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Autore: Cheonefer86    23/08/2017    0 recensioni
Una vecchia storia di marzo. Una storia custodita da un treno.
"In ogni parola che quella ragazza pronunciava c’erano due binari che improvvisamente si deformavano per incontrarsi, e più le parole aumentavano e i giorni scorrevano su quel treno, più i loro mondi sembravano avvicinarsi, spostarsi in modo quasi impercettibile da quelle rette parallele e invisibili che le attraversavano."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Binari

 

La prima volta che l’aveva vista, appena qualche giorno prima, guardava fuori dal finestrino, come assente.

E anche in quei minuti che passavano, era immobile in quella stessa posa, quasi una statua.

Non parlava quasi mai, qualche volta leggeva o scriveva un paio di righe, ma la maggior parte del tempo lo trascorreva osservando fuori, immersa chissà dove con la musica nelle orecchie, e forse più a fondo.

Doveva avere vent’anni, o forse venticinque, ma aveva una malinconia addosso che si ha quando la vita sta per finire, e i suoi occhi erano immersi in un liquido scuro di dolore che per alcuni secondi le toccò il cuore, facendola sentire a disagio perché lei mai aveva provato nulla di simile nella vita, nemmeno adesso che aveva anni più di lei.

Quanti ne aveva, esattamente?

Troppi, si disse, fissandosi per un attimo le mani, come se ci fosse scritta l’età sopra la pelle, e poi la osservò ancora una volta distraendosi di nuovo subito dopo da quell’aura così cupa che quasi le faceva male come una scottatura nella carne.

Come poteva una ragazza così giovane avere un tale peso dentro da vedersi persino nello sguardo?

Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma rimase in silenzio rispettando il suo.

Il treno dava qualche scossone, ma lei sembrava non curarsene e stringeva le unghie della mano sinistra al tessuto del sedile, nervosa e tesa, anche se continuava ad appoggiare il viso oltre il vetro sporco di colori.

Studiò quelle unghie tagliate corte e, anche se le sembrava di ficcanasare nel suo privato, non riuscì a non puntare gli occhi su di lei, su quella piccola porzione di corpo che immaginò conficcata nel suo stesso palmo, a volte con rabbia e altre con rassegnazione.

E per un battito di tempo vide un rivolo di sangue scivolarle sul polso, e si distrasse di nuovo altrove, cercando un punto dove non sarebbe arrivata quell’angoscia.

Ancora una volta voleva parlarle, anche solo un saluto, ma non lo fece, non ci riusciva, anche se era sempre stata brava a parlare con le persone.

Evitò ancora di fissarla e rimase muta.

E il treno andava avanti, corse veloce e poi lento finché non arrivò a destinazione.

Si alzò di fretta e con altrettanto impeto afferrò la borsa e scese dal treno, sentendo un bisogno quasi soffocante di aria, e non appena fu fuori, tra la gente che le sfilava accanto, respirò tutto quello che poteva e ancora di più, buttò dentro l’alito dei primi giorni di marzo, quando il sole scaldava la pelle ancora timidamente, e le sembrò di essersi svegliata di nuovo, con quella sensazione di serenità che si aveva poche volte nella vita.

Fece dei passi avanti e poi si fermò, cercandola tra la folla.

Cercando un po’ di quella malinconia, ma non trovò nulla, la ragazza era già sparita.

Mentre camminava per quella banchina ormai vuota e poi oltre la strada verso il proprio ufficio, non poteva fare a meno di pensare a lei, a quel viso quasi al di là della vita stessa, come se non fosse pienamente presente sulla sua stessa terra; ma forse era soltanto lei a scorgere tutte quelle cose.

A notare per forza quello che in realtà non esisteva, e per lunghi minuti, continuando ad avanzare, l’assalì il dubbio che anche lei fosse solamente nella sua testa, un’immagine che aveva inventato come decorazione di ricordi ormai troppo lontani e relegati in un cassetto che non riusciva più ad aprire.

O, semplicemente, non voleva.

Sfiorò il ciondolo nascosto sotto la stoffa e cercò con prepotenza di cancellare quella pellicola dalla sua mente, di bruciarla completamente fotogramma dopo fotogramma, ma il giorno dopo, quella ragazza era ancora lì.

E anche quello dopo e quelli seguenti, e stringere la collana non le servì a nulla, il suo viso era lì.

La sua malinconia era lì.

