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Autore: istherelifeonmars    20/08/2017    1 recensioni
Travis, Eean, Constance, Francis e Thomas: annoiati eroi di una generazione che potrebbe avere tutto ma non vuole avere niente, volti senza nome in una Londra inondata da turisti e uomini con ventiquattrore. Cercano la poesia e la felicità nell'alcool, nella droga, nel sesso, nella musica degli anni in cui tutto si doveva ancora costruire e c'era ancora speranza per un futuro migliore; bazzicano per la capitale alla ricerca di se stessi - perché perdersi è facile, ritrovarsi lo è decisamente meno.
Smaniosi di crescere e trovare il loro posto nel mondo, si ritrovano però spaventati da un futuro che non li vuole più insieme.
O che, addirittura, non li vuole affatto.
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"Il problema è che non m’è rimasto proprio più niente, di questi vent’anni di vita, come se li avessi passati in una bolla fuori da questo formicaio che chiamano mondo. Uno potrebbe anche chiedersi quando tutto è iniziato ad andare a rotoli, quando le crepe sono diventati divari invalicabili, quando le chiacchiere sono diventate bugie.(...)
 Ci siamo tutti, ma di quelli che eravamo non c’è più nessuno."
AL MOMENTO SOSPESA
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Note (dell'autore, perché è molto più professionale dire così): premetto spiegando un pochino quel putiferio che sta succedendo in questa storia, perché comprendo che a non tutti piaccia essere catapultati in un inizio così caotico. Questo e il prossimo capitolo saranno ancora d'introduzione, cosicché tutti i personaggi possano avere un volto e sia più facile per voi distinguerli. Qui conosciamo disaddattata#1 e disaddattato #2, ovvero Constance e Eean - a proposito, non sono una grande fan di postare i prestavolti et similia dei personaggi perché capisco che alcuni preferiscano immaginarseli di sana pianta, ma mi faccio spam gratuito comunque e vi lascio qui le bacheche di pinterest dedicate ai nostri baldi giovani.
Ah, e come forse avrete già intuito, ogni capitolo avrà come titolo quello di una canzone, in questo caso linko quella di oggi.
Ringrazio ancora di cuore per le recensioni e mi blocco qui, lo giuro, perché sono prolissa af.




Welcome to the jungle
 

Londra, Agosto 2009

La gente non mi prende mai sul serio.
Mai. 
Fin da quando ero bambina.
Allora mi vedevano come una bambolina a cui acconciare i capelli, pronta a essere vestita come gli altri volevano. È durato qualche anno. Poi sono nate Louise e Maise, e allora non mi hanno più vista e basta. È stato così che ho deciso di diventare chi volevo io, una persona degna di nota, coraggiosa, forte, una donna importante che venisse amata ma temuta, come nei film che guardavo.
Nemmeno allora l’hanno fatto. Prendermi sul serio, intendo.
Quando dici di voler essere una cantante ti guardano di sbilenco e ti ridono in faccia – come Paul quella volta quando, l’anno scorso, gli ho detto di far parte di una band. Lui ha ghignato e mi ha detto che dovevo crescere. Poi mi ha anche detto: Constance, tu hai un’idea sbagliata di te stessa, ma quello non l’ho capito allora come non lo capisco adesso. Eravamo seduti su un marciapiede accanto al fiume, da dov’eravamo non si poteva vedere l’acqua, ma il suo scorrere impetuoso era ben chiaro. Me lo ricordo ancora perché quella frase mi è rimasta in mente, stampata a caratteri cubitali nel retro della mia testa; non ho mai trovato il coraggio di chiedere a qualcuno che cosa volesse dire.
Comunque è per questo che nella stazione di polizia non posso entrare. Perché non mi prenderebbero sul serio. Non posso dare una mano e la cosa mi da così fastidio che ormai sono venti minuti che faccio avanti e indietro accanto all’auto di Evan. Lui è già entrato una volta, al contrario, per chiedere qualche informazione riguardo agli altri. Usciranno presto, mi ha detto. 
Io mi sono stretta nella camicia di cotone che indosso, alle cinque di mattino fa freddo con solo questa cosa addosso, ma non mi sono lamentata, sapevo che non era opportuno. Evan mi ha chiesto se volevo che mi accompagnasse a casa, gli ho detto di no.
Non voglio andarmene, cazzo.
Voglio stare qui e contribuire in qualche modo.
