¨Un
folle e la luna¨
Makishima
spesso non tornava a casa.
Non
ricordava quando avesse iniziato a farlo, ciò che sapeva
era che non voleva smettere.
Lo faceva a prescindere dalla stagione, a prescindere dal
tempo, a prescindere da tutto e da tutti. Chissà, forse lo
faceva da quando sua
madre, a sette anni, gli aveva detto: “la tua pelle
è malata. Non puoi andare
con gli altri bambini”.
Quando Makishima ci pensava sorrideva; non sapeva se ci fosse
amarezza in quella piega dolce delle labbra; non sapeva se davvero
ciò che sua
madre aveva detto quel giorno veramente ha avuto la capacità
di influenzarlo
tanto, ma non gli importava e non gli sarebbe mai importato.
Non
aveva una cadenza precisa, non era un appuntamento fisso.
Era una relazione strana, da sfruttare quando il suo animo tormentato
ne
sentiva il bisogno più di quanto bramasse l'aria, o il cibo.
Andava lì la sera, quando la spiaggia era ormai deserta: di
solito era abbastanza tardi perché tutto fosse silenzioso.
Si arrampicava velocemente sugli scogli, erano sempre gli
stessi e la pietra conosceva il peso dei suoi piedi, a volte pensava
che le sue
impronte fossero cresciute man mano impresse nella roccia.
Il suo posto non era mai cambiato in tutti quegli anni, la
sua posizione sì. Da piccolo si gettava lì come
meglio gli veniva, solo
guardare gli importava, solo nutrire quei suoi occhi tanto poco umani,
tanto
diversi, con l'immensità di qualcosa che lo avrebbe
accettato senza pensare.
Da adulto, si sedeva un po'
più composto. Teneva una gamba
allungata davanti a sé; a volte dritta, a volte era un po'
più avanti, a
penzolare sopra le onde. L'altra era sempre piegata, raccolta vicino al
suo
petto. A volte vi appoggiava un braccio. A volte aveva un libro con
sé,
raramente, soprattutto in passato, aveva un paio di cuffie una
playlist. Ciò
che aveva sempre erano due occhi puntati verso l'orizzonte.
Era quella linea sottile ad
affascinarlo.
Man mano che il tempo passava la luce
veniva meno, se aveva
un libro era costretto a chiuderlo. I minuti scorrevano e con loro
anche la
nitidezza del confine fra cielo e mare scivolava via. Il suo posto non
era
lontano dalla città che bruciava di folle luce olografica
alle sue spalle, ma
bastava. Davanti a sé solo l'oceano, solo quello, e presto
non avrebbe più
saputo dire dove terminava e dove iniziava il cielo. Neppure le stelle
erano
un'indicazione: si riflettevano nell'acqua, lo illudevano di essere
avvolto dal
cielo, un viaggiatore solitario in mezza a un universo che non si
sarebbe mai
aperto per lui.
Solo la luna lo riportava alla
realtà. La luna riflessa
tremava, l'acqua irrequieta la faceva rabbrividire nella sua perfezione
lattea.
Non poteva ignorare la forza oggettiva che gli ricordava che la
metà inferiore
del suo cielo era solo un riflesso, che metà di quello che
vedeva era solo
finzione che la sua mente cercava di spacciare come realtà.
Pregava nelle
nuvole: avrebbero nascosto stelle e luna. Aspettava con ansia quel solo
giorno
di luna nuova, avrebbe potuto dimenticare che la sua nemica gli
ricordava che
era tempo di smettere di sognare.
Per anni aveva odiato la luna. La guardava come la tigre
guarda alle sbarre, ma poi era cresciuto. La sua consapevolezza era
cresciuta e
si era reso conto di quello che stava facendo davvero.
Stava cercando di dimenticare una realtà che sapeva
esistere,
cercava di dimenticarla per sparire in ciò che gli era
comodo credere.
Era sceso a patti con la luna, si era
lasciato aiutare a
vedere. Le aveva preso la mano, si era gettato con la forza della
solitudine in
quello spiraglio che da sempre aveva visto. Aveva trovato la sua strada
e ora
guardava la sua maestra crescere in cielo, ogni mese, crescere,
sbocciare e
scomparire, e lui sorrideva.
Spesso rideva di sé nel pensarci. Davvero non poteva fare a
meno di far poesia su questo. Nemmeno ora che il suo bianco si era
macchiato di
sangue e aveva deciso di affogarvi dentro, se fosse stato necessario.
Anche a
quel punto, stava in silenzio su uno scoglio, una notte, un'estate, con
il mare
calmo che neppure schizzava la gamba penzoloni sulla sua superficie.
