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Autore: Mizurai    18/08/2017    2 recensioni
L'orgoglio talvolta può corrodere l'animo degli uomini fino a divorarlo, portandoli alla rovina.
Enamor, Aldmer originaria dei caldi lidi di Summerset, ripercorre gli eventi che caratterizzarono la sua vita con voce velata dalla nostalgia e dalla tristezza. Dolci ricordi, orrori, gioie e rimpianti diventano così i colori con i quali la protagonista dipinge un'esistenza dedita alla ricerca ed al contempo, alla fuga da se stessa.
Genere: Dark, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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bocciolo

Il mio nome è Enamor. Quando venni alla luce, nel pallido pomeriggio di un Middas di Stella del Mattino, correva l'ottavo anno della terza Era e nelle Isole di Summerset da lunghi anni regnava ormai la pace e la prosperità.

Enamor, nel linguaggio dunmer significa "fierezza", fu mia madre a sceglierlo per me. Non mi disse mai cosa la portò a preferire questo nome ad un altro, o come avesse appreso l'idioma parlato dai Mer delle grigie terre continentali, così distanti e diversi dai popoli dei verdi lidi di Summerset.

Ma d'altronde io non glielo chiesi mai.

Solamente molti anni dopo, quando ormai ineluttabili eventi mi avevano spinta ben oltre i confini delle Isole compresi a fondo la doppia accezione del termine Enamor. Secondo l'idioma delle Terre di Cenere infatti, esso simboleggia la fierezza ma in egual misura anche la superbia, racchiudendo in se valori positivi e negativi. Curioso come mia madre abbia potuto scegliere per me un nome tanto appropriato, nonostante ella non potesse ancora sapere che cosa il destino mi avrebbe riservato.

I primi anni della mia vita li trascorsi proprio con mia madre, nella casa che le avevano lasciato i suoi genitori. Una piccola capanna in legno in riva al mare, nell’Auridon, non molto distante dal villaggio di Potansa. Mio padre non lo ho mai conosciuto.

Nonostante ciò che aveva fosse ben poco e la gente del villaggio l’avesse bollata come sgualdrina, mia madre mi crebbe da sola, senza mai farmi mancare nulla. Doveva amarmi davvero molto, ma a quell’epoca ero ancora troppo cieca per rendermene conto.

Ricordo ancora il suo sorriso e le sue parole gentili, mi manca terribilmente.

Sebbene siano trascorse due Ere e lei ormai sia morta da tempo mi piace pensare che sia ancora lì; sotto il porticato della nostra casa, in piedi accanto alla porta ad aspettarmi. Proprio come quando ero bambina, i tiepidi raggi del sole al tramonto a baciare il suo dolce viso ed i suoi capelli dorati, mentre una brezza leggera le arriccia il bordo della lunga veste in tela grezza.

E ricordo bene il mare, i suoi colori e il suo profumo. Trascorsi la mia infanzia su quelle rive, lasciandomi cullare dal suono delle onde e dai caldi raggi del sole di Summerset. Era un luogo incontaminato, pregno di una grazia ancestrale. Il sole lambiva la superficie del mare facendola rifulgere di mille gradazioni di blu profondo, per poi tingersi di cremisi al sopraggiungere del tramonto.

Un lungo litorale, bagnato da limpide acque cristalline si estendeva per chilometri verso oriente. Lì la vegetazione cresceva incolta, in una natura che aveva un che di selvaggio e primordiale, una bellezza antica della quale oggi non mi rimane altro che uno sbiadito ricordo.

Un’immensa distesa di erba ricopriva l’intero lido; lunghi fili color verde smeraldo si muovevano sinuosi, trasportati dalla brezza leggera proveniente dal mare. Tra di essi crescevano numerose margherite e piccoli fiori dai petali color celeste chiaro dei quali ormai non rammento più il nome.