Mi isso sulle braccia e finisco col sedermi sul cofano dell’auto ed Evan è troppo impegnato a cercare di accendersi una sigaretta con questo vento che non si preoccupa nemmeno di guardarmi male.
«Grazie, comunque.» inizio io, portandomi una ciocca aggrovigliata dietro l’orecchio, in modo da darmi un tono. Dopo ieri sera i miei capelli sono diventati un groviglio di fili biondicci e crespi, vorrei poter avere un pettine con me, o qualsiasi cosa che mi aiuti ad avere un aspetto decente. «Per ieri sera, per avermi avvisata.»
«Figurati.» 
Lui è uno di poche parole, se non lo conoscessi meglio direi che è sempre così: risoluto e silenzioso, gli occhi nocciola che si perdono nella vista di Londra al mattino.
«Va tutto bene, Connie?» mi chiede poi.
Vorrei poter aggiungere qualcosa per fargli capire che sì, va tutto bene. Che quello che è successo questa notte non è stato un… incidente, ma qualcosa che io stessa ho voluto. Eppure non so come dirglielo; anche se lui capirebbe la situazione mi sembra che qualcosa mi stringe la gola come a non voler farmi parlare. Tamburello le dita sul cofano, ancora indecisa.
«Non prendertela con Harvey.» pausa «E non dirlo agli altri, per favore.»
Lui prende una boccata alzando il capo verso il cielo plumbeo del mattino, dalla mia posizione ora vedo solo la sua testa inclinata verso l’alto, i capelli scuri che si muovono appena a causa del vento. Ha una mano nella tasca dei jeans slavati e l’altra la tiene all’altezza del petto, probabilmente con la sigaretta tra l’indice e il medio.
 «Non sono affari miei» risponde, deciso «Però, Connie.» e dice solo quello. So che cosa vuol dire quel Connie: il tono con cui lo sottolinea è incredibilmente simile a quello di un fratello maggiore che sta ti riprendendo per qualche misfatto. Vuol dire che ho attraversato un limite che io stessa mi sono imposta – non sono strani gli esseri umani? A negarsi alcune cose, per poi appropriarsene segretamente, nell’oscurità?
Io gli sorrido: «Ma dai! Da quando fai tanto il moralista?» e dicendo così mi sporgo in avanti per tirargli un buffetto sulla nuca, lui si volta verso di me, l’espressione platealmente esasperata, quella che mi fa sempre sorridere.
«Non s’è mai visto un ladro che si fa scrupoli.» rincaro la dose, la voce apparentemente innocente mentre lui sbotta qualcosa di simile ad un vaffanculo.
Ridiamo per così poco nel parcheggio della polizia di Elbury Square e per una volta non prendermi sul serio non mi pesa affatto.

Quando tutti gli altri escono, torniamo indietro sulla sua auto, ovviamente. È un’auto troppo raffinata e nuova per un ventenne di periferia, ma nessuno gli chiede da dove l’ha presa o con i soldi di chi. Sappiamo già la risposta.
E mentre Tommy, Francis e Eean si beano della comodezza dei sedili, assonnati nei loro vestiti sporchi e sgualciti io non la smetto di parlare nemmeno per un secondo, sento che la voce si fa sempre più acuta ma non riesco a trattenermi: sono incazzata con loro.
«E Tommy lo capisco – dico – perché è andato a chiamare Trav e Liz. Lo capisco, ha perso tempo per quello, che è qualcosa di intelligente. Ma Eean, diavolo, non potevi alzare quel culo e andartene? Ringrazia che non ti hanno trovato addosso niente, porca puttana, Evan, digli qualcosa.» e adesso mi giro verso di lui, Eean, che sta seduto sul sedile posteriore e che guarda la strada tutto assorto «Ma mi stai almeno ascoltando? Lo sai che putiferio succedeva se ti avessero preso?»
«Sì.» dice con voce mesta ed, effettivamente, mi sembra dispiaciuto.
«Mi dispiace,» cerco di rimediare «è soltanto che mi preoccupo, non potevo fare niente e  voi eravate lì. E poi chi cazzo lo spiegava a Kelly, eh?» mi fermo, deglutisco, dico: scusa, ho alzato la voce.
«Ecco, infatti, se vuoi continuare a urlare potresti farlo dopo, quando sono scappato da questa gabbia di matti?» la voce di Francis è schietta e sicura e, più di ogni altra cosa, mi irrita sentirlo riprendermi così. Mi volto e, nel farlo, noto l’occhiata che Evan gli riserva dallo specchietto retrovisore.
