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Autore: xkissmeyafool    18/08/2017    0 recensioni
[https://it.wikipedia.org/wiki/Shameless_(serie_televisiva_2011)]
La vita di Mickey non è facile, e il continuo susseguirsi di eventi più o meno negativi a cui ha da sempre preso parte o di cui è stato suo malgrado spettatore lo ha con il tempo portato ad una diffidenza e ad un'apparente impenetrabilità che Ian fa fatica a spiegarsi. Quest'ultimo sembra essere di gran lunga più agevolato, e a volta gli sembra quasi di sentirsi sopraffatto dal senso di inadeguatezza con cui Mickey sente di doverlo affrontare.
La realtà che li circonda è complicata per entrambi, e nessuno dei due può fare a meno di mostrare, a proprio modo, la propria frustrazione; eppure, forse, solo per questa volta, two wrongs might make a right.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Come ti chiami?”
Una risata roca mi sfuggì dalle labbra. Tra tutte le domande che mi sarei aspettato di sentirmi porre, questa mi parve la meno opportuna in quel momento. Ansimai, tentando per quanto mi fosse possibile di formulare una risposta logica. 
“Non credo che il mio nome ti interessi più del fatto che mi stai scopando in un bagno pubblico.”
Sentii il corpo possente di quello sconosciuto sovrastarmi, mentre le sue parole venivano fuori a fatica e raggiungevano le mie orecchie ormai del tutto assuefatte ai suoni strozzati e carichi di piacere che nessuno dei due aveva il pudore di reprimere. 
“Mi piace stabilire un rapporto con le mie conquiste” replicò, ed il suo tono, così serio e concentrato nel semplice atto di formulare una frase, mi fece venire la pelle d’oca. Gemette, continuando a muoversi sul mio corpo, che mi sembrava ora tutt’altro che all’altezza di quello con cui avevo stabilito un contatto. Non mi curai di dare risposta alla sua affermazione, trattenendomi dal fargli notare che, almeno in teoria, sarebbe dovuto essere lui la mia ‘conquista’, e che stavamo esattamente stabilendo un rapporto, che fosse o meno la realizzazione del concetto che lui ne aveva. D’altra parte non mi sembrò che lui tenesse ad avere qualche tipo di riscontro; quando riprese a parlare, però, mi resi conto che mi sbagliavo. 
“Non hai risposto alla domanda” mi ricordò infatti, appoggiando senza troppa delicatezza le sue labbra contro il mio orecchio. Chiusi gli occhi, abbandonandomi ad un senso di libertà e disimpegno di gran lunga più ampio dello spazio che le pareti di quel piccolissimo bagno circoscrivevano. Non avevo alcuna intenzione di continuare a chiacchierare con un ragazzo che con tutta probabilità non avrei mai più rivisto, tuttavia una minuscola parte del mio inconscio fremeva dalla voglia di scavare più a fondo, essere qualcosa di più di un ragazzo rimorchiato in un bar. Questo mio desiderio, che mi sembrava emergesse sempre più chiaramente ogni secondo che passava, mi straniò, ma ripercorrendo le tappe di quella serata, mi resi conto che svariate cose erano andate per il verso contrario, come in una sorta di universo parallelo. 
Non mi era mai piaciuto parlare o addirittura vantarmi delle conquiste casuali che facevo, e le persone che mi circondavano non avevano interesse ad uscire dalla loro lecita ignoranza. Il mio non era un rito, non era un passatempo, nemmeno uno sfizio. Si trattava della mera e inevitabile necessità di portare la mente altrove almeno per qualche minuto, abbandonarmi all’incoscienza e all’inconsapevolezza. Era questo a spingermi, almeno un paio di volte la settimana, a sedermi al bancone dell’Alibi, l’unico bar a gestione legale nel mio quartiere, e ordinare un paio di drink, per me e per il ragazzo che avrei senza dubbio adocchiato nel giro di qualche minuto. Non capitava di rado che i diretti interessati rifiutassero o recitassero il ruolo di giovani dai sani principi morali apparentemente incapaci di abusare della compagnia di qualcuno (e il discorso si faceva persino più complicato, considerando il fatto che fossi un maschio), ma ero diventato piuttosto bravo a far cambiare loro prospettiva e nei casi più fortunati a portare alla luce la loro vera natura, e solitamente finivamo per fare sesso sporco e piuttosto violento nel giro di mezz’ora. 
