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Autore: xkissmeyafool    19/08/2017    0 recensioni
[https://it.wikipedia.org/wiki/Shameless_(serie_televisiva_2011)]
La vita di Mickey non è facile, e il continuo susseguirsi di eventi più o meno negativi a cui ha da sempre preso parte o di cui è stato suo malgrado spettatore lo ha con il tempo portato ad una diffidenza e ad un'apparente impenetrabilità che Ian fa fatica a spiegarsi. Quest'ultimo sembra essere di gran lunga più agevolato, e a volta gli sembra quasi di sentirsi sopraffatto dal senso di inadeguatezza con cui Mickey sente di doverlo affrontare.
La realtà che li circonda è complicata per entrambi, e nessuno dei due può fare a meno di mostrare, a proprio modo, la propria frustrazione; eppure, forse, solo per questa volta, two wrongs might make a right.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Fui svegliato dal braccio di mia sorella che mi scuoteva impaziente per una spalla. Sbuffai sonoramente, passandomi una mano sul viso per scacciare il sonno. 
“Che vuoi?” le chiesi in malo modo, guardandola con gli occhi socchiusi. 
“Devi accompagnarmi a scuola, ti sei dimenticato?” mi comunicò annoiata, incrociando le braccia al petto. Mi sforzai di trattenere un secondo sospiro e mi alzai con lentezza estenuante, sotto lo sguardo vigile di Mandy. 
“Ti dispiace uscire? Devo vestirmi” dissi spazientito, afferrando una maglietta dalla catasta di indumenti che avevo accumulato su una sedia. Mandy roteò gli occhi, sorridendo sarcastica. “Come se ci fosse molto da vedere.” 
Si chiuse la porta alle spalle e io le lanciai un cuscino. Diedi un’occhiata all’orologio e nel momento in cui mi resi conto dell’orario, dovetti reprimere l’istinto di uccidere mia sorella a mani nude. Il liceo era a meno di un quarto d’ora da casa, ed io ero in piedi un’ora prima del solito. Terminai di vestirmi alla meno peggio e lasciai la mia stanza, dirigendomi in cucina. 
“Perché diamine mi hai svegliato così presto?” chiesi a mia sorella, intenta a sgranocchiare gli avanzi della sera prima. Lei mi rivolse uno sguardo ovvio, prendendosi del tempo per finire di mangiare, prima di rispondere: “Dobbiamo passare a prendere un’amica, e poi oggi è il tuo primo giorno di lavoro”. 
Mi battei una mano sulla fronte. Dimenticare il primo turno di un nuovo lavoro non era esattamente un bel modo di iniziarlo. Così come non avere la minima voglia di presentarvisi. Questa volta, però, non c’erano scuse: dopo aver gettato all’aria un paio di buone opportunità (se per ‘buone opportunità’ s’intende un posto part-time in un discount o in un caffè), mia madre mi aveva messo con le spalle al muro. Dovevo trovarmi un lavoro, e dovevo essere in grado di mantenerlo. Ero il più grande dei miei fratelli ed il nostro conto in banca era perennemente in rosso; i soldi scarseggiavano ed ero tenuto a  contribuire al sostentamento economico della mia famiglia, che mi piacesse o meno. 
Afferrai del pollo rinsecchito dal secchio del KFC che mio fratello aveva riportato la sera prima, ma rinunciai subito al proposito di mangiarlo: una roccia sarebbe stata meno solida. 
“Inizi alle 8:30, ti conviene darti una mossa e renderti presentabile” riprese Mandy con tono di rimprovero. Alzai gli occhi al cielo, sentendo l’improvvisa voglia di rimettermi sotto le lenzuola e dormire fino al giorno successivo. Non avevo la minima idea di cosa bisognasse indossare, così optai per l’unico paio di jeans integro che possedevo e una camicia blu. Mi piazzai davanti allo specchio del bagno e guardai la mia figura riflessa nel vetro; per una volta sarei facilmente riuscito a  confondermi nel gruppo d’élite degli impiegati statali. Guardai l’orologio, stupendomi del tempo che mi ci era voluto per prepararmi: era passata più di mezz’ora. 
“Mandy, sbrigati!” urlai dal soggiorno, frugando in un cassetto di cianfrusaglie alla ricerca di un orologio da polso. Ne passai in rassegna alcuni, decisamente troppo costosi perché potessero davvero appartenere a qualcuno della mia famiglia. Chiusi il cassetto, abbandonando l’idea: non avevo intenzione di presentarmi a lavoro con addosso merce di contrabbando. Mandy uscì dal bagno, legando i lunghi capelli neri in una coda. 