«Comunque non eravamo gli unici.» è Thomas a prendere in mano la situazione e io lo lascio fare, perché so che lui è bravo con gli altri, più di me. A volte sono gelosa del fatto che è così bravo con Eean, così capace, mentre io riesco solo a rompergli i coglioni. Che poi io a Eean gli voglio davvero tanto bene, è il mio migliore amico, è che la sua situazione è così delicata e io non sono abbastanza brava da saper come aiutarlo. 
Non sono abbastanza delicata.
Non sono abbastanza niente.
«C’erano Paul, Vince, Lynch, credo anche Abby McDonald, no?» e dicendo così Thomas si sporge verso Eean, come a chiedere conferma, per poi aggiungere perplesso: «Mi sa che dorme, adesso.»
«A posto.» è Francis a parlare «Problema risolto.»
La sua voce è ferma, dalla sfumatura stizzita – e anche se è solo una sfumatura, io la sento. Vorrei girarmi per dirgli di non rispondere con quel tono, come se tutta la mia patronale nei confronti di Eean sia stata un’idiozia, un capriccio – e anche se non l’ha detto, io sento che lo intendeva – ma mi fermo all’ultimo. Non voglio che pensi che me la prenda per così poco, non voglio che si arrabbi ancora: con tutto quello che sta passando a casa sua il modo in cui si sta comportando ora è legittimo. 
Allora gli sorrido, sorrido anche a Thomas che mi guarda sovrappensiero. Sorrido per far vedere che è tutto okay, tanto sono brava a fingere.
Il fatto è che a volte devi fare finta di ignorare certe cose, sorridere ed essere una brava ragazza: sono brava in questo. Faccio finta di non capire, faccio finta che vada tutto bene. Liz non è d’accordo, Liz dice che bisogna combattere contro trattamenti come questo, io le rispondo che ci sono diversi modi di combattere contro qualcosa, che non è sempre tutto cristallino come sembra. Anche ieri sera è successa la stessa cosa: anche ieri sera ho sorriso compiacente come faccio di solito, là da sola, in quel cesso, sporca di vomito e lacrime.
Una volta Francis mi ha detto che le ragazze vengono trattate solamente così, in questo posto, lo ha detto con un tono amaro, deluso, mentre eravamo seduti sul suo letto a sfogliare gli spartiti, prima delle prove. Ho alzato la testa per guardarlo, sorpresa, e l’ho visto col capo chino sulle carte, la luce che filtrava dalle persiane della sua finestra a colpirgli il viso dai lineamenti duri, come intagliati nel legno.
Forse hanno ragione entrambi, non glielo biasimerei; ma per me questo è l’unico modo. È come colmare un buco che hai dentro, che ti sei scavata da sola; e ormai sai che è passato così tanto tempo da quando ti sei svuotata che non ti basti più. Ti servono irrimediabilmente gli altri.
Mi servono irrimediabilmente gli altri.
Cerco l’amore della mia vita nello sgabuzzino di una villetta che non conosco, schiacciata contro il muro da un ragazzo più grande di me. Sorvolo quando mi strappa malamente la camicetta – era proprio carina, l’avevo comprata due settimane fa in sconto – e quando mi rovina il trucco su cui ho passato quasi un’ora, a casa, e che ho ripassato poco prima di venire qui. Chiudo gli occhi e faccio finta di non essere qui, di essere su un letto comodo, a casa mia, mi immagino che quando avrà finito mi chiederà il mio numero: io non cederò subito, ma prima che se ne vada magari glielo scriverò sulla mano con una biro. Faccio finta che scopare in uno stanzino pieno di prodotti per la pulizia e moci sia l’equivalente di un appuntamento al bar, e mentre lui – credo si chiami Harvey – mi ansima sul collo, vedo noi due che ci facciamo quelle stupide domande da primo appuntamento. Di dove sei? Che lavoro fai? Cosa hai studiato? 
Magari alla fine ci baciamo dolcemente, come fanno nei film, magari ci mettiamo insieme. 
Magari alla fine ci innamoriamo.
Io vivo in questo modo, di se, di forse, di questo piacere malinconico con sconosciuti, esisto solamente in questo momento, quando sento di poter essere amata. Anche se so che non sarà così, anche se so che rimarrò sempre la Puttana, quella che non potrà mai avere qualcuno accanto. Eppure ho imparato a farmi bastare questi attimi di attenzione in cui quel baratro che ho nello stomaco mi fa meno male. Non posso pretendere di più. Non io, Constance Waters.