Avrei dovuto capire che qualcosa non andava quella sera prima ancora di prendere posto e ordinare da bere. Il bar era semivuoto, e rimasi piuttosto sorpreso nel constatare che, tra le poche persone che erano presenti, a prevalere erano anziani e individui di mezza età dichiaratamente dipendenti da alcol e fumo illegale. Mi voltai verso il barista per chiedere spiegazioni, ma lui sembrò aver inteso le mie intenzioni ancora prima che aprissi bocca, così mi informò: “C’è il Super Ball stasera.” Sbuffai, riempiendo da me un bicchiere con della birra senza dubbio scadente, e mi rivolsi di nuovo all’uomo vicino a me. 
“Sai, Kev, se mettessi un televisore in questo buco di locale faresti un mucchio di soldi” dissi sorseggiando il mio drink. “Sai come funziona da queste parti, dai alle persone una birra e qualcosa da guardare in televisione e ti lanceranno addosso i portafogli.” 
Kevin rise. “Ho a malapena i soldi per pagare le bollette, mi servirebbe un mutuo per questo” disse. Annuii distrattamente, appurando ancora una volta la fiacchezza di quella serata in cui, per ironia della sorte, una sana e disinteressata scopata mi avrebbe tirato su il morale più che in qualsiasi altro momento. 
Mi crogiolavo nei miei pensieri e nella grande incognita che era la mia vita, nel perché tra così tanti posti avessi avuto la sfortuna di capitare proprio nel South Side di Chicago, la terra della delinquenza e delle attività illegali a cui mi ero mio malgrado omologato, assuefacendomi agli stessi vizi di quanti mi circondavano. Non avevo mai davvero sognato una vita diversa, e il panorama che mi si stagliava attorno non mi aiutava a figurarmi una prospettiva migliore, ma, come accade ad ogni essere umano, alla mia mente piaceva vagare, creare congetture irrealizzabili e farmi credere, anche solo per un momento, di poter ottenere di meglio. 
Pensavo e bevevo, due cose che avrebbero dovuto essere agli antipodi ma che in quel momento non potei evitare di accostare, e sentii la porta del locale spalancarsi dietro le mie spalle. Non mi voltai, e questo fu il primo probabile errore che compii quella sera. Perché forse, se solo avessi avuto l’interesse necessario a spingermi a dare un’occhiata allo sconosciuto che aveva appena varcato la soglia, i miei occhi avrebbero visto una figura da cui tenermi alla larga e non lasciarmi condizionare. Il mio sguardo si posò comunque su di lui in maniera involontaria quando mi passò davanti, e non potei evitare di provare una consueta curiosità nei suoi confronti. Magari potevo ancora divertirmi, pensai, e la decisione fu presa nel giro di qualche secondo. Versai un bicchiere di birra e m’incamminai verso il tavolo in cui lui, solo come un deliberato eremita, aveva preso posto. Mentre coprivo la breve distanza che ci separava ebbi modo di guardarlo con più attenzione, e l’armonia dei suoi tratti e delle sue caratteristiche mi colpì più di quanto fosse lecito. I capelli rossi tirati indietro si intonavano alle lentiggini tenui che gli costellavano gli zigomi come nel più fedele dei cliché, gli occhi di un castano chiaro vagamente tendente al verde apparivano limpidi e luccicanti, e mi parve che le luci offuscate del bar li rendessero persino più particolari. L’arte dell’osservazione era sempre stata il mio forte e ne ero consapevole, così com’ero consapevole di come essa mi portasse fuori strada e mi distogliesse dagli obiettivi che mi ero prefisso. Quella situazione non si sviluppò in modo diverso, e mi resi conto dopo qualche attimo di troppo di essere ormai davanti allo sconosciuto, con un bicchiere e un’espressione possibilmente equivoca. Quando mi ridestai, lui mi stava fissando, e dal suo sguardo compresi che doveva essere confuso e incuriosito almeno quanto me. Feci scivolare piano la birra verso di lui, aspettando una sua reazione che non tardò ad arrivare. Lui afferrò il bicchiere e iniziò a sorseggiarne il contenuto con disinvoltura, come se la mia presenza, che mi resi conto in seguito dovesse essere piuttosto disturbante, non lo turbasse affatto. 
