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Autore: Marysia Lukasiewicz    21/08/2017    1 recensioni
Almaty, Unione Sovietica, giugno 1941.
Un gruppo di ribelli anti-sovietici kazaki approfitta dell'operazione Barbarossa per sabotare e danneggiare l'esercito russo. Tra questi spicca la figura del giovane Otabek Altin, reduce da un passato burrascoso proprio a causa dei sovietici, che combatte attivamente per la libertà del proprio paese. Obbiettivo principale dell'organizzazione ribelle è il colonnello Viktor Nikiforov. Uomo affascinate che, dopo essere stato esiliato dalla natia San Pietroburgo, venne messo a capo della città di Almaty, compito per lui estremamente umiliante. Aiutato dal caporale Jean-Jacques Leroy, giunto in Kazakhstan con la propria divisione direttamente dal Canada per fronteggiare i nazisti al fianco dell'esercito sovietico, il colonnello Nikiforov combatte strenuamente la resistenza kazaka per risanare il proprio orgoglio. Un amore proibito nasce, però, tra le due fazioni di una guerra senza fine. Yuri Plisetsky, nipote del colonnello Nikiforov, sedicenne scalmanato allontanato ingiustamente dalla propria città Natale quando ancora era bambino, troverà l'amore al fianco dello stesso Otabek, l'Aquila d'oro delle steppe asiatiche.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Georgi Popovich, Jean Jacques Leroy, Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Nonostante luglio fosse alle porte, le mattine kazake continuavano ad essere fastidiosamente nebbiose, scure, tristi. Svegliarsi in quello stato di freddo e oscurità non era mai piacevole, andare a lavoro lo era ancora di meno. Per Mila, che aveva il sorriso più bello di tutta la città, al contrario, passeggiare di prima mattina per le strade nebbiose e scure di Almaty non era mai stato un peso e tantomeno lo era stato lavorare. Era mite per natura, ottimista, gioiosa, aperta, gentile, era capace di vedere il bello anche nel dolore e nel male. Aveva un impego che le piaceva, le trasmetteva felicità, e trovava un che di poetico nella nebbia fitta e densa, nel freddo e anche nel silenzio. Aveva preso ciò che la vita le offriva e l’aveva migliorato, si godeva ogni momento come fosse il più prezioso della sua vita. Per molti in Kazakhstan il lavoro era un dovere straziante, un obbligo per la mera sopravvivenza e, che fossero kazaki o russi, non avevano mai piacere nel farlo. Mila era nata a Mosca, era piuttosto benestante e, bella com’era, non avrebbe certo fatto fatica a sistemarsi con un ufficiale o con un governatore. Eppure a diciotto anni aveva fatto le valige e se n’era andata, senza dire nulla a nessuno, proprio in un giorno di nebbia. Voleva studiare, ma non le venne permesso e non ci riuscì mai neppure da sola. Ma tentò, fuggì a sud e si ritrovò ad Almaty, ma in università non l’accettarono e la famiglia a Mosca non l’avrebbe riaccolta dopo un atto talmente irresponsabile. Ma Mila era in gamba e riuscì a riadattarsi e così, nel centro nebbioso della buia Almaty, aveva costruito un piccolo paradiso di colori e gioia, che era diventato il suo rifugio di pace e armonia. Le piaceva lavorare col sorriso e amava far sorridere gli altri. Ogni mattina, quando il vicinato la vedeva passare, elegante e composta, ma comunque raggiante, la nebbia sembrava farsi meno fitta. Il suo era un negozio piccolo, modesto, curato ed elegante, lo amavano tutti. Vendeva bambole, trenini, soldatini, cavallucci, i bambini andavano e venivano di continuo e lei li adorava, li conosceva quasi tutti e giocava con loro. I genitori che portavano i bambini da lei erano poi una vera perla di splendore. Appena entravano, incantati da quella meraviglia surreale di innocenza e bellezza, sembravano tornare fanciulli e i loro sorrisi erano ancor più grandi e curiosi di quelli dei figli. Gli affari andavano bene, le persone erano gentili e il lavoro calmo e piacevole. Mila era come il sole che, come sappiamo, in Kazakhstan non c’era mai. Eppure, quel giorno, la meravigliosa rossa di Mosca camminava fredda, vuota, e ad ogni suo passo Almaty sembrava diventare più grigia e triste. Il suo viso pallido era rotto, ma non voleva piangere. Voleva sperare, ma non ci riusciva. Il male di quella guerra era riuscito a piegare anche la più graziosa e mite delle anime.
 