Mi ero sempre ritenuto fortunato ad avere una sorella. All’età di quindici anni Mandy era molto più sveglia e intraprendente del resto dei miei fratelli, e con rammarico di mio padre era l’unica di noi a non essere mai stata coinvolta in affari illegali. Io e i miei fratelli, Thomas e Archie, eravamo stati introdotti nel mondo dello spaccio alla sua età, ma contrariamente a Mandy nessuno di noi aveva avuto il coraggio di ribellarsi. Il rifiuto non fu mai un’opzione contemplata, sapevamo ciò che ci aspettava e lo accettavamo con indifferenza. Mia sorella non era mai stata così. Aveva messo le cose in chiaro con nostro padre fin dall’inizio, e lui, inaspettatamente, non aveva fatto pressioni. Mi ero chiesto svariate volte se la sua condiscendenza fosse dovuta al fatto che fosse una ragazza, ma dal modo in cui approfittava delle donne mi resi conto che forse, in quanto tale, non la riteneva all’altezza di certe operazioni di marketing, come amava definirle. Il rapporto con mia sorella non era idilliaco, anzi ci trovavamo spesso in disaccordo, perché lei aveva aspettative di vita di gran lunga superiori alle mie, ed il fatto che io non riuscissi a vedere il bicchiere mezzo pieno la irritava. D’altra parte, era l’unica persona della mia famiglia con cui avevo modo di interagire in maniera sana, con cui potevo avere un contatto che andasse oltre le minacce e gli ordini freddi. Mandy era l’unica a sapere della mia omosessualità, non perché glielo avessi esternato direttamente, ma perché non mi ero mai sentito in dovere di nascondere le mie storie, che fossero di una notte o di qualche tempo. Avevamo tutti bisogno di un sostegno nel caos in cui il destino ci aveva catapultato, e Mandy era il mio. 

Mi sventolò davanti al viso il mazzo di chiavi, risvegliandomi dai miei pensieri. 
“Datti una mossa, fratellino.” 
Afferrai il mazzo dalle sue mani e mi diressi fuori casa, seguito a ruota da mia sorella.    
“Chi è questa amica che dobbiamo passare a prendere?” domandai, salendo nell’auto sgangherata. 
“Debbie Gallagher.” “Gallagher? Non abitano a un isolato da qui?” chiesi.
“Già, ma si è slogata una caviglia, e non può camminare fino a scuola. Di solito la accompagna suo fratello, ma oggi pare sia uscito prima del solito e lei è rimasta a piedi” mi spiegò, non troppo convinta. “Secondo me è solo una scusa per vederti, quando le ho detto che ci accompagnavi si è illuminata come un albero di Natale” sussurrò come se temesse che qualcuno potesse sentirci. Ridacchiai, pensando a quanto quella frase suonasse come la battuta di un tipico film per ragazzini, in cui la migliore amica della protagonista si innamora di suo fratello più grande. Quanto avrei voluto che il resto della mia vita fosse un monotono cliché da cinema. 
Misi in moto e partii, accostando appena cinque minuti più tardi. Una ragazzina paffuta dai capelli rossi era in piedi sul marciapiede, e sembrava in difficoltà nel tenersi in equilibrio su una stampella malconcia. Mandy le fece cenno, invitandola a salire. Con un po’ di sforzo, riuscì ad infilarsi sui sedili posteriori, salutandoci allegra. Mi resi conto che probabilmente mia sorella non si sbagliava nel credere che la ragazzina potesse nutrire qualche forma di interesse verso di me; non mi sfuggirono le occhiate furbe che si scambiarono durante tutto il tragitto. 

Lasciai le due ragazze all’entrata di scuola, bloccandomi in mezzo alla strada per farle scendere e provocando le urla degli automobilisti che mi precedevano. Non mi preoccupai di scusarmi, mentre ripartivo; il traffico che si era creato nei due chilometri che mi separavano dall’edificio aveva bruciato il tempo extra che mi ero guadagnato alzandomi prima, e all’improvviso mi ritrovai ad affondare il piede nell’acceleratore, nella speranza di arrivare in orario. 