Alle sue spalle, sul lungomare, le luci e la gente si
agitavano fra musica, bicchieri di finti alcolici e una qualche
manifestazione
di cui non ricordava il nome.
I suoni arrivavano alle sue orecchie e lui scuoteva la testa.
Fra quelle persone, anche solo una si era mai fermata a rimirare quel
paesaggio? Lo sperava, ma quale pecora si ferma mai a guardare davvero
oltre la
sua mangiatoia, quale animale alza gli occhi a cercare un orizzonte e
ad amare
il momento in cui cielo e mare si uniscono? Quale uomo che non sia
completamente folle può arrivare ad amare quella luna
maledetta che per anni
gli ha strappato il sogno?
Solo un matto, solo un animale in gabbia, solo chi è infelice
può cercare qualcosa nel nero terrificante del mare di notte.
E Makishima Shogo era infelice. Aveva
smesso di illudersi. La
sua ricerca lo affascinava, a volte si divertiva, ogni tanto trovava un
po' di
pace, a volte era tanto furioso con tutto che avrebbe ucciso ogni
creatura
vivente gli fosse passata sotto gli occhi, prima di togliersi la vita.
Pensava
a tutto questo in silenzio, mai nessuno aveva udito un barlume di tutto
ciò.
Aveva una missione, l'aveva scelta da sé e non avrebbe
permesso a nessuno di
portargliela via, però il suo animo di matto, un po'
omicida, un po' filosofo,
un po' letterato, un po' uomo ordinario e solo, aveva bisogno di quella
culla
in cui ora affondava gli occhi. Occhi felini, occhi di demone, di
bestia, di
uomo.
Ma al mare (o al cielo?) non importava.
A volte piangeva, ma non era quella la
sera. Non si vergognava delle sue lacrime, ma non era quella la notte
per versarle.
Aveva gettato il suo sassolino in uno specchio d'acqua ben diverso da
quel mare, un sassolino che era caduto nelle mani di un uomo ben
più disperato di lui e che era destinato a creare onde
terribili.
Makishima quella notte sorrideva al cielo, i denti scoperti in un
ghigno travestito da felicità. Avrebbe messo alla prova i
cuori degli uomini impigriti e ormai ridotti a bestiame che abitavano
quel mondo impazzito che tanto detestava. Avrebbe cercato con tutte le
sue forze di scavare nelle membra cibernetiche di quella follia
chiamata utopia, di insidiarvisi come il parassita che era e trovare
finalmente cosa fosse il suo cuore.
Guardò la luna e sorrise ancora mentre inspirava la salsedine che permeava l'aria.
***
E ora Makishima Shogo sorride. Il
vento ancora gli increspa i
capelli. Il cielo è ancora nero, ma sotto di esso non
c'è il mare.
Alle sue spalle non c'è una città ebbra d'estate,
ma un campo
di grano infinito. Alle sue spalle non ci sono pecore vocianti, ma un
uomo.
Alle sue spalle non ci sono delle luci, ma un revolver carico.
Non cerca più le risposte,
non ne ha tempo.
Non getterà più
lo sguardo in quel nero fra il cielo e il
mare.
Non piangerà in silenzio
senza motivo, lo ha già fatto mentre
correva e annaspava. Un paio di lacrime, non di più.
Le sue labbra parlano: -Troverai mai
qualcuno per
rimpiazzarmi?-
-Spero proprio di no-
Makishima Shogo sorride. I suoi occhi
cercano una luna che
non c'è. Luna nuova? Forse, pensa per un istante, la mente
annebbiata dalla
perdita di sangue e da quel revolver, la Luna è scesa a
prendermi.
Il suo sorriso si allarga. Il volto
è più innocente di quello
di un bambino, anche se è sporco di rosso, gli occhi grandi
e limpidi.
Uno sparo.
La luna, uscendo da una nuvola,
trovò in un campo di grano un
amante da piangere.
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Tana del Drago:
Rieccomi qui, dopo circa un decennio, ma io ho i miei tempi. no, è che sono demente e pigra
Non ho molto da dire su questa shot, se non che è stata partorita in un'ora e mezza di noia spiaccicata malamente in una tenda. Avevo promesso a delle amiche che avrei scritto qualcosa con Makishima e il mare di notte, per cui questo è il risultato, spero sia accettabile ^^
Non sono affatto brava con gli angoli autrice quindi mi dileguo: se avete due minuti per lasciare una recensione farete un'autrice contenta
Alla prossima!
Marta