L’atmosfera in casa Nikiforov non era mai stata tanto fredda e soffocante. Yuri era spento, pallido, due enormi occhiaie ad incorniciargli lo sguardo già di per sé stanco e affaticato da una notte di pensieri e angosce. Jean-Jacques, che aveva piena fiducia in sé e nelle sue capacità di uomo e soldato, appariva ancor più tormentato del giovane biondino. Neppure lui chiuse occhio quella notte, agitato e in preda allo sconforto. Era deluso, inorridito dal suo atteggiamento tanto debole e passivo. Passò la notte seduto alla scrivania, con la sola luce di una candela a ravvivare il buio triste della notte. Scrisse una lunga e fragile lettera al suo amore lontano, a quella creatura tanto innocente che il suo solo ricordo riusciva ad alleviare il dolore che la solitudine gli portava. Si era prefissato un obbiettivo, poco prima di partire per il Kazakhstan aveva giurato alla sua adorata che sarebbe tornato da lei più uomo di prima, più forte. Sarebbe rinato dalle ceneri della sua dipendenza e così avrebbero nuovamente vissuto assieme, un futuro felice gli si era aperto davanti e non attendeva altro che la fine della guerra per poter tornare in Canada dalla sua amata stella. Ma lui era debole, lo ammetteva, lo accettava e se ne vergognava. Sperava che la lontananza, la solitudine e il disperato desiderio di riaverla lo rendessero abbastanza forte di tener duro a quella tentazione, cosicché, una volta raggiunta la redenzione, potesse tornare da lei orgoglioso di essere un uomo nuovo. A lei non sarebbe piaciuto vederlo così, a bere ancora, come prima, senza un limite e senza pietà alcuna per se stesso e la propria fragilità. Scrisse una lettera di scuse di due fogli, passò la notte a spremersi le meningi per trovare le parole giuste e comporre frasi eleganti e degne del più nobile dei cavalieri, doveva apparire pulito, cresciuto. Nonostante fosse sulla soglia dei Trenta, era rimasto un ragazzino screanzato fino a pochi anni prima, quando si era preso la responsabilità di prendersi cura della sua amata principessa, quando aveva deciso di mettere da parte le bottiglie di vino e di indossare la divisa. Passò ore a scrivere e riscrivere frasi sempre identiche e il risultato non fu altro che un ammasso spoglio e secco di parole sempre più vuote e supplichevoli. Si rese conto di essere talmente debole da non poter fare di meglio. Esitò, forse era meglio non spedirla e tenersi quella ricaduta per sé. Forse avrebbe dovuto aspettare un momento di maggiore lucidità e scrivere un qualcosa di meno mediocre e piatto. Forse avrebbe dovuto bruciare quella lettera, ma la rilesse e la rilesse più volte e alla fine decise di doverla spedire così com’era, senza tagli o ulteriori correzioni. La firmò, sigillò la busta e poi si mise finalmente a letto quando ormai di tempo per dormire ne era rimasto fin troppo poco.

