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Autore: Stray cat Eyes     16/06/2009    4 recensioni
[America/England]
Non tutto va come dovrebbe, o come ci si aspetterebbe che vada.
Loro due lo sanno bene. Molto bene.
Genere: Romantico, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa vuole essere una versione comica (forse anche un po’ demenziale, eh? XD) di un episodio che noi non conosciamo (o forse sono solo io a non conoscerlo?), ma che deve esserci stato; perché, se è vero che ad un certo punto America ha preteso l’indipendenza, è vero anche che, prima o dopo, lui e Inghilterra sono riusciti a ritrovare un punto d’incontro - per così dire - che consentisse loro di tornare a parlarsi, bisticciare e picchiarsi liberamente, come se nulla fosse successo (salvo rinfacciare qualcosa, di tanto in tanto).
Qui, in pratica, dopo essersene andato, è ritornato.
Ma quel vecchiaccio di England come la prenderà?
Si salteranno addosso e si ammazzeranno?
À vous!





[Hallway’s inconveniences]






Quando qualcuno aveva bussato alla porta, non gli era dispiaciuto granché dover interrompere il suo solitario flirt con il bicchierino di liquore (sherry o whisky? Non aveva voglia né di controllarne il colore, né di mettere in funzione le papille gustative per ricordarsene). Alzarsi dalla sua comoda poltrona non era stato poi un grande shock, perché sapeva di stare andando incontro ad una qualche ancor più comoda distrazione, che gli avrebbe senz’altro impedito di pensare a occhiali + hamburger + nome-ripreso-da-un-tale-Vespucci.
Non gli era dispiaciuto nemmeno dover percorrere (con quelle malfidate babbucce pelose ai piedi) l’intera, scoraggiante distanza tra il salotto e l’entrata (altresì denominata corridoio).
Ma quando aveva aperto la porta, allora gli era dispiaciuto un bel po’, sì.
Perché Inghilterra detestava ritrovarsi senza parole.



E c’era questo paio d’occhi (i suoi) che fissava un altro paio d’occhi (quelli di lui), che a sua volta ricambiava lo sguardo.
Poi c’era una bocca, che avrebbe voluto dire “Ehi, ciao, come va?” ma che restava in silenzio, messa a tacere da una splendida coppia di braccia che, potendo parlare, avrebbe volentieri ammiccato, dicendogli “Benvenuto in America, baby”, ma che sfortunatamente era bloccata dalla lotta ingaggiata dalle dita in rivolta contro l’orlo del cappotto, che intendeva spadroneggiare laddove non gli spettava.
In tutto ciò, gli occhi si arresero (i suoi per primi) e andarono alla ricerca di più interessanti soggetti, le mani batterono in ritirata verso le tasche dei pantaloni e la bocca si limitò ad un “... Ciao.”
La sua borbottò un “Entra” stentato e striminzito, e nel giro di un minuto America era in casa, la porta era chiusa, il corridoio era svanito e loro si trovavano in una nuova dimensione, in cui respirare esitazione a pieni polmoni era lo sport nazionale e parlare un lavoro sottopagato.
In quel momento, tra una valanga e l’altra di rimorsi per aver aperto la porta (o per aver bussato a quest’ultima), sia America che Inghilterra ebbero l’imperdibile occasione di scoprire che - ebbene sì - era possibile - entro un certo limite - parlarsi anche così.
Perciò, i loro sguardi si rimisero in carreggiata e, preso un bel respiro profondo...

“Cosa diavolo vuoi? Prima sparisci per più di un secolo, poi mi piombi in casa all’improvviso e non hai neppure una frase decente da dirmi?”

“Ah sì, eh? Tu non stai mica intavolando chissà quale grande discorso, mi pare. E poi cosa ti frega del perché sono venuto qui? Saranno affari miei!”

“Sbaglio o questa è casa mia?!”

“Ok, allora potevi semplicemente lasciarmi là fuori! Ti saresti risparmiato la fatica di aprire la porta e il disturbo di avermi in casa
tua!”

“Ehi, ehi, fra i due non sono io quello che se n’è andato con la pretesa di essere indipendente e che è tornato dopo un secolo e mezzo come se niente fosse!”

