so che intende qualcosa d'altro.

Detto questo lascia la stanza senza prima ridare un'occhiata al monitor, per poi allontanarsi a passo svelto.

« Tu ne sai qualcosa vero? » dico a lui, che durante tutta la nostra breve chiacchierata è rimasto impalato a fissarmi.

Sospira con finto dispiacere. « Ho la bocca cucita Jane Doe. »

« Mi chiamo Nina » replico con tono più seccato del voluto.

Lui fa spallucce e si avvicina ancora di più al lettino dove sono sdraiata.

Con la delicatezza di un elefante in un negozio di cristalli, mi prende il braccio livido e lo osserva annuendo. Dopodiché se ne va senza proferir parola.

Come sono strani. Penso.

Mi alzo e raggiungo la porta scorrevole trasparente : dopo la parete a specchio, è una delle uniche cose che mi consente di poter osservare l'ambiente esterno alla mia “cella”.

Sembra di essere in galera. Non che ci sia mai stata, ma un corridoio lungo e stretto, interrotto qua e là da tante altre porte scorrevoli trasparenti dà tanto l'aria da carcere. Tutte quante le celle sono illuminate all'interno, segno che ci deve per forza essere qualcuno. Ad un certo punto passa una guardia. Di scatto indietreggio e mi nascondo appoggiandomi alla parete bianca, come quando, al negozio di vestiti, avevo avvertito la presenza di qualcuno che si avvicinava. Ai tempi il pericolo erano i “malati”, ora il pericolo sembro essere io. E se quelli che si prendono cura di me in realtà sono pure loro “malati”, allora sono proprio nelle mani sbagliate.

Eppure, per tutto il poco tempo che ho passato in prigionia, mi sembra di non aver mai avvertito quella sensazione.

La sensazione di essere carne al macello. 

   
 
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