Così, quando fu l’ora della colazione, in casa Nikiforov erano la stanchezza e le angosce a farla sovrana. Il primo a giungere in sala da pranzo fu Viktor, che quella notte non aveva neppure considerato l’idea di provare a dormire. Portava la camicia aperta, le fasciature erano ben esposte e bianche, aveva smesso di sanguinare copiosamente e, con la calma dovuta, la ferita cominciava a richiudersi. Si fece servire immediatamente senza attendere gli altri commensali, capiva che non era la situazione più adatta ad una gradevole colazione. Lo seguì così il caporale Leroy, già in divisa, stanco e spossato da una notte di pensieri. I capelli disordinati non gli si addicevano, non più, sembrava un’altra persona. Viktor sollevò lo sguardo appena lo vide entrare nella sala da pranzo, i due si scambiarono un cenno e poi continuarono ad ignorarsi, immersi nei pensieri che li tormentavano. Jean-Jacques poggiò la lettera sul tavolo, poi iniziò a fare colazione. Appena terminato avrebbe immediatamente chiesto al colonnello sovietico di farla spedire più in fretta possibile in Canada. Tenevano lo sguardo basso, non si accorsero neppure dell’arrivo di Yuri qualche minuto dopo. Al contrario dei due ufficiali era stranamente in ordine, pettinato e tirato a lucido, i capelli legati al solito dal nastro che Yakov tanto odiava. Indossava una delle sue camice migliori, a maniche corte, di un azzurro opaco e sfumato. Era pallido come non lo era mai stato, le labbra secche, tormentate dalle immagini atroci che quella notte lo avevano sconvolto. Gli occhi stanchi splendevano di una vivacità giovanile inafferrabile e delicata, voleva fare tante cose e voleva farle in fretta, voleva rivedere gli occhi di Otabek e quell’alone di mistero che tanto lo attiravano. Sentiva la mancanza di quella calma che, anche se per pochissimo tempo, aveva vissuto al suo fianco, sia quando gli aveva salvato la vita che quando si era aperto con lui, quando gli aveva mostrato il suo dolore. Emanava un calore delicato, Otabek, familiare e genuino, un calore che Yuri aveva smesso di provare da tanto, troppo tempo. Gli trasmetteva una sicurezza innaturale, lo faceva sentire libero, lo riportava a casa con un solo sguardo, da suo nonno, in Russia, dove aveva l’amore della famiglia. Perdere quel calore un’altra volta sarebbe stato un colpo eccessivamente pesante per lui, fragile creatura in un mondo fin troppo crudele. Si sedette al suo posto e Viktor gli sorrise come meglio poteva. Un sorriso spento, piatto, ma comunque presente, un ennesimo disperato tentativo di mantenere vivo un rapporto quanto più intimo e confortevole con l’amato nipote. Yuri lo notò, si sforzò di ricambiare, ma non ci riuscì. Capiva gli sforzi dello zio, sapeva quanto ci tenesse, ma faticava persino a reggere il suo sguardo. Ne era spaventato e se ne vergognava. Era intimorito dagli occhi della persona che l’aveva sempre protetto, che l’aveva allevato e gli era sempre stato accanto. Tremava, perché attraverso quelle iridi gelate non riusciva più a riconoscere l’anima del suo caro zio, ma solo tanta spaventosa rabbia e furia. Esitò, gli fece un cenno e distolse immediatamente lo sguardo. Non percepiva in lui la sicurezza di cui aveva sempre avuto bisogno, quelle sue urla graffianti e cariche d’odio riempivano ancora il vuoto della sua mente. Sentiva di conoscere addirittura meglio Otabek che suo zio.
Consumarono tutti la colazione in fretta. Yuri, che era arrivato per ultimo, finì per primo e uscì di casa. Viktor voleva sapere dove stesse andando con tanta fretta, ma Yuri si limitò a dirgli che sarebbe rimasto nelle vicinanze, nel quartiere russo, dove di norma non si dovrebbero correre grandi pericoli. Il colonnello, che sotto la coltre di odio e rabbia celava il cuore di uno zio premuroso e caro, non aggiunse altro, se non un semplice “stai attento”. Dopotutto, l’aria in casa Nikiforov si era fatta incredibilmente pesante e lo sarebbe diventata ogni attimo di più. Yuri non aveva mai visto un cadavere, o almeno non se lo ricordava, l’avrebbe mandato fuori a svagarsi a prescindere quel giorno. Il prigioniero, il ribelle, aveva ceduto alla morte prima ancora che i sovietici riuscissero a strappargli via la più misera informazione. Quel corpo massacrato con una violenza che lo stesso Nikiforov non sapeva di poter concepire, avrebbe custodito in eterno i segreti fatali delle organizzazioni ribelli. Un’anima che Viktor non aveva neppur considerato degna di esistere avrebbe infestato le mura di quella casa come una presenza oscura, una voce pacata e soave, che ogni giorno avrebbe ricordato al grande colonnello quanto fosse misero e inutile. L’aveva dilaniato, umiliato, aveva fatto tutto ciò che poteva ma un solo piccolo, esile e debole uomo l’aveva sconfitto ancora un’ennesima volta. Quella gloria che tanto bramava si faceva sempre più irraggiungibile e lui si stava lentamente accorgendo di non essere degno di riceverla. Avrebbe scoperto col tempo e col dolore quant’è facile piegare un’anima, giocarci e renderla propria. Non serve la violenza fisica per domare uno spirito irrequieto. Yuri, suo nipote sedicenne, ci era riuscito con la dolcezza di una fata. Altri avrebbero piegato l’anima di Nikiforov con l’astuzia di una volpe e la freddezza di un vero, spietato soldato.