“Grazie” mi disse, e il suo tono non tradiva nessuno tipo di emozione particolare. Annuii, leggermente deluso, e mi sedetti di fronte a lui con la solita naturalezza. Per un momento pensai addirittura di non sapere cosa dire, ma le parole mi affiorarono con prontezza sulle labbra. 
“Il bagno è libero, se vuoi…” Lasciai la richiesta in sospeso, aspettando di comprendere le sue intenzioni che, in ogni caso, si sarebbero adattate alle mie. Lo sconosciuto ridacchiò, come se nella zona più remota del suo inconscio se lo fosse aspettato. 
“Non sono una checca” replicò senza stizza. Mi venne quasi da ridere alla tranquillità con cui me lo stava comunicando. 
“Neanche io. Le checche non scopano, si coccolano e si dicono ‘ti amo’ in continuazione, e ti prometto che non succederà niente di tutto questo” dissi. Mi aspettai una risposta all’altezza del gioco involontario che stavamo facendo, ma con sorpresa notai che il suo sguardo si era rabbuiato appena, i suoi occhi si erano velati di una malinconia che mi parve del tutto fuori luogo. Gli lasciai il tempo di rispondere con calma, mentre recuperavo la birra che gli avevo offerto e prendevo a bere con disinvoltura. Quando finalmente parlò, mi sembrò che fossero trascorse delle ore. 
“Ascolta” mi disse. “Ho avuto una giornata terribile e l’ultima cosa di cui ho bisogno sono delle advance da un ragazzino voglioso in un pub di merda.” 
“Sai come si dice, il sesso libera la mente” scherzai con una modesta dose di serietà, ignorando l’appellativo che mi aveva affibbiato. 
Lui mi guardò stralunato, inarcando un sopracciglio. “Chi lo dice?”
“Un filosofo?” azzardai, facendolo ridere di gusto. 
“Questa devo dirla al mio professore” replicò, e la sfida si fece persino più interessante nel momento in cui capii che quello che avevo davanti non era il solito delinquente di strada, ma a quanto pareva uno ricco abbastanza da potersi permettere l’Università. 
“Spero non gli racconterai il prima e il dopo, perché non credo che sarebbe felice di sapere che un ragazzo perbene come te se la fa con degli scapestrati del South Side” gli consigliai con scherno, e vidi per la prima volta, nel suo sguardo divertito, la concreta possibilità di averne. 
“Cosa ti fa pensare che sia un ragazzo perbene?” mi domandò dopo qualche secondo di silenzio. 
“Hai appena nominato il tuo professore, il che significa che vai all’Università. E da queste parti uno che continua gli studi dopo il diploma, o meglio, che riesce a prendere il diploma, é un ragazzo perbene” spiegai con ovvietà. Mi aspettavo di ricevere una reazione sconcertata a quella dichiarazione, ma quello sconosciuto sembrava sempre più divertito dal modo in cui la mia mente partoriva quelle sentenze. 
“Ne sei sicuro? Perché, sai, io abito in fondo alla strada, superata la lavanderia.” 
Rimasi molto colpito da quella rivelazione, e le ragioni del mio stupore erano due. La prima era che io vivevo un paio di isolati più in là, e per quanto mi sforzassi di frugare negli archivi della mia memoria, non ricordai di aver mai visto, neanche di sfuggita, la sua chioma rossastra o il suo busto slanciato. La seconda era che, in ventitré anni di vita, quella era la prima volta che vedevo associati il mio quartiere e il termine ‘università’, e la cosa, anziché farmi piacere, provocò in me un sentimento di frustrazione e di fastidio, come se andasse a diretto discapito della mia persona. Improvvisamente, il pensiero di unirmi a quello sconosciuto mi sembrò inadeguato, ed io stesso mi sentii fuori luogo, sbagliato, quasi come se stessi pretendendo di intrecciarmi ad un individuo di gran lunga superiore a me. La consapevolezza di non esserne all’altezza mi colpì come una ventata d’aria gelida, e mi alzai piano, con l’intenzione di fare a meno, per quella sera, dei miei venticinque minuti di libertà. 