Ricordo però il loro dolce ed intenso profumo, mentre ne intrecciavo gli steli delicati in piccole ghirlande, seduta ai piedi del litorale.

E ricordo le farfalle. Così belle e leggiadre, mentre volteggiavano intorno a me come se danzassero sospese dal vento stesso. Le loro ali risplendevano di mille colori diversi; alcune pallide ed opalescenti, altre vivide ed attraversate da leggere venature, mentre altre ancora, al contatto con i raggi del sole parevano quasi esser state scolpite nell'oro.

Avrei voluto restare in quella piccola casa, accanto a mia madre, ad intrecciare ghirlande di fiori cullata dal dolce suono delle onde fino alla fine dei miei giorni. Ma a volte è la vita stessa a prendere pieghe inaspettate e per quanto indesiderate siano, spesso non vi è alcun modo di sottrarvisi; tutto ciò che ci è concesso è osservare impotenti gli eventi compiere il loro corso.

Allora avevo dieci anni circa, il pomeriggio era trascorso velocemente e giunto il tramonto mi affrettai a rientrare a casa. Mia madre mi attendeva sulla soglia sotto il porticato; accanto a lei una donna più anziana, dagli occhi verdi ed i capelli ramati attendeva immobile a sua volta. Era abbigliata in modo sontuoso, una lunga veste color porpora dalle maniche ampie le ricadeva fino ai piedi, stretta in vita da una cintura d’argento. I capelli ramati, attraversati solo da alcuni fili bianchi le incorniciavano il volto chiusi in una crocchia. Il suo sguardo gelido aveva un che di severo e nobile al tempo stesso.

Mia madre me la presentò come una sua zia, giunta da Alinor a farle visita. Prima d’allora non avevo mai visto qualcuno proveniente dalla Capitale, ma d'altronde non avevo mai lasciato i Lidi Orientali, se non una o due volte per recarmi con mia madre al vicino villaggio di Potansa.

La signora della Capitale era molto diversa dalle persone che avevo incontrato finora, i suoi gesti erano lenti e misurati, di una grazia quasi imperiosa. Per tutta la cena non riuscii a non distogliere lo sguardo dalla sua figura, rapita da tanta eleganza a me sconosciuta. 

Gestiva la servitù nella tenuta di una nobile e prestigiosa famiglia di Alinor, spiegò mia madre. Si sarebbe fermata da noi per la notte, per poi ripartire per la Capitale la mattina seguente, assieme a me.

Quando udii questa sentenza fu come se il tempo stesso rallentasse il suo corso fino a fermarsi, lasciandomi immobile come pietrificata mentre le parole di mia madre mi attraversavano simili ad una pioggia gelida.

La signora della Capitale mi avrebbe garantito una casa ed un futuro. Una vita dignitosa, lontano dalle spiagge dei Lidi Orientali, una casa dove non avrei più dovuto patire ne fame ne povertà. Desiderava di meglio per me della vita di miserie e privazioni che lei stessa aveva vissuto in quella casa, sola, costretta ai lavori più squallidi ed umilianti.

Mia madre proferì queste parole con il capo chino, quasi a non voler incontrare il mio sguardo. Io non dissi nulla, rimasi lì, seduta di fronte a lei, incapace di reagire. Rimanemmo così per un lungo istante, immobili, con solo il suono del vento autunnale a colmare il silenzio tra noi.

Quella notte piansi a lungo, in silenzio, rannicchiata in un angolo della mia stanza. Per la prima volta nella mia vita mi sentii davvero sola.

Il mattino seguente fui svegliata all’alba, le mie cose erano già state sistemate in un piccolo fagotto che ora giaceva ai piedi della porta d’ingresso. Mia madre si chinò per abbracciarmi un’ultima volta. La signora della Capitale mi attendeva fuori e una volta raccolto il mio fagotto, mi avviai al suo fianco verso il sentiero che conduceva al villaggio di Potansa. Mi voltai indietro ancora una volta, prima di vedere scomparire all’orizzonte quella che era stata la mia casa. Mia madre era ancora lì, accanto alla porta a guardarmi partire. Quella fu l’ultima volta che la vidi.