- Dovrei spedire una lettera con una certa urgenza, colonnello. – Jean Jacques era spento, pallido, stranamente indeciso e esitante, Viktor lo notò immediatamente. Si alzò da tavola, riprese in mano la lettera e la porse all’ufficiale sovietico che, freddo, si destò dai propri dubbi e pensieri. I due si fissarono qualche attimo, poi il caporale canadese gli porse la busta. Viktor lo squadrò qualche attimo, poi fissò la lettera e, distaccato, tornò a godersi ciò che rimaneva di una colazione consumata lentamente e con malavoglia.

- Chieda alla stazione militare, ci penseranno loro ad informare i suoi colleghi in Canada della situazione. – il russo diede un sorso alla tazza di tè, ormai raffreddatosi completamente, lasciandosi sfuggire una vaga risata sardonica, tanto sottile quanto fredda. – Anzi, sicuramente l’avranno già fatto. – non sollevò neppure lo sguardo per notare l’espressione alquanto irritata del canadese, che tra le mani stringeva una lettera tanto intima quanto dolorosa. Sentiva di aver questioni più importanti da sbrigare, ma Jean-Jacques la pensava diversamente.

- A dire la verità è una lettera molto personale.- il caporale poggiò la lettera sul tavolo, davanti a Viktor e questi finalmente sollevò lo sguardo e la squadrò, poi gli sorrise con fare tanto beffardo quanto distaccato. Non aveva tempo per pensare alle questioni personali di Leroy, ma prese la busta e se la rigirò tra le mani. Appena possibile l’avrebbe spedita.

- Scrivi a tua moglie, immagino. – detto ciò, il sovietico si alzò debolmente da tavola, il braccio immobile e dolorante bruciava, un brivido di acuto dolore gli percosse la schiena da capo a fondo, poi gli risalì all’altezza della cervicale e gli invase il cervello. Non aveva tempo, perché quel dolore gli ricarda costantemente quella scontante e umiliante sconfitta che aveva subito come un incompetente. A Jean-Jacques mancava la moglie, a lui mancava casa. La guerra era una malata strega vestita di nero, col suo sguardo toglieva la felicità ad ogni uomo affascinante che trovava, li seduceva e li lasciava soli con il proprio dolore e con l’amaro sapore di un amore perduto tra le labbra. L’avrebbe spedita, ma non aveva tempo, la guerra reclamava in dono l’anima di Viktor e la sua spietata vendetta, solo allora l’incantesimo nero che gli aveva lanciato si sarebbe spezzato e Nikiforov avrebbe riavuto il suo amore, la sua patria.