Accostai fuori dal Patsy’s Pie alle 8:29, congratulandomi con me stesso per l’inusuale puntualità. Appena entrai nel locale, un intenso aroma di caffè e crema pasticciera mi riempì le narici. L’ambiente si presentava con il più classico stile americano: poltroncine di pelle rossa e bianca, tavoli di legno da quattro posti e vetrate luminose, con tanto di poster e manifesti presi da giornali e riviste. Notai persino un televisore in un angolo della stanza, ed uno schermo per la sorveglianza. La pulizia meticolosa che c’era in quel luogo lasciava intendere chiaramente che si trattasse di un locale appena aperto. Mi avvicinai al bancone, dove una donna stava tentando di chiudere un registratore di cassa. Non appena la mia figura gettò un’ombra su di lei, alzò lo sguardo, rivolgendomi un’espressione dapprima confusa; il suo viso si distese dopo qualche istante, e facendo il giro del bancone venne a stringermi una mano. 
“Mickey, giusto?” mi chiese, aspettando che annuissi. “Sono Jessica, piacere di conoscerti. Dunque, le regole sono abbastanza semplici. Stai alla cassa, stampi scontrini, compili ricevute. Per ora, questo è il tuo ruolo. Vedrò come si metteranno le cose, e se ce ne sarà bisogno ti sposterai in cucina” mi spiegò brevemente. Prese a camminare verso il retro, e nel mentre continuò a parlare. “Dietro al registratore c’è tutto quello di cui avrai bisogno, compresi dei dolcetti sullo stecco da dare ai clienti, come omaggio per l’inaugurazione. Tutto chiaro?”
“Tutto chiaro” replicai, osservandola frugare in uno scatolone pieno di magliette gialle stirate e ordinate, con il logo del locale cucito sul petto. Quel posto sembrava avere tutta l’intenzione di decollare e di farlo in grande stile: non vedevo una divisa da lavoro vera e propria da quando mia madre si era licenziata dal negozio di massaggi in cui lavorava. Jessica mi porse una maglia, indicandomi uno sgabuzzino. “Puoi cambiarti lì” mi informò. “Apriamo tra dieci minuti, nel mentre se ti va puoi prendere una ciambella calda dalla cucina. Non abituartici, è solo perché è il primo giorno.” La ringraziai, aspettando che si allontanasse prima di togliermi la camicia e infilarmi la maglietta. Non pensavo che quella dello sgabuzzino fosse una regola, tuttavia non mi andava di ignorare i suoi suggerimenti: per quello avrei avuto tempo. 
Quella mattina mi sentivo stranamente cordiale, così andai in cucina per fare la conoscenza dei miei colleghi. Mi accorsi subito di come il loro entusiasmo fosse pari a zero, e in fondo sapevo che nel giro di due settimane avrei avuto le loro stesse espressioni seccate. Strinsi la mano ad un certo Jed, poi ad un mio probabile coetaneo di nome Cameron e infine alla cameriera, Fiona. Per una volta pensai che fosse giusto stare alle formalità, ma ciò non implicava il fatto che me ne importasse qualcosa di qualcuno di loro. Jessica ci informò dell’imminente apertura, e io mi diressi al mio posto, intenzionato a fare una buona impressione e vivere di rendita per le successive settimane. 
Il locale iniziò a riempirsi con velocità estenuante, e davanti alla cassa si creò una coda che i tre metri tra essa e la porta facevano fatica a contenere. Strisciai un numero indefinito di carte di credito, maneggiai banconote e monetine e offrii i dolcetti sullo stecco di cui mi aveva parlato Jessica. Riuscii a prendere fiato tra un cliente e l’altro solo un’ora dopo, quando la calca si attenuò e tutti i presenti presero posto sulle poltroncine. La mattinata trascorse con una monotonia quasi confortante, e nel continuo daffare che i nuovi arrivati mi procuravano, quasi non mi accorsi della fine del turno. All’una, Jessica mi venne incontro, sorridendo entusiasta. 
“Il tuo turno è finito” mi informò. “Sei stato bravo, dalla prossima volta possiamo iniziare a discutere sul pagamento.” Annuii, ricambiando il sorriso. 
“Puoi tenere la maglietta. Ricordati di indossarla sempre, quando lavori” disse. Ringraziai, raccogliendo la camicia dal retro e le chiavi dal bancone. “Domani alle 8.30!” mi ricordò Jessica, sparendo in cucina. Ero in procinto di uscire, quando due volti familiari mi comparvero davanti. 
“Come sei arrivata qui?” chiesi a Mandy, presa a ridacchiare con complicità con la sua amica. 