E allora quando Harvey mi lascia qui e chiude la porta, soddisfatto della sua storia di una notte, io gli sorrido maliziosa, come se mi piacesse, e lo guardo voltarmi le spalle. Per un lungo momento immagino che questa si apra svelando uno spiraglio di luce e che ci sia lui. Che mi baci, che mi dia tutto ciò che non ho mai avuto. Passano migliaia di anni prima che quel momento finisca e che il mio corpo inizi a funzionare di nuovo. Guardo in basso e vedo la camicetta strappata, la gonna alzata e le mutandine che giacciono ai miei piedi.
Fa tutto così schifo, io mi faccio schifo per comportarmi sempre da troia in una maniera schifosa, io gli faccio schifo perché è evidente che io non sia interessante – sono mediocre, sono stupida – e allora corro verso il bagno così, tanto nessuno si cura di me e quando ci arrivo vomito tutto quel disgusto e torno ad essere il solito involucro stropicciato di sempre.
Poi torna quel vuoto, più forte di prima.
Le Puttane possono essere amate?

«Constance?» è la voce di Evan a portarmi alla realtà, quella la sua mano che mi scuote la spalla, in attesa di una mia risposta. 
Prima di proferire parola guardo distrattamente il mio riflesso sullo specchietto retrovisore: il rossetto è andato via del tutto ma la matita e il mascara mi segnano gli occhi in cerchi neri e asimmetrici; vedermi così provoca un moto di repulsione per me stessa, quindi mi sbrigo a girarmi dall’altra parte cercando, invano, di migliorare la situazione passandomi la mano sul viso sporco.
«Che fai, allora?» incalza Francis dal sedile posteriore – è l’ultimo rimasto, Thomas e Eean devono essere scesi un po’ di tempo fa -, le braccia incrociate in un gesto evidentemente difensivo. Lo ignoro, rivolgendomi direttamente a Evan. Lui deve intuire che non ho la minima idea di che cosa stiamo parlando perché riprende il filo del discorso con la sua voce atona e incolore.
«Francis passa da me, prima di tornare a casa. Tu cosa fai?»
Torno a casa: certo che torno a casa. Non credo che la situazione cambi radicalmente: se non tornassi papà non si preoccuperebbe per niente e Janet ancora meno, ma non mi va di andarmene in giro così: mi sento stanca e sporca – fuori e dentro – e non voglio che gli altri mi vedano così per altro tempo.
«Casa.» rispondo sbrigativa, poi mi rivolgo verso Francis scherzando: «Oggi alle prove io ci sono, sarà meglio che ti presenti anche tu.»
Pensavo che così sarei risultata, che so, rilassata, e pensavo che lo stato in cui sono sarebbe passato in secondo piango rispetto a questo moto di umorismo e invece lo vedo allungarsi ancora di più sul sedile, non mi rivolge nemmeno un’occhiata: è incazzato. Ironico che sia sempre lui quello con il diritto di arrabbiarsi, mentre io sono sempre quella più accomodante, tra i due. Allora fanculo agli scherzi, mi giro dall’altra parte e mi dico che non mi interessa se non ci sarà.
Ringrazio Evan per il passaggio, e mi curo di farlo con un tono non troppo scazzato, perché so che lui non ne può niente, e poi saluto tutti e due dal marciapiede dove mi hanno lasciata – che, per la cronaca, non è troppo lontano da casa mia.
Ancora qui, appoggiata al muretto della strada che porta a casa, tiro fuori dalla borsa un paio di scarpe da ginnastica più comode dei tacchi ma assolutamente orribili. Me le infilo sbrigativa, non curandomi se la maglietta strappata rivela troppo quando mi chino ad allacciarle. 
Se qualcuno si sporgesse ora dalla finestra di queste villette a schiera, vedrebbe una ragazza vestita di rosa cipria con i rimasugli di un trucco appariscente, la vedrebbe camminare svelta verso il numero 422H, la borsa stretta al fianco attraverso cui le punte dei tacchi le pungono il costato, la vedrebbero camminare come se tutto andasse bene, come se non le importasse dalla situazione in cui versa, di quello che è successo ieri sera, della notte insonne. Di tutto, cazzo. E allora si convincerebbero che per lei va tutto a meraviglia, a torto o a ragione non ha importanza: quel che conta è convincerli. Quando fingi abbastanza con te stesso inizi a fingere con gli altri, e allora il mondo che ti costruisci attorno diventa una realtà per tutti, non solo più per te. Trovo che sia giusto così, non voglio far preoccupare gli altri, far pensare loro che ci sia qualcosa che non vada – c’è tanta di quella merda in questo posto, perché non pretendere che almeno qualcosa, una piccola cosa, sia al suo posto così come deve essere? Perché non pretendere che Harvey o come si chiamava mi telefoni stamattina per sapere come sto? Non fa male a nessuno, di certo non a me.