- Se proprio vuole saperlo, colonnello. – Jean-Jacques distolse lo sguardo, poi strinse le mani in pugni serrati e si lasciò sfuggire un vago sospiro. Tra i capelli spettinati Viktor poté intravedere due occhi stranamente vuoti e per la prima volta vide il canadese davvero in seria difficoltà. A Leroy non piaceva parlare della propria situazione personale, ma non aveva mai neppure gradito la superficialità, chi parla senza sapere. Sicuramente, con la dovuta cautela, era capitato anche a lui, che nella sua vita non era mai stato icona di buone maniere ed educazione, ma dare per scontata una cosa tanto fragile e delicata non gli parve corretto. Soprattutto in periodo di guerra, quando il candore di una splendida vita umana non va mai dato per scontato. Ma dopotutto la guerra in Canada non vi sarebbe mai giunta in maniera diretta, Jean-Jacques gli concesse l’inappropriato errore. Dopotutto non poteva sapere, ma lo ferì comunque. – Mia moglie è morta da tempo. – non gli piaceva ricordarla, né tantomeno parlarne con estranei, ma gli parve giusto precisare e mettere per inciso la questione, cosicché non se ne parlasse più. – Non penso sia di suoi interesse sapere a chi scrivo le mie lettere, perciò le chiedo di spedirla e basta, se è possibile. – dettò ciò tornò a fissare Nikiforov come in attesa. Improvvisamente voleva troncare quella conversazione sul momento, ma voleva la conferma che la lettera sarebbe stata recapitata a chi di dovere, alla sua amata e lontana musa. Voleva parlarle, confidarsi con lei, voleva riavere la sua fiducia e quando sarebbe tornato a casa voleva riaverla e abbracciarla, lei che era l’unica cosa che gli era rimasta dalla morte di Isabella.

Viktor appariva palesemente scosso da quell’inaspettata rivelazione, detta con tanta calma da apparire disarmante. Doveva essere stato veramente un cretino, pensò, e chissà quanti altri in passato erano ricaduti nella sua stessa gaffe. A giudicare da quell’apparente calma che il caporale lasciava trasparire, doveva essere abituato ad errori simili. Ormai nell’alta società si dava per scontato che un giovane, attraente e affermato ufficiale fosse felicemente sposato e con un’ampia prole ad attenderlo a casa. Viktor non lo era, ma immaginava che Jean-Jacques lo fosse, si sentì sprofondare dalla vergogna. In effetti, lui non aveva tempo da dedicare alla vita personale del canadese, figuriamoci se avesse dovuto importargli sapere chi era il destinatario della fantomatica lettera. La raccolse dal tavolo, poi si scambiò una fugace occhiata con Leroy, i cui occhi erano improvvisamente diventati più scuri, fragili e tristemente amareggiati. Si mostrava calmo, ma era ferito. Doveva amare davvero la moglie scomparsa.

- Sarà fatto. Condoglianze. – Viktor appariva più mortificato di quanto non fosse, era a disagio per l’errore, ma alla fine neppure più di tanto. Ma era abile a controllare il suo viso e le sue espressioni tanto quanto era bravo a celare emozioni e segreti quando ne sentiva il bisogno. Davanti agli occhi di Jean-Jacques si palesò un volto modellato ad arte in un’espressione di sconforto e malinconia, ma non si lasciò ingannare, non dopo anni passati a sorbirsi le solite vuote e insensibili condoglianze dell’intera divisione militare di Toronto. Non se la beveva più l’insensibilità umana e neppure se ne faceva più un peso, la ignorava e basta.

- Non ne ho bisogno, è successo anni fa. – voleva solo interrompere quella conversazione, risalire in camera sua e attendere nuovi ordini. L’aria era appesantita dagli eventi appena passati, percepiva l’odore di morte attaccarglisi addosso, sui vestiti, un fardello che lui non aveva mai desiderato. Eppure era il suo lavoro, fare il soldato e uccidere, ma non lo aveva mai accettato. Se l’avesse fatto per vocazione sarebbe stato di certo tutto più sopportabile, ma non così, non con il rimorso ed il dolore ad annebbiargli il cuore. Non voleva quella vita. – Solo, la spedisca. – detto ciò si allontanò, salì le scale e scomparve nella sua stanza, anch’ella devastata dallo stesso disordine della sua confusa mente.
 