E ad ogni ora che passava, si scoprì impaziente di penetrare quella barriera che sembrava avere attorno, distruggerla con le proprie dita mentre altre continuavano a soffocare un piccolo ammasso d’oro.

Desiderò prendere quel quaderno e leggerne ogni riga, divorarla quasi per poter divorare ciò che si portava dietro come una pesante valigia senza serrature né maniglia, ma rimase immobile guardando ogni tanto l’uomo accanto a sé, quel marito sposato tanti anni prima e che era diventato quasi uno sconosciuto.

Quel volto che le aveva fatto soffocare se stessa.

E la ragazza di cui non sapeva neppure il nome, contemplava ancora ciò che c’era fuori, ogni tanto le scivolavano i capelli sul viso, celandone una parte, e lei si scopriva desiderosa di afferrarli e spostarli con leggerezza per continuare a vedere quella malinconia che le faceva male. Quegli strati di esistenza che voleva afferrare uno ad uno.

Sospirò, cercando di cancellare tutto intorno a sé, persino l’uomo con cui aveva condiviso il letto notte dopo notte dopo notte e che era stato capace di conquistarla con un sorriso.

Volle sforzarsi di tornare indietro, a quella sera di agosto in cui era rimasta seduta ai piedi del letto a fissare lo specchio e l’immagine di codarda che le restituiva, mentre qualcuno a pochi chilometri di distanza la stava aspettando a quel tavolo poco illuminato del ristorante dove i loro volti si erano incrociati per la prima volta.

Aveva continuato a non muoversi, a studiare il suo riflesso, quegli occhi che non provavano né dolore né altro erano fissi su quel volto che per lunghi minuti non le era sembrato nemmeno il proprio, eppure le labbra erano quelle che avevano baciato a lungo e altrettanto a lungo erano state baciate; e il naso era quello che aveva sfiorato più volte la sua pelle.

E quando il cuore aveva urlato più forte della ragione, di tempo ne era passato troppo e il tavolo lo aveva trovato ormai vuoto. Spoglio. Soltanto una macchia di vino rosso spiccava sopra la tovaglia altrimenti bianca.

E in quell’attimo aveva desiderato piangere, ma le lacrime sembravano non esserci.

E fu in quel preciso momento che si era voltata per andarsene e lo aveva visto, le sue iridi così grandi e quel sorriso che era stato capace di scioglierle il cuore; aveva visto il viso di quell’uomo che aveva amato profondamente.

Quell’uomo che non c’era più insieme a quel sorriso ormai perso tra tastiere di computer e telefonate interminabili, in cene che consumavano a distanza e in parole che ormai non pronunciavano quasi più.

Erano due estranei nella stessa casa, eppure lei continuava ad amarlo in un modo così profondo e diverso che faceva fatica a spiegarlo persino a se stessa.

Si toccavano a malapena, più per sbaglio che per reale intenzione, ma una parte di lei insisteva ad amarlo, anche se un’altra voleva che l’orologio tornasse indietro a quella notte, a quegli istanti in cui aveva deciso di stare ferma, che tornasse lì e cambiasse tutto.

Come sarebbe stata adesso la sua vita?

Piegò la testa da un lato e accanto a lei, però, c’era suo marito, e davanti alle proprie dita che desideravano sfiorarla, la ragazza era di nuovo immobile, di nuovo fuori quel mondo che sembrava muoversi parallelo ai binari.

Quel mondo che lei non aveva mai avuto il coraggio di vivere pienamente, e non faceva che rimpiangere ogni singolo giorno quando avrebbe potuto, ma non aveva fatto.

Forse era questo ciò che provava quella ragazza?

Aveva dentro di sé un tale rimpianto da essere diventato malinconia e dolore?

Dio come avrebbe voluto chiederle ogni cosa!

Non aveva idea del perché provasse quelle sensazioni, quei desideri, ma qualcosa dentro di sé voleva conoscerla, desiderava scoprire ciò che nascondeva, forse per alleggerire i suoi malumori o per condividerli, non lo sapeva. Ormai non sapeva più nulla di se stessa.

E ogni giorno che passava, i suoi dubbi aumentavano, e il riflesso di sé che osservava era sempre più sconosciuto.

E più i giorni passavano su quei binari e più pensava a quella ragazza, anche quando era a casa o in ufficio o semplicemente fuori con le amiche, i pensieri tornavano sempre a quel viso. Quando la vista sfiorava per un attimo quella di suo marito.