Londra, Agosto 2009

Porca puttana.
Porca puttana. 
Porca puttana.
Va tutto a puttane, porca puttana.
Tra due ore devo essere al lavoro e sto ancora camminando per prendere il Silverado. Che ho lasciato dai Lain, ovviamente. L’ho lasciato lì perché è arrivata la polizia. Per quello. Ripetermi le cose mi aiuta a tenere il filo dei miei pensieri, altrimenti mi perderei. Quand’ero più piccolo era una cosa che mi succedeva sempre, non ricordarmi più a che cosa volevo arrivare. Le maestre rompevano un sacco le palle per quello. Poi mi è passata abbastanza, la cosa, anche grazie a tutte le sedute di terapia con il signor Rogers, ha persino detto che sto migliorando – migliorando – e quindi io credo che sia giusto che Kelly lo sappia. Anche se Kelly non vuole mai parlarmi.
Il Silverado l’avevo lasciato da qualche parte qua in giro, porca puttana.
Non è facile fare mente locale con tutto quello che mi son preso ieri sera, quando mi hanno preso stavo sguazzando in una pozza del mio stesso vomito – non è esattamente la cosa di cui sono più orgoglioso, ma mi sembra un dettaglio importante per dare il quadro generale: ovvero il fatto che il mio cervello si sia squagliato e ora, di punto in bianco, debba solidificarsi e darmi una mano a cercare il pick-up. Una volta ho conosciuto questo tipo con un passato da tossico dipendente, dev’essere stato, chessò, l’anno scorso, quando andavo ancora al sedute di gruppo del centro – gran rottura star lì a parlare della cazzo di malattia con cui sei nato e per cui, per la cronaca, non puoi fare niente. Ma comunque. Il tipo. Ecco, quello là era uno ricco sfondato, ai livelli di Trav, e tra un meeting e l’altro con i suoi clienti trovava sempre il tempo per andare in bagno e tirare su qualche striscia di coca. Alla fine credeva che gli avessero rimpiazzato la figlia con una bambina molto, molto simile, ma che comunque non era la stessa. 
Ah, e credo anche che avesse picchiato la moglie fin ad ammazzarla, quasi, ma non mi ricordo perché.
Naturalmente dopo quella storia ho ben chiarito che a quel cazzo di centro psichiatrico non ci volevo tornare. Roba da pazzi. Io non voglio diventare così – nonvogliononvogliononvoglio – quindi ieri sera è stata ufficialmente l’ultima sera in cui mi riduco in quel modo. Poi basta.
Il Silverado, Eean, cerca quel Silverado del cazzo.
Mentre svolto per una strada di campagna penso a quello che mi ha detto Constance. O almeno a quello che io ho recepito, visto che mi sembra di aver capito che lei ha continuato a parlare anche mentre dormivo; mi ha detto che potevamo scendere insieme che vicino a casa sua c’è una fermata della metro che mi porta fino a Soho, ma io proprio non me la sentivo di mollare qui l’auto. In ‘sto posto vuoto rischio ancora che me la rubino. O che ne so. Insomma, l’auto non la mollo in giro come il primo coglione.
E poi la vedo, arancione in mezzo al verde. Era a circa cinquecento metri dalla villa, ma mi è sembrato di camminare per ore. Ficco le mani nelle tasche dei pantaloni lerci alla ricerca della chiave e poi inizio a camminare sempre più veloce perché porca puttana, porca puttana, porca puttana, sono in ritardo.

Prima di rendermi conto che questo cellulare stava squillando, devo chinarmi per raccoglierlo da terra.
Per farla breve è caduto dal sedile passeggero.
Per farla lunga l’avevo appoggiato con cura là e l’avevo messo in silenzioso e quando hanno chiamato ha iniziato a vibrare ed è finito di sotto. Approfitto dei tempi morti del traffico di Londra per rispondere.