Yuri comprò dieci rose. Ma non erano rose qualunque, erano bellissime. Gradi, morbide, profumate, di un rosso tanto acceso da sembrare quasi surreale, non riusciva a credere che in Kazakhstan si potessero trovare fiori tanto meravigliosi. Erano il tipo di dono che, se fosse stato donna, avrebbe desiderato ricevere dagli spasimanti, delle rose che, nella loro semplicità, erano comunque uniche. Le fece avvolgere nella carta velina rosa pallido, sottile e delicata, quella che le signore in Russia usavano per i loro lavoretti di decoupage per ammazzare la noia. Infine aggiunse un nastro lungo e spesso, lo richiuse in un fiocco e il semplice mazzo di rose rosse gli apparve come il bouquet della più elegante delle spose. Se Georgi avesse avuto il coraggio di prenderle dei fiori, avrebbe di sicuro scelto quelli, gli avrebbe avvolti in quella stessa carta velina deliziosa e gli avrebbe trasformati in un gioiello per la sua irraggiungibile amata. Yuri non aveva dei gusti spiccati ed eleganti, ma riusciva a vedere il bello anche dove non ce n’era. Nessuno sapeva di questo dono, neppure lui, ma celava dentro di sé gli occhi di un artista e tutto ciò che passava tra le sue mani di seta diventava un’opera meravigliosa. Elegante com’era, bello e giovane, passeggiava per il centro città con la fierezza di un soldato. Aveva visto il negozio di giocattoli di Mila il giorno in cui Otabek stesso l’aveva scortato in giro per la città, l’aveva reso felice e Yuri ricordava quei momenti con una nitidezza quasi surreale. Ricordava questa struttura piccola e discreta, un cartello rosso e oro con una scritta bilingue in kazako e russo che recitava semplicemente “Il mondo dei balocchi”. Aveva una vetrina decorata con ritagli di disegni fatti dai piccoli clienti di Mila, alberelli, casette, soli, sorrisi. Tutto ciò che era bello e che mancava in Kazakhstan era rappresentato in quelle piccole e grezze opere d’arte, una felicità che solo i bambini erano ancora capaci di provare, nella loro tenera innocenza. Fuori dalla vetrina, sul davanzale, c’era un vaso di fiori rosa, gialli e viola, che, nonostante la triste freddezza del Kazakhstan, erano sbocciati al culmine della loro modesta bellezza. Non potevano tener testa allo splendore artistico delle rose di Yuri, ma erano umili, bellissime nella loro semplicità, delicate ed eleganti, esattamente come lo era tutto il negozio e la sua raggiante e giovane padrona. Yuri sospirò, quel posto emanava una tranquillità troppo piacevole e familiare. Salì il piccolo scalino che divideva l’uscio dalla strada, poi aprì la porta e l’innocente suono di una campanella lo accolse nel negozietto. All’interno era ancor più caldo, accogliente, invitante. Le pareti erano un delicato e stravagante miscuglio di colori accesi e allegri, un esperimento di gioia e spensieratezza. Giallo, azzurro, rosso, sembravano i colori del cielo al tramonto, ma più splendenti, più particolari. Il tramonto rappresenta la lenta decadenza del giorno, che pian piano svanisce e lascia spazio alla notte, ai pensieri, ai ricordi. A Yuri ricordava più il flebile calore dell’alba, che in quegli anni aveva imparato a conoscere come una sorella. Il buio che pian piano lascia spazio ad una delicata e fragile luce, accogliente e calda, ma non soffocante, asfissiante. Il sole, quando sorge, è un padre discreto e attento, i suoi raggi solo carezze delicate e semplici, il suo buongiorno è amorevole e gentile. Durante il giorno diventa poi un fuoco, severo e troppo, tanto caldo. Fa male, è