“Lo sai che sei monotono, vero? Sempre a rinfacciare le stesse cose!”

“E tu lo sai che sei un idiota, sì? Sempre lì a fare finta che non sia successo niente!”

... ma, ricordiamolo, questo era il discorso fra i loro occhi.
Le loro mani, invece, avevano ben altro di cui discutere.
Lì, le une abbandonate lungo i fianchi, le altre al sicuro nelle tasche...

“Ma cos’avranno da litigare, stavolta, quelli là sopra?”

“Niente di diverso dal solito. È che noi vi troviamo sexy ma non possiamo dirlo, mentre voi...”

“... siamo venute fin qui seguendo l’istinto, solo per vedervi. Ah, se solo si parlassero chiaramente, una volta tanto...”

“Già...”

“A proposito, ma voi ne preparate ancora, di scones?”

“Sì, perché?”

“Mah, è che noialtre vorremmo cambiare un po’... Sapete com’è, sempre hamburger, solo hamburger, ogni santissimo giorno hamburger...”

“A chi lo dite! Tutti i pomeriggi, alle cinque in punto, scatta l’ora x: il momento del tè. Una tortura! Persino il Signor Stomaco non ne può più.”

“Uhm... forse dovreste provare...”

Ehm, ma lasciamo a se stesse le mani, che, a quanto pare, sapevano più che bene come intrattenersi. Quel che a noi interessa sono le corde vocali, le bocche.
Dopo un lunghissimo, chilometrico, estenuante silenzio, in effetti qualcuno si decise a parlare. Parlare... in senso lato, eh.

“Non dovresti essere qui.” Decretò Inghilterra, sguardo impassibile - incendiato, in realtà - e pugni chiusi - per nasconderne il fremito.
Non dovresti essere qui. Le ultime parole famose. Che America si affrettò a liquidare.
“E tu non dovresti limitarti a farmelo notare, ma sbattermi fuori a calci.” Frecciò, anche lui con l’animo in fiamme. “Avanti, sbattimi fuori a calci!”
Zac. Una leva mai azionata prima si smosse nella mente d’Inghilterra.
“Non credere che me lo faccia ripetere!”

*

Bottiglia e bicchierino di whisky-forse-sherry sussultarono e tintinnarono quando il tavolo fu colpito da un fianco inglese che, viaggiando all’indietro e alla cieca, l’aveva colpito per sbaglio.
La parte lesa spedì - per posta celere - al cervello un doloroso telegramma di protesta, che fu smistato lungo il canale che portava alla bocca; la quale, in altre faccende affaccendata, non si curò poi d’essersi lasciata sfuggire un mugolio. Ma le suddette faccende non furono certo interrotte per questo. Anzi.
“Ehi,” Biascicò America, poco convinto, direttamente nella bocca dell’altro. “Ti sei mica fatto male?”
“Uhnn...” Fu la risposta, mugugnata distrattamente contro il suo mento.
“Ah” Replicò lui, cercando di non farlo suonare troppo simile ad un gemito. “... meglio così.”
“Idiota...” Un labbro finì mordicchiato per dispetto. “Mi sono fatto male.”
“La prossima volta spiegati meglio.” Lo rimbeccò lui, umettandosi le labbra (e umettando inevitabilmente anche le sue, data la distanza più ristretta di un caffè).
Uhnn...”

Continuò in siffatta maniera l’intrepido (nonché reciproco) assalto, a cui era stato dato il via davanti all’uscio (fortunatamente chiuso, cosicché i vicini non potessero godersi lo spettacolo). Una mano sull’altra, un avambraccio contro l’altro, ambo le braccia dietro il collo (o al girovita, a seconda dei casi) e la lunga traversata del corridoio era iniziata, con la drammatica perdita del giubbotto americano, di un bottone del gilet inglese (colpa dell’impeto) e qualche lieve imprecazione qui e là, perché andare in giro ad occhi chiusi e braccia impegnate non è solo divertente, ma anche pericoloso.
Superate le iniziali avversità (vedi: la zip del giubbotto incastrata, un quadro caduto giù dalla parete direttamente sulla testa del povero America - guarda caso appoggiato proprio lì sotto -, il tappeto in soggiorno stranamente scivoloso, lo spigolo del tavolo conficcato tristemente nel fianco di Inghilterra), la battaglia sembrava ora procedere a gonfie vele.