«Ma’?» lo dico a voce più alta del solito perché ho di nuovo posato il telefono sul sedile e ho paura che mamma non senta, se è così lontano.
«Dove sei stato, Eean? Ti ho chiamato altre venti volte stamattina!» anche la sua voce è più alta di un’ottava e mi dispiace averla fatta preoccupare.
«Ma no, ma’, tutto bene. È solo che sono andato a questa festa e poi mi sono fermato a dormire da Francis. Ero stanco morto. Adesso vad—» e lei mi interrompe a metà frase.
«Potevi dirmelo, no?» è ancora stizzita.
«Eh.»
Eh è l’unica cosa sensata che riesco a pensare ed è anche l’unico verso sconsolato che riempie quei secondi di silenzio che proprio non riesco a sopportare. Tanto mica posso dirle che è successo veramente.
«E adesso vieni a casa?»
«No, adesso vado al lavoro, finisco per le quattro e se quegli schiavisti non mi trattengono di più vado alle prove.»
Seguono trenta buoni secondi in cui mia madre si lamenta del fatto che non stia mai a casa mia. Un po’ mi dispiace, qualche volta mi piace isolarmi nella mia stanza a leggere o a guardare la tv, specie nei giorni no, ma ormai ho deciso di impegnarmi per Kelly. E per il bambino. Anche se lei, Kelly, dice che come padre non sarei buono – ma io lo giuro che vorrei migliorare, è che lei non capisce.
«Lo so, lo so, stasera comunque torno. Forse si ferma anche Travis per cena.»
Lei non reagisce più male, la sua voce torna ad essere calma. È felice che frequenti uno come Trav, di buona famiglia e ben istruito, con un sacco di belle idee in testa; e poi ormai Trav vive da noi – da quando ha fatto il trasloco la cucina della casa nuova non funziona per niente, e mentre aspetta di ripararla si ferma da noi.
«Va bene, allora.» e lo dice con tono un po’ rassegnato.
«Allora ci sentiamo, eh, ‘ché sono quasi arrivato.» bugia, sono ancora in questo traffico del cazzo. Suono il clacson totalmente a caso per vedere le facce stizzite degli altrui guidatori – è estremamente divertente.
Mi saluta mesta mentre io mi becco un dito medio da una signora imbottigliata dentro a una smart e io le sorrido felice. Mi accontento di poco, dopo tutto.
Alle volte mi dico che forse il problema è proprio questo: io mi accontento di poco. Non tutti hanno i miei stessi standard, non tutti a diciannove anni sarebbero contenti di avere un figlio in arrivo o, peggio ancora, di avere un figlio in arrivo il cui padre è un fattone a cui hanno diagnosticato il BPD. Eppure non lo capiscono, gli altri, che per quelli come me avere un figlio è l’unica salvezza. Quando l’ho annunciato alla signora Fisher, che per la cronaca è la dirigente del fastfood dove lavoro, lei mi ha risposto noncurante di fare attenzione: a quest’età un bambino ti può tagliare via le ali. È proprio questo il punto cruciale: io le ali non le ho mai avute.
Alla fine il turno passa in fretta, sto cinque ore a friggere patatine con un completo rosso tremendamente imbarazzante, ma trovo sempre il modo per chiacchierare con gli altri. Tipo Martha, che è una studentessa universitaria ed è super intelligente e tra una cosa e l’altra mi racconta un sacco di cose sulle lezioni di fisica che segue. Del tema io so solo che la risposta alla vita, all’universo e tutto quanto è quarantadue – la prima volta che gliel’ho detto lei mi ha guardato stranita e allora ho dovuto raccontarle con esattezza ogni cosa. 
Poi c’è Amandeep che fa morire dalle risate ma lo fa sempre con un umorismo intelligente, non come a me a cui basta fare il giullare per far ridere gli altri. Quando non è preso a tirare frecciatine verso i clienti parla sempre dei suoi tre figli, uno dei quali è tornato in India per non so cosa fare, ma dice sempre che gli manca tantissimo e che io glielo ricordo, visto che ho grossomodo la sua età. Andiamo d’accordo, insomma, anche se stare nelle cucine ti fa morire dal caldo e anche se i clienti sanno essere dei veri bastardi, a volte. Tra l’altro Francis mi ha detto che quando da lui i consumatori sono troppo schizzinosi lui si arrangia volentieri pisciando nei loro caffè o intingendo il cazzo nei loro drink. 
Io però con le friggitrici non lo poso mica fare, peccato.
   
 
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