Aveva persino imparato a memoria i suoi orari, non avrebbe saputo dire quale fosse stato il motivo, non le era mai capitata una cosa simile, ma lo aveva fatto e ogni giorno cercava di prendere il suo stesso treno, uscendo qualche volta prima dal lavoro, ma quel giorno in cui aprile era già caldo, desiderava soltanto correre a casa. Buttarsi nel letto e piangere.

Era stanca, terribilmente stanca di quella vita fatta di confusioni e poche certezze. Di poche parole lasciate in un messaggio.

Credo che stare per un po’ lontani, una pausa, faccia bene ad entrambi.

Come poteva ridurre tutto ad un semplice sms? Anni passati insieme e condivisioni gettati nel secondo in cui si premeva invio, un secondo soltanto oltre i pochi spesi per scrivere.

Una vita ridotta a caratteri sopra uno schermo.

Rilesse ancora una volta quelle parole e, mentre il tempo passava, si ritrovò spaccata a metà tra il dolore che l’opprimeva e una sorta di gioia che si faceva strada dentro di lei: come poteva provare quei sentimenti così contrastanti?

Avrebbe voluto che qualcuno le rispondesse e istintivamente si voltò verso la ragazza davanti a sé, come se lei avesse potuto darle qualche spiegazione, delle risposte che forse temeva.

Avrebbe voluto chiederle come faceva ad estraniarsi dal mondo in quel modo, fissare ciò che c’era oltre il vetro – o niente – e fare come se null’altro ci fosse intorno a lei, ma, ancora una volta, rimase in silenzio e abbassò il mento.

«Tutto ok?»

Alzò di nuovo il viso verso di lei: aveva parlato? Lo aveva davvero fatto?

La sua voce era così bassa che faceva fatica a crederci, era graffiante eppure così dolce.

«Sì, tutto ok» mentì.

«Non è vero» spostò il corpo per osservarla meglio, lasciando per un po’ le immagini oltre il vetro, fuori. «È diversa dagli altri giorni».

Non seppe il motivo, ma in quell’istante le venne spontaneo sorridere.

Quel momento, quel momento soltanto, cambiò tutto.

In ogni parola che quella ragazza pronunciava c’erano due binari che improvvisamente si deformavano per incontrarsi, e più le parole aumentavano e i giorni scorrevano su quel treno, più i loro mondi sembravano avvicinarsi, spostarsi in modo quasi impercettibile da quelle rette parallele e invisibili che le attraversavano.

Rientravano di un millimetro ogni volta che si scrutavano o sorridevano, e sbandavano rapide quando in pochi frammenti di ore le loro parole si sovrapponevano.

Passarono corse, e persone e vuoti sui marciapiedi, e continuarono a non sfiorarsi neppure, soltanto voci o sguardi, ma lei avrebbe voluto prenderle le mani e stringerle nelle proprie, riconoscere il calore o il freddo, distinguere ogni sfumatura di ciò che toccava ed essere invidiosa, così tanto da sentirsi bruciare.

Spesso, quando la osservava, si chiedeva quasi con rabbia chi avesse visto prima di salire sul treno; o dopo. Chi avesse toccato. E questa sensazione si faceva sempre più soffocante senza che se ne rendesse pienamente conto.

«Che ne dici» parlò all’improvviso per spezzare quell’asfissia. «Se un giorno di questi ti offro un caffè? O una cena.» L’ultima frase la sussurrò, come timorosa di aver osato tanto, in fondo il loro era un rapporto fatto solamente di incontri sul treno e poche parole, di occhiate e qualche risata, e vedersi al di là di quei binari era un po’ come tornare a casa dopo anni d’isolamento.

O almeno lei lo viveva così.

Razionalmente o irrazionalmente che fosse, lei aveva ormai in testa quel mondo chiuso in quella scatola metallica che correva, lì dove c’erano nient’altro che loro due anche se il treno era pieno di gente. Ormai, per lei, esisteva solo quella ragazza che le sedeva di fronte; non solo su quei binari quel viso era costantemente in lei, ma anche in ogni luogo in cui andava, era come averla sempre accanto.

E di questo ebbe paura.

Tornò indietro nel tempo ed ebbe paura. Fu un solo istante sufficiente a stringerle la gola.