Il mio interlocutore mi guardò per un po’, ma non si azzardò a fare domande. Mentre riprendevo il mio solito posto accanto al bancone, mi resi conto del profondo errore che Dio, o chi per lui, aveva commesso nel creare il genere umano: era l’artefice della naturale inclinazione al pessimismo e all’auto-rassegnazione che in quel momento mi caratterizzava. 
La serata passò con lentezza. Avevo pensato di tornare a casa, ma la consapevolezza di trovarla vuota, o peggio, semidistrutta da una delle sfuriate senza senso di mio padre mi trattenne lì più del previsto. Dall’età di nove anni, rientrare in casa era diventato un incessante susseguirsi di scenari brutali. La mia ingenuità di bambino non mi aveva mai impedito di notare le contusioni sul viso di mia madre e di trarre le mie conclusioni, nonostante le continue scuse che lei accampava. Gli atti di violenza che avevo avuto occasione di vedere tra le mie stesse mura domestiche avevano cessato di sconvolgermi da tempo e al tempo stesso mi frustravano, e mi sembrava di affrontare la quotidianità delle mie giornate con la stessa rassegnata consapevolezza di un malato terminale. Non mi era capitato di rado, durante la mia adolescenza, di ritrovare auto della polizia posteggiate davanti casa mia, mio padre in manette e il viso semi-nascosto dei miei fratelli e di mia madre che, dalla finestra, osservavano la scena inespressivi. Per qualche ragione che non compresi mai fino in fondo, le accuse a carico di mio padre non erano mai pesanti quanto avrebbero dovuto, e la sua permanenza nel carcere federale variava da una settimana a dieci giorni, dodici nei casi più fortunati. Appena fuori, infrangeva qualsiasi norma che la libertà vigilata gli imponeva, a partire dal trovarsi un’occupazione che non comportasse lo spaccio, la vendita di armi illegali e qualsiasi altro tipo di attività di contrabbando. Fortunatamente per lui e per nostra sfortuna, trent’anni di servizio in una delle bande di strada più produttive della zona - e, come scoprii in seguito, di Chicago - lo avevano temprato e avevano sviluppato in lui l’abilità di nascondere le prove e aggirare le domande e le accuse della polizia; la prigione era diventata per lui un luogo di passaggio, una sorta di villaggio turistico in cui, nell’arco di una settimana, tornava ad avere rapporti con suoi vecchi clienti o soci che avevano cercato di tagliarlo fuori. Avevo desiderato per così tanto tempo che uscisse dalle nostre vite, ma in cuor mio sapevo che i problemi che avevamo sempre avuto non erano dovuti solo allo stile di vita che aveva adottato. Eravamo tutti responsabili, in misura diversa, del destino che ci eravamo creati. La debolezza di mia madre, il suo non sentirsi degna di essere trattata diversamente, l’indifferenza dei miei fratelli e il loro estraniarsi da questione che credevano non li riguardasse, la mia rassegnazione e il mio silenzio, che erano diventati quelli della donna che mi aveva dato alla luce e che sentivo di star tradendo; una serie di fattori forse evitabili, ma che ci avevano condizionati, nonostante l’ostentato menefreghismo con cui guardavamo in faccia la realtà. 
Mi ero addentrato fin troppo in profondità nei miei pensieri avvilenti per accorgermi della figura in piedi davanti a me. Il ragazzo dai capelli rossi di cui, mi resi conto, non conoscevo neanche il nome mi stava parlando a voce bassa, non troppo convinto del fatto che lo stessi ascoltando. Posai lo sguardo su di lui e mi accorsi con imbarazzo di starlo guardando con la testa inclinata verso l’alto, impossibilitato a stargli faccia a faccia nonostante lo sgabello su cui ero seduto. Non afferrai molto di ciò che mi stava dicendo, ma l’ultimo inciso mi arrivò alle orecchie con molta chiarezza. 
“… se vuoi, io sono in bagno.”
Lo guardai allontanarsi e varcare la soglia del bagno con disinvoltura. La sua rinnovata voglia non mi tirò su il morale, se non altro contribuì a farlo sprofondare. Avevo la fondata sensazione che fosse lui a condurre i giochi, e il tono di scherno con cui mi aveva parlato non mi piaceva neanche un po’. La fasulla cortesia con cui mi aveva informato mi aveva trasmesso la sicurezza che aveva nel pensare che gli sarei praticamente corso dietro, e l’idea che qualcuno potesse credermi così vulnerabile mi fece montare su tutte le furie. 