Il tratto a piedi fino a Potansa lo trascorsi in silenzio, camminando accanto alla signora della Capitale. Giunte al villaggio ci attendeva il cocchio che ci avrebbe condotte fino al porto di Silsailen. Il viaggio fu lungo e senza soste. Seduta in un angolo del cocchio, osservai in silenzio il paesaggio scorrere veloce sotto i miei occhi.

Quando infine giungemmo alle porte di Silsailen il sole stava ormai tramontando; le acque placide del mare sembravano ardere del medesimo fuoco mentre lambivano coi loro flutti le fiancate dell'immensa imbarcazione dalle vele dorate che ci aspettava ormeggiata al porto.

Non ero mai salita su una nave simile prima d'allora, né avevo mai attraversato il Mare Interno che separa l'Auridon dalla grande isola di Summerset.

Quando infine vennero mollati gli ormeggi e avvertii l'enorme vascello muoversi sotto i miei piedi cullato dalle possenti braccia del mare sussultai all'improvviso. Per quanto sul mio giovane cuore già gravasse il peso della lontananza, non potei che sgranare i miei occhi dalla meraviglia e sorridere incantata alla vista dello spettacolo che si aprì d'innanzi a me. Le acque profonde del Mare Interno, tinte di un color porpora acceso, circondavano l'imbarcazione estendendosi a perdita d'occhio fino a lambire la costa che emergeva all'orizzonte, avvolta dalla nebbia.

Non distolsi lo sguardo per un solo istante, persino quando il sole calò affogando fra le acque scarlatte del mare, lasciando così il posto alla fredda luce di Jone crescente, sola in cielo in quella notte di metà Stella della Sera. Trascorsi le ore a bordo del vascello che ci avrebbe condotte sulle rive di Shimmerene rapita dall'inquietante bellezza dell'immensa distesa d'acqua nera e profonda che si dispiegava d'innanzi ai miei increduli occhi, dimentica delle inclementi parole di mia madre, come anche dei dubbi e delle incertezze circa la nuova vita che mi attendeva oltre i confini dell'Auridon. Ma d'altronde allora non ero altro che una semplice bambina di provincia, che ad eccezione del piccolo villaggio di contadini e dei lidi che lo circondavano aveva visto e conosciuto ben poco del mondo.  

Quando la nave attraccò al porto poco distante dalla fiorente città di Shimmerene, era ormai notte fonda. Purtroppo rammento ben poco del breve tempo che trascorsi fra le mura di quel borgo, in compagnia della signora della Capitale. Probabilmente a causa della stanchezza e del lungo viaggio che aveva inevitabilmente finito col provare sia il mio corpo e la mia mente.

Passammo la notte nella piccola stanza di una locanda in città, per poi ripartire il giorno seguente alle prime luci dell'alba.

Il viaggio sarebbe stato lungo e senza soste, se non per rifocillare i cavalli.

Mi disse la signora della Capitale mentre i nostri pochi bagagli venivano assicurati al retro del cocchio.

Quando la carrozza partì al sorgere del sole, lasciandosi alle spalle il borgo di Shimmerene ed i porti poco distanti. Fu come se assieme ad essi vedessi svanire dietro di me a poco a poco anche la mia casa, i miei affetti e la mia vita ormai distanti. Fu come abbandonare una parte di me; nell'Auridon, accanto alla piccola capanna baciata dai caldi raggi del sole che per lunghi anni era stata la mia casa. Sentii un groppo alla gola, ed il sapore terribilmente amaro delle lacrime che già velavano i miei tristi occhi, scendere fino alla bocca dello stomaco, mentre osservavo in silenzio il paesaggio circostante.

