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Autore: OneForSorrow    22/08/2017    2 recensioni
La storia tratta, dal punto di vista della protagonista, dell'indifferenza e della rassegnazione che prova nella sua vita quotidiana. Allegro, sì. Molto allegro.
(Sono pessima con le introduzioni)
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uno, due, tre scatti e la porta principale si aprì, facendomi trasalire. Non avevo sentito il rumore della chiave infilata nella serratura, né avevo prestato ascolto al trillo del campanello, così lo scatto secco della porta e il saluto pronunciato con indifferenza mi riportarono bruscamente alla realtà. Mossi leggermente la testa di lato, gettando uno sguardo di disappunto verso l'orologio appeso alla parete e mi meravigliai profondamente quando mi accorsi che la luce proveniente dall'esterno era insufficiente e non mi consentiva di controllare l'orario. Mi resi conto di essere restata seduta sul divano per ore, fissando il vuoto, senza nemmeno accorgermi dello scorrere del tempo.
Mi alzai con estrema lentezza, risposi svogliatamente al saluto e mi diressi verso la cucina per riscaldare l'ennesimo pasto precotto dell'anno.

Contemporaneamente, sentii un forte tonfo, uno sbuffo e l'appartamento, prima silenzioso, venne riempito dal suono di qualche programma in prima serata in televisione; affacciandomi, constatai che il tonfo era dovuto alla poca grazia usata per sedersi, o meglio, stendersi sul morbido divano in pelle del soggiorno, attiguo alla cucina.
Aprii la bocca per parlare, ma poi la richiusi stancamente: un rimprovero sarebbe stato inutile e inoltre non mi importava più molto del divano, del togliere le scarpe una volta in casa... o di tante altre cose.
Attesi che il microonde riscaldasse la cena e cercai di non fare caso al vociare confuso proveniente dall'altra stanza: anche quello mi infastidiva profondamente e lamentarmene era altrettanto inutile.
Qualsiasi rimprovero, qualsiasi tentativo di essere ascoltata sarebbe stato vano, cadendo nel vuoto. Come parlare ad un muro. Ancora una volta venni riportata alla realtà in modo brusco, stavolta dal suono del timer.

«A tavola» dissi semplicemente, la gola improvvisamente secca e la voce quasi rauca. Non avevo mai avuto una voce aspra o gracchiante, era sempre stata molto dolce, con un tono chiaramente femminile... ed ora, ascoltandomi, avevo avuto uno shock. Era quella la mia voce ora? Suonò estranea alle mie stesse orecchie, la voce di una vecchia. Non avevo nemmeno ancora quarant'anni, però sentivo che la giovinezza e la parte migliore di me mi erano già scivolate via dalle dita da tempo.
Non ebbi il coraggio di recarmi in bagno per lavare le mani, terrorizzata da quello che lo specchio avrebbe potuto rivelarmi se stavolta il mio sguardo si posse posato su di esso senza trapassarlo come aveva sempre fatto, perciò le lavai in cucina, sentendo il suo passo snervantemente lento mentre arrivava e si lasciava cadere pesantemente su una sedia.

Anche quello mi provocò fastidio e ancora una volta tacqui, sedendomi al mio posto e consumando velocemente la cena, per allontanarmi più in fretta possibile dal tavolo, da quell'atmosfera insopportabile e dalle sue chiacchiere.
Chiacchiere vuote, parole vane, argomenti banali e aneddoti riguardanti persone che non conoscevo e di cui non mi importava nulla. La conversazione continuava, dolorosamente, vertendo sull'ennesimo pettegolezzo e non potevo fare a meno di notare quanto ormai non provasse interesse più nemmeno nel fingere di esserci, nel portare avanti una farsa; parlava e parlava, ma solo per noia, per abitudine, per ascoltare la sua voce e non per instaurare davvero una qualche forma di comunicazione. Mancava l'interesse per ciò che diceva da entrambe le parti e, ben presto, l'ostinato mutismo nel quale mi ero rinchiusa fece finalmente calare il silenzio, silenzio turbato soltanto dalle posate sui piatti di ceramica.

Finì di mangiare prima di me, si alzò lasciando la sedia scostata dal tavolo ed il suo piatto lì dove si trovava, per poi andare di nuovo a guardare la tv.
Io, invece, restai seduta, il cucchiaio ancora in mano e lo sguardo rivolto verso il basso. Quando era successo? Quando avevo smesso di oppormi? Quando avevo deciso di lasciarmi andare, di dare tutto ciò che avevo ad una persona incapace di affetto, di calore umano, di tutto quello che invece io desideravo?
Quando avevo capito che un cambiamento era impossibile, perché avevo deciso di soccombere? Era forse colpa mia? Avevo sbagliato qualcosa? Il mio tutto non era forse abbastanza?

Mi alzai, un'improvvisa forza dentro di me mi scosse e mi costrinse a risvegliarmi da quel torpore, da quel vuoto. Lasciai la stanza come una furia, diretta verso il bagno, avevo bisogno di uno specchio, avevo bisogno di guardarmi.
Un vuoto e disinteressato «che fai?» mi raggiunse, ma non mi degnai di rispondere e non mi venne più rivolta alcuna domanda.

Mi chiusi a chiave, uno scatto deciso del polso... per poi sentire la mano tremare mentre il dito premeva sull'interruttore.
Mi guardai allo specchio.
E una volta, ancora una volta, non mi riconobbi.
Un'estranea ricambiò il mio sguardo mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Chi era questa donna? Cosa voleva? Perché non era più curata come un tempo?
Mi guardai a lungo, obbligandomi a non distogliere lo sguardo mentre le lacrime continuavano a rigarmi le guance e i singhiozzi, che soffocavo, mi scuotevano completamente.
Non mi scoprii esteticamente sgradevole e d'altro canto avrei potuto mascherare rughe e imperfezioni con un abile trucco e con creme costose... Non era quello il problema, no. Nessuna crema avrebbe mai rimediato al vuoto che avevo dentro, nessun prodotto miracoloso avrebbe mai fatto qualcosa contro quel deserto emotivo, contro quel gelo che mi era entrato dentro e che sentivo fin dentro le ossa.

Continuando ad osservarmi, sognai ad occhi aperti di uscire dal bagno, di fare una scenata, di preparare le valigie ed andarmene, sorda agli stupidi «perché?» che mi sarebbero stati rivolti, una protesta poco convincente per entrambi.
Sognai di viaggiare, di andare lontano, di trovare qualcuno capace di restituirmi, almeno in parte, tutto quello che avevo dato senza ricevere nulla in cambio, nulla che non fosse freddezza ed ingratitudine.

Sognai a lungo, fino a che un altro rumore, lieve ma insistente, distrusse ogni mia fantasticheria.
Stava bussando alla porta.
«La bambina piange, non le hai dato da mangiare?».

Ringrazio quella santa della mia amica L., la quale non solo mi ha fatto da beta reader ma, poverina, non sa nemmeno che alla fine mi sono decisa a pubblicare questa cosa. Il sesso dell'altra persona è volutamente ambiguo, interpretate come volete - sempre se siete arrivati fino a qui -.

   
 
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