invadente, non ti lascia mai e ti soffoca fino ad ammazzarti con la sua mania di persecuzione. Al tramonto invece è triste, è stranamente freddo, ancor più della luna, e ti chiedi se magari non sia stato ferito, durante il giorno, da una forza che tu non riesci ad afferrare o a capire. All’alba è al culmine della sua bellezza e vita, se quelle mura brillanti erano un cielo, allora erano di certo il cielo dell’alba. C’era una libreria molto alta, andava dal pavimento al soffitto e gli scaffali erano stati invasi da bambole, soldatini, pupazzi, modellini e tutto ciò che poteva soddisfare le innocenti esigenze di un bambino annoiato in una terra addolorata. Il pavimento era ricoperta da una morbida moquette azzurra, dalle fibre arricciate e delicate. Appena messo piede nel negozio Yuri immaginò di star camminando su una nuvola, nel cielo splendente del mattino, al fianco delle rondini in primavera. Faceva un effetto splendido entrare lì per la prima volta, Yuri poté solo immaginare quanto potesse essere splendido, per un bambino, essere portato lì dalla mamma a giocare, a divertirsi, a staccare dalle ansie quotidiane che un bambino non doveva vivere. Ebbe qualche attimo per guardarsi intorno prima che la splendida rossa padrona del negozio accorresse ad accoglierlo, attirata dal familiare e delicato suono della campanella all’ingresso. Vestita in abiti leggeri e giovanili, di un caldo e allegro rosso, leggermente più acceso dei suoi capelli scuriti dal tempo. Avrà avuto quasi trent’anni, Yuri lo notò subito, ma solitamente dimostrava molto molto di meno. Con un sorriso giovane e splendente come la più pura delle stelle, aveva una bellezza comparabile a quella delle più gettonate attrici dell’epoca. Eppure non aveva bisogno di trucco o ritocchi per apparire meravigliosamente splendida, era bella nella sua genuina naturalezza. Le labbra rosee e le guance piene e delicate, sempre tirate in sorrisi dolci e mai falsi. Mila appariva ben più vecchia, quel giorno, perché aveva ansie e angosce a rinsecchire quella sua pelle eternamente giovane e liscia, che mai aveva affrontato un dolore tanto acuto e spaventosamente persistente. Aveva due impressionanti borse sotto gli occhi, solchi scuri e densi come la notte, gli occhi stanchi da ore insonni passate a passeggiare freneticamente avanti e indietro in cerca di risposte. Le spalle affaticate erano ripiegate in avanti, il suo passo sicuro ed esuberante aveva lasciato spazio ad un’andatura lenta e goffa, esitante ad ogni passo come sul punto di cadere. Aveva gli occhi arrossati, le iridi chiare e lucenti si erano nascoste timidamente dietro ad una fitta coltre di lacrime salate e bollenti, che la giovane donna tentava di trattenere, per preservare il suo personaggio spensierato davanti al nuovo possibile cliente. Perfino la punta del naso, sottile e levigato, era rovinata e screpolata, dilaniata da un pianto incontenibile e asfissiante. Mila era a pezzi, si trascinava appena con la poca solidità rimasta, si reggeva in piedi con la sola passione per quel lavoro splendido che si era creata. Sorrise al giovane cliente, nel fiore della sua giovinezza e bellezza, ma dentro di sé gridava chiedendo aiuto, ma nessuno poteva ascoltarla, neppure Yuri. Ma il ragazzino sapeva e capì, così chinò il capo e il mazzo di fiori che teneva in mano gli apparve pesante come un macigno. Improvvisamente sentì di non avere il coraggio di darle quell’amara e odiosa notizia, che nessuno mai vorrebbe sentirsi dire. In particolare da un estraneo.