Presto i verdi lidi costieri fecero posto a sterminate pianure, villaggi e campi coltivati, finche anche il mare non scomparve all’orizzonte. Ci inoltrammo sempre più nell’entroterra, attraversammo una fitta regione boscosa, conosciuta come Erilor. Un’immensa distesa di boschi frondosi, immersi in un’ombra cupa e malevola, circondava la strada polverosa per la Capitale. Il cocchio percorse quel tratto velocemente, in ansia, quasi a non volersi attardare tra quelle ombre. Usciti dalla zona boschiva il paesaggio cambiò radicalmente. Il sole, non più coperto dalle pesanti fronde degli alberi ora splendeva alto nel cielo, illuminando i verdi prati lontani ed il mare dietro di essi. Passammo accanto a numerosi villaggi prima di giungere infine alla vista della Capitale, la Grande Alinor, la Città della Luce.

Essa si ergeva dinnanzi a noi in tutto il suo splendore, circondata da tre grandi cinte murarie dalle cui sommità si potevano scorgere le cime delle alte torri dorate fendere il cielo come obelischi.

Alle sue spalle giganteggiavano le montagne, stagliandosi imponenti sul cielo limpido, baciate dai caldi raggi del sole pomeridiano. Le medesime alture si snodavano verso settentrione, tagliando diagonalmente l'entroterra fino a giungere alle pendici di Eton Nir la vetta più alta di tutta Summerset.

Giunti innanzi alle mura, il Primo Cancello D’oro fu aperto.

Percorsa la scala della Città Inferiore di fronte ai miei occhi presto apparve l’altra faccia di Alinor la Splendente. Ovunque intorno a noi regnava la desolazione e la miseria più triste. Numerose persone, sporche ed abbigliate di soli stracci, si trascinavano per le strade. Alcuni si avvicinavano ai passanti per chieder loro l’elemosina, altri si affacciavano dalle finestre di baracche e case in rovina o sedevano malati e morenti in un angolo, tra i detriti.

Un bambino scalzo a vestito solamente di una tunica logora si avvicinò a noi, era magro e si trascinava debolmente. All’improvviso si fermò e cadde in ginocchio.

Ricordo ancora i suoi occhi colmi di dolore e disperazione.

Tese le sue mani verso di noi e solo allora mi accorsi che erano coperte di piaghe. La pelle era grigiastra, raggrinzita e formava degli strati sovrapposti, dalle ferite violacee fuoriuscivano grumi di sangue e pus.

La signora della Capitale lo colpì violentemente alla schiena con il suo bastone più e più volte, lui urlò di dolore accasciandosi al suolo. Rimasi lì, in piedi, come pietrificata. Ad un tratto sentii la mano della signora della capitale stringere forte il mio braccio, affondando le unghie nella carne e costringendomi a proseguire con lei.

Quel bambino non era che un miserabile, un'inferiore.

Non dissimile ad un insetto o ad un ratto che infesta le strade della città, diffondendo malattie e nutrendosi di rifiuti, un parassita. Non dovevo provar pena per lui.

Mi disse la signora della capitale mentre percorrevamo l’alta scalinata conducente al livello superiore di Alinor.  

Varcato il Secondo Cancello ci addentrammo tra le strette e chiassose vie della Città Superiore. Era così diversa dal luogo di miseria e povertà nel quale aravamo state fino ad un’istante prima. Numerose case, alte e dal tetto in tegole rosse, occupavano entrambi i lati della strada. Erano abitazioni di piccole dimensioni, costruite in robusti blocchi di pietra grigia ed aperte da finestre rotonde dai balconcini in legno. Non erano poi molto dissimili dalle costruzioni in uso a Potansa, solo un po’ più alte e leggermente strette ai lati.