E mentre le mani britanniche acquisivano la sicurezza e la dimestichezza necessarie a slacciare uno ad uno i bottoni della camicia di America ad occhi chiusi, quelle statunitensi si presero la briga di far notare ad Inghilterra che aveva ancora indosso il gilet, e che urgeva rimettersi in pari con la tabella di marcia.

“Sai cosa...” Bacio, ansito, inspira, espira. “... cosa stavo pensando?” Alfred approfittò della breve separazione (due decimi di secondo per cinque centimetri scarsi di distanza) per far scivolare l’odiato gilet giù dalle spalle di Arthur, spedendolo in caduta libera verso il pavimento, per poi correre ad occuparsi dei bottoncini della camicia immacolata.
“Cosa stavi...” Ansito. “... pensando?”
Alfred non rispose subito, impegnato com’era in una lenta discesa sul suo collo.
“Pensavo che...” Bacio. “... abbiamo vissuto per...” Altro bacio. “... per tanti anni...” Terzo bacio. “... sotto lo stesso tetto, e... da quanto tempo quella cravatta era lì?!
Arthur riaprì gli occhi, per ritrovarsi con la camicia completamente fuori dai pantaloni, slacciata fino in fondo, ma ancora fedelmente abbarbicata al suo collo per via del cravattino verde. Il già vivo rossore sul suo viso si accentuò, e Alfred ridacchiò fra sé, senza riuscire a disfare il nodo color prato che ornava goffamente la gola dell’altra nazione.
“Idiota.” Brontolò quella, liberandosi dell’impiccio in pochi gesti. “Ma a parte questo,” Continuò, sottintendendo la cravatta, che abbandonò sul tavolo accanto al liquore, “che cosa stavi dicendo, prima?”
“Ah!” Esclamò lui, ricordandosene giusto allora. “Stavo dicendo che, sai, per tanto tempo abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto e...” Le dita agili corsero a quell’ultimo bottone ancora nell’asola, ansiose di recuperare il tempo perduto. “... eppure non abbiamo mai... fatto niente del genere.” Concluse, improvvisamente titubante. Ma appena un pochino.
“Beh, sai...” Soggiunse Arthur, una tonalità di porpora in più sulle guance, mentre le mani - birichine, non si muovevano forse di volontà propria? - andavano a sfiorare il torace di Alfred. “Eri soltanto un bambino, ed io pedofilo non lo sono mai stato. Poi... poi sei cresciuto così in fretta e...”

Di tutte le vie possibili ed immaginabili per zittirlo (e così fermare l’inevitabile fiumana di tragici ricordi), Alfred scelse la tangenziale, ovvero, piuttosto che usare il cliché del bacio a stampo “ti-metto-il-silenziatore” (più comune e pratico), gli sfilò la camicia con un unico, rapidissimo gesto (sperando in un magico effetto sorpresa che lo lasciasse senza parole), per poi accorgersi che i polsini stretti impedivano alle mani di Arthur di passare attraverso le maniche. L’inglese sospirò, mentre lui, incurante, gli prendeva i polsi e cercava di farli evadere dalle prigioni di tessuto inamidato.

“Non pensarci proprio adesso.” Gli suggerì, l’espressione concentrata e la lingua che sbucava da un lato della bocca, portando avanti l’epica battaglia contro l’ennesimo bottone che non voleva saperne di separarsi dalla sua adorata asola.
“Alfred, tutto questo non è affatto sexy. Men che mai romantico.” Gli fece notare l’altro, con una nota di rassegnazione nella voce.
Al che l’americano, che nel frattempo aveva terminato l’opera, esibì un ghigno che diceva adesso ti faccio vedere io. Gettata via la camicia con uno svolazzo, il prode, improvvisato amante gli prese le mani, portandosele dietro il collo, e con le proprie gli imprigionò il viso, ora a poco più di un soffio dal suo.
“Non pensarci proprio adesso.” Ripeté, in un sussurro.