«D’accordo.» Quella risposta, però, le esplose dentro come mille spine di felicità che le tolsero quell’oppressione, e nei minuti seguenti e nelle ore che scorrevano, non faceva altro che pensare a quell’incontro, a quello che avrebbe detto o fatto, ad ogni singolo secondo che voleva spendere a leggerle dentro, a studiare ogni singolo segno che portava sulla pelle.

Poi le ore passarono come una macchina da corsa, e il giorno si era fatto notte e la notte di nuovo giorno e proseguiva, fissava il vetro senza andare oltre e si sentiva sola, stringeva nella mano destra il ciondolo d’oro e si sentiva sola. Vuota.

Lei non c’è.

Davanti a lei non c’era nessuno, il sedile era vuoto, ma le sembrava di vedere il suo corpo piegato verso il finestrino e sentire il suo profumo di una moltitudine di fiori; lei, però, non c’era, il treno correva e la sua assenza era intollerabile.

E l’aveva baciata.

Aveva avvicinato le labbra alle proprie e l’aveva baciata.

Era rimasta spiazzata dalla vita che le aveva raccontato e dai sogni e di quelle piccole parti del suo essere di cui aveva fatto tesoro e che avrebbe custodito per sempre gelosamente, e poi l’aveva baciata.

In quegli istanti in cui le aveva afferrato il viso, si era sentita nascere e poi morire, e il suo respiro perso nel proprio le aveva cancellato ogni paura e ogni immagine di un uomo e una donna che si erano sposati anni e anni prima e che erano stati felici a lungo; in quel momento, però, quegli scatti tornarono prepotenti nella sua testa come echi di tamburi che si facevano sempre più vicini.

E lei l’aveva baciata.

Ma in quel luogo, dove i binari si allungavano sotto di sé, neppure il ricordo del sapore della sua bocca sulla propria, servì ad estirparle quello stato di confusione che le si era annidato come erba velenosa; nulla servì.

Lei non c’era, e voleva soltanto piangere.

Un altro abbandono che desiderava soffocare in un pianto che non poteva permettersi, non lì né da nessun’altra parte, né con qualcuno perché nessuno avrebbe capito che cosa si stava agitando dentro il proprio cuore.

L’aveva baciata e voleva scendere da lì, da quel piccolo mondo che era ancora troppo sommerso dai suoi colori, dal colore dei suoi occhi e delle parole che scriveva e di quelle che non pronunciava mai.

Di quelle che non avrebbe sentito mai più.

E pianse all’interno del proprio petto mentre voleva strapparsi l’anima di dosso, continuò a tenere il libro fra le dita senza leggerne una riga, e pianse lacrime incorporee sopra quel treno che rallentava e si fermava, una due, dieci volte; voleva scendere e non salire mai più.

Si era soltanto illusa? Si chiese.

Illusa di cosa, poi, non lo sapeva, era stato soltanto un bacio, solamente un toccarsi di labbra che avrebbe potuto voler dire qualsiasi cosa nella mente della ragazza, ma nella sua… nella sua era stato un boato così intenso da sentirsi per chilometri, eppure continuava a domandarsi cosa c’era di reale in ciò che era successo, se quello che provava fosse vero, tangibile o solamente sensazioni e illusioni di ciò che non c’era.

E mentre maggio sfilava per lasciare il posto ad un giugno troppo afoso, quelle domande continuavano a stringerla come una collana troppo stretta e pesante, mentre il pendente che aveva al collo si faceva sempre più leggero.

Che significasse qualcosa?

E d’improvviso la rassegnazione prese il posto di tutto il resto.

Quel treno divenne solo ferro che correva sopra altro ferro, e quando la mente sembrava svuotarsi di tutto, era di nuovo lì.

I suoi occhi, il suo sorriso e le sue mani tese.

Stavolta, però, il suo volto era fisso al posto vuoto davanti a sé, quello che avrebbe dovuto occupare lei, e per un attimo, uno soltanto, fu tentata di passare oltre o di scendere per attendere un altro treno, ma si fermò. Si bloccò alla sua bocca sulla propria e si sedette, in silenzio guardando fuori.

E i loro invisibili binari tornarono per alcuni secondi a stringersi, ma quando lei la salutò, deviarono prepotenti per allontanarsi ad ogni parola che non veniva detta, ad ogni sguardo non ricambiato.