“Ci ha portati il fratello di Debbie. Sua sorella lavora qui, così sono venuti a prenderla” spiegò, afferrando la ragazzina per un polso e trascinandola all’interno. La vidi tirare fuori dei soldi e parlare al cassiere che mi aveva appena sostituito. Mi convinsi ad aspettarla, mentre ordinava un paio di frullati alla nocciola; non pretendevo che chi l’aveva portata lì la riportasse poi a casa. 
Tentai di nuovo di varcare la soglia, ma questa volta a impedirmi il passaggio era un corpo ben più possente di quello delle due ragazze. Non appena alzai lo sguardo per capire chi fosse, un flashback improvviso mi attraversò la mente, e per un attimo restai immobile, senza parlare. Riconobbi gli stessi capelli rossi, le stesse lentiggini irregolari sulle gote, gli stessi occhi castani, e sentii distintamente il cuore pulsami nelle orecchie, attutendo i suoni che mi circondavano. La persona con cui mi ero quasi scontrato ora mi fissava, a metà tra lo stupito e il divertito. 
“Ciao, Mickey” mi salutò, sorridendo beffardo. “É bello rivederti.” 
Nel suo tono c’era un non so che di sarcastico, e non potei evitare di sentirmi offeso dalla consapevolezza di essere in grado di suscitare in lui solo sentimenti di scherno. 
Mi sforzai di replicare, ma quella che doveva essere una risposta chiara si tramutò in un sussurro forzato. 
“Ciao…”
“Ian” si presentò finalmente, tendendomi la mano come se si trattasse del nostro primo incontro effettivo. “Posso offrirti qualcosa? Magari una birra” mi propose, ed io dovetti trattenermi dal ridere, sentendo la pressione allentarsi. 
“No, grazie” risposi, recuperando parte del mio atteggiamento di superiorità. “Sarà per la prossima. Mi fai passare?”
Ian mi fece spazio, e il senso di soggezione tornò a farmi compagnia, mentre i suoi occhi mi seguivano fuori dal locale. “Ci sarà una prossima volta?” lo sentii dire a gran voce, mentre mi accendevo una sigaretta. 
Alzai le spalle, inspirando tabacco e nicotina a pieni polmoni. “Forse.” 
Ian annuì, e il suo sorriso divertito non voleva saperne di abbandonare il suo viso. Diede un’occhiata all’interno, e un istante dopo le due ragazze varcarono la soglia;  intravidi Mandy salutare affettuosamente la sua amica e Ian, poi salì in macchina senza neanche accertarsi della mia presenza. Gettai il mozzicone di sigaretta a terra e lo pestai prima di infilarmi a mia volta nell’auto e mettere in moto. Mentre facevo retromarcia, vidi con la coda dell’occhio Ian farmi cenno con la mano, ma mi rifiutai di credere che quel gesto fosse indirizzato a me. Per il momento, era più comodo vivere nella consapevolezza di essere, per lui, soltanto una pedina interscambiabile sulla mappa delle sue conoscenze. 

“Lo conoscevi?” mi domandò mia sorella più tardi quella sera. “Il fratello di Debbie, intendo.” 
Scossi la testa, affatto sorpreso da quella domanda. “Non proprio. Ci conosciamo di vista” risposi vago. Lei annuì, tornando a rivolgere l’attenzione al film in bianco e nero in televisione. Provai a fare lo stesso, ma per qualche ragione la mia mente non riusciva a concentrarsi sulle immagini che si susseguivano sullo schermo. Avevo pensato di aver superato quella che doveva essere del mero sesso senza interessi, ma l’incontro di quel pomeriggio aveva fatto riemergere in me le fantasie più sconfinate, e per la prima volta quasi mi vergognai del mio essere così spudorato. Non mi interessava lui in quanto tale, mi intrigava il pensiero di aver sviluppato un attaccamento mentale nei confronti di uno dei tanti ragazzi che avevo conosciuto al bar. Tutto ciò mi frustrava allo stesso tempo, perché non riuscivo a capire come fosse potuto accadere. Avevo perso il conto delle persone con cui ero stato, ricordavo a malapena i loro volti che, nonostante questo, non suscitavano nulla in me, ed ora mi ritrovavo bloccato sullo stesso, ricorrente soggetto, e non capivo. Non avevo mai davvero capito quello che mi succedeva quando decidevo di svendere il mio corpo in quel modo, ma questa volta era diverso; questa volta era peggio, perché ad essere coinvolta non era solo la parte corporale. 

Ero terrorizzato.
  
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