La rabbia fu l’unica cosa che mi spinse ad alzarmi e camminare a passo spedito verso il bagno. Spalancai la porta, trovandomi di fronte al solito putrido spettacolo che quel posto offriva; mi guardai intorno alla ricerca di una chioma rossiccia, ma tutto ciò che vidi furono bottiglie di birra vuote sul pavimento, rotoli di carta igienica srotolata ed il fumo di uno spinello che fuoriusciva dal cestino di metallo. Una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare.
“Sapevo che saresti venuto.” 
Le sue labbra e il fumo che le attraversava mi distolsero dalle mie reali intenzioni, e in un momento il mio proposito di restare impassibile si dissolse come la nicotina della sigaretta che lui aveva appena fumato. Sentii il suo respiro caldo sul mio collo e la scena mi sembrò quasi ridicola, tuttavia non ebbi il tempo di processare quanto stava accadendo, perché venni spinto contro la parete con una delicatezza che avrei preferito non avesse usato. Vidi le sue mani veloci e frenetiche slacciarsi la cintura dei pantaloni ed io mi sfilai goffamente la maglietta, fissandogli le gambe toniche con la stessa espressione di un automa. La visuale mi provocò un’erezione che non mi curai di nascondere, mentre la mia dignità scivolava via. 
Fu la scopata più imbarazzante della mia vita. Il fatto che per la prima volta i ruoli si fossero invertiti mi nauseava e allo stesso tempo mi intrigava; per l’ennesima volta quella sera, sentii che a predominare non ero io, bensì lo sconosciuto che ora mi sovrastava, muovendosi agile e sicuro, e pensai che non dovesse essere la sua prima volta, con un ragazzo quanto con una ragazza. Di nuovo, l’idea che potesse avere delle risorse maggiori delle mie mi infastidì; la consapevolezza di non potermi considerare migliore, di star sottomettendomi a qualcuno e l’ostilità con cui mi rifiutavo di accettarlo mi colpirono in pieno petto, procurandomi un malessere tanto fisico quanto emotivo. Per la seconda volta, fui riportato alla realtà dalla voce del mio compagno, di cui intravedevo il bacino ed il ciuffo di capelli ora spettinato dalla foga. 
“Come ti chiami?”
“Mickey”. Il tono fermo con cui intendevo pronunciare il mio nome fu tradito dalla scarica di adrenalina che mi attraversò le vene, e ciò che ne venne fuori fu un suono strozzato e rabbioso. Lo sconosciuto ripeté il mio nome, scandito e con la fermezza che io avrei voluto utilizzare. 
“Bel nome… ti si addice.”
Ero sul punto di replicare, ma le parole mi morirono sulle labbra a causa della veemenza con cui il suo corpo si staccò dal mio; mi voltai, il fiato corto ed i muscoli contratti, e per la prima volta mi trovai faccia a faccia con il mio interlocutore. Il sudore gli scendeva dalla fronte, la compostezza dei suoi capelli appariva provata dal dinamismo con cui ci eravamo conosciuti; le sue pupille erano dilatate, il viso tinto di un colore rosaceo, il petto meno tonico di quello che mi sarei aspettato ma ugualmente invitante. Non era proprio una vista mozzafiato, eppure trovai nel complesso della sua figura un fascino inspiegabile e terribile. Lui sembrava interessato la metà di quanto lo ero io, come se quell’esperienza avesse avuto per lui lo stesso significato che mi ero ripromesso avrebbe sempre dovuto avere per me: solo sesso. Era lui a recitare la parte dell’indifferente ed io semplicemente un idealista impegnato nel vano tentativo di imitarlo. Mi staccai dalla parete dopo quelli che mi parvero anni, e mi avvicinai al lavandino per sciacquarmi il viso, dandogli le spalle. Ero deciso a sapere qualcosa su di lui, perché mi rifiutavo di accettare il fatto che un ragazzo, forse più giovane di me, fosse riuscito a rendermi vulnerabile al punto da precludermi la parte migliore delle mie serate: il senso di appagamento. 
Quando mi voltai, però, era sparito.
  
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