Intorno a noi numerosi passanti, abbigliati in vesti dai colori sgargianti, si affrettavano indaffarati. Alcuni si dirigevano verso le botteghe di mercanti ed artigiani, trasportando pacchi, grandi otri o casse in legno. Altri ancora contrattavano sui prezzi alle bancarelle del mercato o passeggiavano tra le vie, fermandosi di tanto in tanto ad osservare le merci esposte. Regnava un’atmosfera allegra e chiassosa e nell’aria aleggiava un piacevole profumo di pane, spezie e dolci appena sfornati.

Attraversammo rapide le bancarelle, fiancheggiando le alte case di pietra ricoperte dall’edera fino a giungere ai piedi della lunga scala conducente alla Corte Alta.

La percorremmo in silenzio, fino alla sua sommità. Il Cancello Interno fu aperto e davanti ai miei occhi splendette fulgida la luce e la bellezza della Corte Alta di Alinor.

Imponenti torri dorate si stagliavano sul limpido cielo azzurro, semi avvolte da morbide nuvole dalle sfumature rosate. Gli edifici, alti e maestosi, occupavano la Cerchia Esterna, costituita per la maggior parte dalle tenute delle Nobili Casate di Alinor. Circondata dalle abitazioni, la Cerchia Interna era invece occupata dalla grande reggia dei sovrani di Alinor, conosciuta come Palazzo D'Oro e dall'immenso Tempio dedicato al dio Auri-El.

Non dimenticherò mai le imponenti torri del Palazzo D'Oro, né le guglie di vetro intarsiato del Tempio, simili alle ali traslucide di mille farfalle, stagliarsi imponenti in cielo quasi a voler sfidare il sole stesso. In quel momento mi sentii davvero piccola ed insignificante di fronte a tanta grandezza.

La signora della Capitale mi condusse alla tenuta della Nobile Casata Eloran, situata al lato Sud della Cerchia Esterna, non molto distante dal tempio. L'edificio era alto ed imponente, costruito in marmo candido ed impreziosito da eleganti bassorilievi ed intarsi in oro ed in malachite. L'ingresso preceduto da un' alto porticato sormontato da possenti colonne in marmo si profilò innanzi a me.

La grande porta dorata si aprì e ne uscirono alcuni servitori, che con in leggero inchino ci invitarono ad entrare. La signora della Capitale mi guidò per le sale ed i corridoi senza fine della Tenuta Eloran, mostrandomi la locazione di ogni stanza ed il relativo ruolo della stessa, inoltre mi spiegò dettagliatamente i miei compiti, seguiti da un elenco interminabile di azioni e luoghi a me interdetti.

Infine, sul calar della sera fui condotta verso quello che sarebbe stato il mio nuovo alloggio. Si trovava nel piano inferiore dell’ala adibita alla servitù, scesa una scala di pietra ed attraversato un lungo corridoio aperto su entrambi i lati da numerose porte in legno. Era la quinta porta sulla sinistra, la ricordo ancora alla perfezione. Una stanza piccola dai muri in pietra, spogli e privi di finestre. L’interno era occupato per la maggior parte da un semplice letto in legno dal materasso in paglia e da un grosso baule sistemato davanti ad esso. A fianco del letto, su di un comodino in legno vi era poggiata una candela, unica fonte di luce nella stanza altrimenti buia. Sopra il letto trovai, piegata ordinatamente, la mia divisa: una veste in morbido tessuto azzurro fiordaliso, il colore della casata Eloran, ed un grembiule candido dal bordo orlato da un semplice motivo ricamato in filo nero.

«Dentro il baule vi sono altri due cambi. Dovrai provvedere a lavarli da sola, quindi cerca di non sporcarli. La sveglia per la servitù è alle 5.00 di ogni mattina, ma devi essere pronta per le 4.30, vedi di essere puntuale. Buonanotte.»

Disse la zia venuta dalla Capitale, richiudendo la pesante porta dietro di se.  

Quella fu la prima notte che trascorsi alla Tenuta Eloran. Non piansi, non più.

   
 
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