Arthur percepì un lieve brivido fargli inarcare la schiena - anche perché era dicembre inoltrato e lui era a torso nudo, non so se mi spiego - e pensò che forse sarebbe arrossito ancora di più; ma Mr. America, in cerca di approvazione, gli rivolse un sorriso dall’aria decisamente poco intelligente e chiese: “Va bene, così?”.
L’occhiata esasperata del compagno parve invitarlo al silenzio, onde evitare ulteriori complicazioni.
“Oh, dai, scherzavo. Stavo solo scherzando.”
Gli baciò lo zigomo destro. “Stavo solo scherzando.” Disse ancora, ottenendo, in risposta, uno sbuffo e la fuga immediata del suo sguardo.
“Arthur.” Chiamò.
“Sì.” Fu l’inattesa replica.
“Sì cosa?”
“Così...” Bisbigliò, tornando per una manciata di secondi a guardarlo negli occhi. “Così andava bene.”
Alfred sorrise, quella tonalità simil-pomodoro che si diffondeva sulle guance di entrambi.
“D’accordo, allora.” Mormorò, ritornando nella stessa posizione di poco prima. “Così.” Bacio sulle labbra.
“Così.” Bacio sul mento. “Così.” La mascella. “Uhm...” Il collo. “Alfred...” La spalla. “Alfred... spo... spostati, il tavolo mi sta uccidendo...!”


Circa dieci minuti dopo, curata la bua di Inghilterra con qualche bacino - in via del tutto eccezionale - le due nazioni avevano ripreso il viaggio verso nuovi - e soprattutto più comodi - lidi.
Non mancarono le difficoltà: né quando le manine calde di Arthur s’intrufolarono sotto la camicia dell’altro (Mi stai facendo il solletico!); né quando si trattò di eliminare le babbucce pelose dell’inglese (Ma dove le hai prese?) e le scarpe dell’americano (Quegli anfibi... potrebbero essere utili ai norvegesi per affumicare il salmone, lo sai?).
Ma, nonostante tutto (Perché questa cintura non si apre?!), malgrado le ferite, gli sgambetti involontari e le insidie varie celate dai corridoi percorsi ancora una volta alla cieca (Non ricordavo che casa tua fosse così grande. Insomma, dove diavolo è finita la camera da letto?!), Alfred trovò comunque estremamente piacevole quello strano intreccio che lo costringeva ad evoluzioni degne di un abile contorsionista; intreccio in cui non riusciva più a distinguere fra le proprie labbra e quelle di Arthur, in cui poteva godersi il suo abbraccio e ricambiarlo, in cui i suoi occhiali seguitavano a tormentarli entrambi (e a minacciare l’inglese di cecità) e la lingua continuava indomita a profondersi in ardite esplorazioni della graziosa bocca firmata UK.

Infine, il piacevole intrattenimento poté protrarsi a lungo nella tanto ambita stanza da letto, dove, una volta chiusa la porta con discrezione, noi non metteremo piede per (ovvi) motivi di privacy.
Diremo solo che lì, per una volta, occhi, mani, braccia, bocche e tutto il resto agirono in pieno accordo gli uni con gli altri. E non ebbero nulla di cui discutere per un bel po’ di tempo.



.End




Beh, direi che si sono semplicemente saltati addosso alla fine. XD
D’accordo, avevo voglia di fare un’altra idiozia e l’ho fatto. Qualcosa da ridire? (XD)
Tenete presente che Inghilterra era vagamente su di giri per via dell’alcol, prima di qualunque recriminazione, eh? XD (Ok, basta con la simbologia web, per adesso)
Non credo ci sia bisogno di particolari spiegazioni, in questo caso. L’unica cosa che vorrei specificare è questa, in quanto la presenza dell’hamburger in questo contesto storico (all’incirca... a cavallo fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo) può sembrare un anacronismo; in realtà, esso era presente nella cucina americana già a partire dal 1836 circa, benché abbiano cominciato a chiamarlo “Hamburg steak” (lett. bistecca di Amburgo) o “hamburger” soltanto una cinquantina d’anni dopo. In ogni caso, ci ritroviamo perfettamente con i tempi.
Uhm... Il titolo. Dunque, il titolo. È indecente, lo so, ma non ho trovato di meglio XD.
E finalmente vi lascio liberi! ^^ Grazie mille per la lettura!

  
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