«Mi è capitato un viaggio improvviso» spiegò, ma lei non voleva sentire nulla, voleva che la ragazza tacesse e basta. «Avrei voluto avvertirti ma non ho il tuo numero» e continuò il silenzio. Opprimente. «Avrei voluto che venissi con me.» Poi qualcosa la trapassò da una parte all’altra come un fulmine incandescente, ma non si sentì come cenere, le parve di accorgersi pienamente di se stessa come non le capitava da tempo.

E poi il dolore l’attraversò.

Avrei voluto che venissi con me.

Perché quelle parole le stavano facendo così male?

Era stata davvero tutta colpa di cifre? O è era così che doveva andare?

Aprì la bocca per dire qualcosa, ma il telefono squillò, distraendola, e quando vide il nome sullo schermo, non sapeva se accettare o rifiutare quella chiamata, ma poi ritenne che almeno quello glielo dovesse. Spostò il pollice e ascoltò tante lettere una dietro l’altra, sentimenti che correvano attraverso l’aria fino a toccare il proprio orecchio e poi oltre, e involontariamente il suo cuore si riempì di qualcosa che le era mancato; poi, però, si voltò verso la ragazza e sentì il cuore spezzarsi in due e farle così male che avrebbe voluto urlare.

Gridare ancora una volta senza lacrime.

E quando posò il cellulare nella borsa, il suo sguardo era lì, e la fece sentire nuda, così esposta da stringersi istintivamente il foulard alla gola.

«Tutto bene?»

«Sì.»

«Era lui?»

«Sì.»

Nessuna delle due disse nient’altro, ad ogni fermata il silenzio cresceva e persino i loro occhi parvero non volersi sfiorare: era certa che quella ragazza avesse capito ogni cosa prima ancora che fosse chiaro a lei.

Aveva capito che non avrebbe potuto cancellare quegli anni così facilmente e che non avrebbe mai avuto il coraggio di vivere qualcosa di così folle e sconosciuto.

«Non posso farlo» e si sentì abbattere a terra quando quelle parole le uscirono dalla bocca anche se erano del tutto inutili perché quella ragazza aveva capito tutto ben prima.

Non voleva rinunciare a lei e non avrebbe mai avuto il coraggio di allontanarla dalla propria vita, lo sapeva, lo sapeva benissimo, ma cosa avrebbe potuto fare?

«Non credo di averti mai chiesto niente» parlò lei, spezzando quelle paure al suo posto. «Quel che è successo è successo ed è stato bello, ma non ti ho chiesto mai nulla e non intendo farlo ora.» Avvicinò una mano alla propria, ma si fermò poco prima di prenderla e lei non fece nulla per incoraggiarla, rimase muta e immobile anche se voleva che le afferrasse le mani e tutta se stessa e che l’avvolgesse nei suoi profumi e nei suoi umori.

«Non voglio che tu sia infelice.»

Come poteva dirle che lei la rendeva tutt’altro che infelice? Come poteva farlo se anche lei non sapeva con esattezza cosa stesse provando né cosa voleva davvero: l’amava, se ne era resa conto da tanto tempo ormai, anche se soltanto in quel momento era riuscita ad ammetterlo con se stessa e glielo avrebbe gridato sulle labbra se non fosse stato così doloroso per entrambe.

E amava anche suo marito, di un amore diverso, era vero, ma non poteva nascondere quei sentimenti.

Avvicinò i suoi occhi scuri al proprio viso, ma involontariamente si ritrasse mentre continuava a stringere quel pezzo d’oro che portava al collo, a stringere qualcosa di sicuro e forse soltanto un’abitudine.

Quel gesto fu il suo modo di allontanarla da sé e la ragazza comprese e se ne andò, mentre lei rimase immersa in quei pochi ricordi che aveva di voci e tocchi fugaci, e di quel bacio che le aveva dato in quel vicolo buio e deserto dove l’aveva trascinata all’improvviso facendola quasi inciampare.

Non aveva nient’altro, anche se avrebbe voluto molto di più, avrebbe voluto sfiorarle ogni centimetro di pelle e toccarle persino l’anima, e avrebbe voluto altrettanto, con più forza e così a fondo da farla morire.

Fissò il vetro sporco senza avere altro. E poi il posto vuoto davanti a sé.

I binari continuarono a correre verso l’infinito senza mai toccarsi e quando aprì le dita, una croce scintillava sul proprio palmo.

E il treno riprese la corsa.

 

 

 

 

 

   
 
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