- Come posso aiutarla? – la voce di Mila apparve rotta e roca, in contrasto col suo essere mite e delicata. Aveva una voce acuta e sottile, ma i singhiozzi e le sue stesse urla che l’avevano assordata e straziata tutta la notte l’avevano ridotta ad un cupo e vibrante lamento. Non le era mai successo di ridursi così, probabilmente perché aveva sempre vissuto nell’illusione di essere forte e di poter superare ogni male. Mila era forte, lo era davvero, ma solo quando era sola, solo quando doveva contare sulle sue forze e su nessun altro. Quando si affezionò a qualcuno, al suo caro Georgi, la paura di averlo perso si fece troppo soffocante e si rese conto che ogni suo sforzo non sarebbe bastato a riportarglielo indietro. Apprese che c’erano ostacoli molto, troppo più grandi di lei. Yuri era più o meno nella stessa spiacevole situazione, solo con la sua fragile corazza di arroganza e sfacciatezza. Ma lui aveva ancora il privilegio di poter sperare, Mila, purtroppo, non poteva far altro che pregare per l’anima del suo amato perduto.

- Mila… -  si sentiva paralizzato, i piedi incollati a terra da una forza inafferrabile e crudelmente sconosciuta. Yuri aveva immaginato, quella notte, gli occhi stanchi e tristi di quella giovane distrutta dall’angoscia. Pensava fossero simili ai suoi, si era guardato allo specchio e immaginava che Mila sarebbe stata così, appassita e pallida come lo era lui nell’attesa di riavere indietro qualcosa di importante. Ma Mila non era per nulla simile a lui, neppure lontanamente. Mila non aveva perso un amico, una figura ancora distante se pur preziosa e ammaliante. Lei aveva perso un amore, una speranza, aveva perso tutto ciò che aveva d’importante e il suo sguardo era ancor più straziante di quanto potesse anche solo vagamente immaginare. Faceva male, tanto male, il suo dolore era indescrivibile. Non poteva darle quella notizia, non poteva romperla ancora di più, spezzare quel filo sottile che divideva la sua sofferenza dalla follia.

Mila sussultò, Yuri ancora paralizzato si lasciò sfuggire qualche parola balbettata e sconnessa senza neppure rendersene conto. La giovane notò il mazzo di rose, lasciandosi sfuggire un vago e spento sorrisino, sottile ed impercettibile, un impulso quasi meccanico e naturale, la solita reazione ai suoi piccoli spasimanti che tanto la ammiravano. Ma non era in vena di giochi o risate, non era in vena di godersi quella giornata scura e fresca, né di godersi le attenzioni di un piccolo cliente.

- Sono per me..? – non lasciò morire quel piccolo sorriso delicato e sensibile, non voleva essere scortese con un giovincello tanto gentile, né voleva far affiorare il suo dolore e la sua sofferenza. Voleva solo sue notizie, buone o brutte, voleva mettersi l’anima in pace e sapere come stava, quanto ancora le restava da sperare. Voleva solo avere un reale motivo per piangere.

Yuri la fissò qualche secondo, cercava di trovare le parole giuste ma non c’erano, non esistevano, non c’era un modo giusto o sbagliato per darle quella notizia. Gli era sembrata una cosa da poco, ma scoprì di essersi fatto carico di una responsabilità troppo grossa per lui, un ragazzino che, almeno così ricordava, non conosceva ancora nulla della vita. Emise poi un respiro profondo, si fece coraggio, e stringendo a sé il meraviglioso mazzo parlò.

- Sono per voi, li manda Georgi. – disse tutto d’un fiato, come a voler scacciare via quelle parole da dentro di sé, quel peso insopportabile di cui voleva liberarsi al più presto. Mila sussultò, un brivido le percorse la schiena a sentire quel nome maledetto, che tanto la stava facendo dannare nel profondo dell’anima, il nome dell’amato che tanto sperava di riavere. Quel nome segreto e dolce, che quel ragazzino dai tratti sovietici non doveva sapere o pronunciare con tanta fermezza, un nome degno di ogni onore.

- G… Georgi..? -
 


***angolo delle precisazioni mistiche***
Ci tengo a precisare un piccolo dettaglio della storia, giusto per non creare confusione: alcuni dei personaggi hanno età differenti rispetto all'originale YOI. Preciserò in altre occasioni le età dei personaggi, ma sappiate che sono tutti più grandi, per rendere alcuni punti della trama più realistici. 
   
 
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