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Autore: Lost In Donbass    24/08/2017    0 recensioni
Tom é un soldato, reduce dell'Afghanistan, scappa dal passato, da se stesso, dai suoi demoni.
Bill é solo, ha una figlia, divorato dalla depressione e dall'attesa.
C'è Loitsche, ci sono i ricordi, le incomprensioni, la passione mai davvero spenta, lettere mai aperte. Bill sta aspettando da due anni. Ma sarà disposto ad aspettare ancora?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Mpreg
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CAPITOLO SETTE: AUTOMATIC
You’re automatic, and your heart’s like an engine
I die with every beat
You’re automatic and your voice is electric
Why do I still believe?
It’s automatic every word in your letter
A lie that makes me bleed
It’s automatic when you say things get better
But they never …

(Tom, why do I keep loving you?)

Tom aveva appena finito di sistemare Bill a letto, lasciandolo riposare in pace, e gli aveva messo vicino Mackenzie, collassata dopo la quinta storia delle Mille e una Notte. Non sapeva bene come coprirli entrambi senza svegliarli, come sistemargli i cuscini, ma aveva visto che, nonostante stessero dormendo profondamente, si erano perfettamente aggiustati da soli, abbracciati e raggomitolati uno all’altra come due grossi gatti bisognosi di affetto. Sorrise, sciogliendosi i dread e posò un bacio delicato sulla testa arruffata del moro, accarezzando la guancia pallida della bambina. Erano così perfetti, pensò Tom. Così belli che non sapeva nemmeno lui come avesse fatto a meritarseli. Eppure … eppure non gli andava giù. Scese silenziosamente in salotto, e si vestì rapidamente, uscendo di casa e incamminandosi fuori da Loitsche. Erano tornate le nuvole grigio perla, il freddo vento della pianura, il cielo infinito e soffocante, e i pensieri turbinosi e opprimenti. Non capiva nemmeno più lui cosa provasse davvero per Bill e Mackenzie: quanto da un lato era incantato da loro, come lo sarebbe potuto essere nei primi tempi di Berlino, tanto ne era terrorizzato e nauseato. C’era un motivo se lo aveva abbandonato, ed era molto semplice: si era stufato del fatto che Bill gli stesse così appiccicato. Piano piano aveva cominciato a infastidirlo quella voce smielata che ripeteva a tutti “Sono il suo fidanzato”, quando lui era uno spirito libero a cui importava solamente avere una bomba sexy da portarsi a letto e da mostrare come trofeo. Ma Bill non era mai stato così sotto come le sue prime ragazze, no, lui si era imposto, facendo notare la sua stellare presenza, mettendosi sul suo stesso piano senza timore. Non aveva più voglia di sentirselo sempre appresso, di svegliarsi la mattina e di trovarselo seduto accanto, con la colazione già pronta e il suo sorriso costruito per essere sensuale, di addormentarsi con lui accoccolato sopra, di andare a prenderlo all’Università, di starci sempre in coppia fissa. Lo infastidiva quel suo modo di essere così servizievole e arrendevole che aveva solamente con lui, mentre con tutti gli altri era il Bill che lo attizzava sul serio, quello vivace, primadonna, con una volontà di ferro e una grinta da paura. Sembrava che il moro cambiasse non appena stava col rasta, diventando quello che quest’ultimo aborriva, e lui si era rotto definitivamente di sopportare le sue smancerie da gattino innocente. Bill pensava al futuro, mentre a Tom non interessava che il presente, quel suo vivere ogni secondo che non lo stancava mai ma che lo rendeva lo sporco punk che era un tempo. Quanto Tom voleva che la loro storia fosse basata sul sesso, sulla droga, sul rock’n’roll, sulle rivolte, sui rave party, quanto Bill sembrava che oltre a quello volesse qualcos’altro. Delle basi, delle promesse, forse un anello che Tom sapeva non gli avrebbe mai messo al dito. Non voleva catene, ma il moro sembrava sempre pronto ad infilargliene una attorno al collo. Trovava sempre più opprimente dormire insieme dopo il sesso, guardare i suoi broncetti smorfiosi quando lo ignorava volutamente, avercelo addosso anche nei rave party, dove avrebbe voluto farsi qualcun altro, sballarsi con i suoi amici, ma i suoi occhi più neri dell’inferno erano sempre lì, a scrutarlo, come un fantasma, che il rasta non poteva più reggere. Ma la batosta finale, era stata la bambina. Perché quella era davvero la catena che non avrebbe potuto spezzare e che l’avrebbe costretto a stare in un solo porto, con la stessa battona, per tutta la vita. Non voleva quel figlio, non voleva diventare padre a ventun anni, aveva ancora tanti muri da distruggere, canzoni da suonare e rivolte da guidare. Ma poi aveva visto gli occhi di Bill, che dietro le lacrime, nascondevano una luce, quella sua felicità di aver finalmente creato la famiglia con il ragazzo che amava ma dal quale non era amato abbastanza. Beh, non che Tom non lo avesse mai amato, ma si era sempre reso conto che il loro amore era diverso. Quello di Bill era quello per la vita, quello che lo uccideva e lo torturava, l’amore di un ragazzo pronto al sacrificio estremo, a qualunque sevizia pur di creare la situazione ideale per loro due, per costruirsi un futuro insieme, l’amore struggente e disperato come una ballata degli Scorpions, che risentiva ancora tanto del vento che cambia e dell’amore che tiene vivi. E poi, quello di Tom, l’amore da un’ora, quello selvaggio dettato dalla giovinezza, dal sesso, quello che lega due ragazzi che vogliono lottare e scappare in America, sulla Route 66, con una moto, nessun  soldo in tasca e tanti ideali di cui cibarsi la sera con un chitarra e una scatola di tonno. Come avrebbero potuto riuscire a trovare un accordo di pace, proprio non lo capiva. Si massaggiò il retro del collo, strascicando i piedi per le solitarie stradine della piccole Loitsche. Non poteva ancora rendersi davvero conto che adesso era di nuovo legato a qualcosa, al ragazzo che sperava fosse scomparso e da sua figlia. Dio, faceva così strano dirlo. Ripensò con un sorriso alla grassa Mackenzie, le sue manine burrose, il suo sorriso infantile, le sue treccine nere, i suoi occhi tristi. Non poteva mentire a sé stesso che la trovava così perfettamente imperfetta, come lo erano lui e Bill, e non poteva nemmeno costringersi a dire che non le piaceva. Le piaceva, eccome. Non sapeva perché, se fosse l’istinto primordiale del sapere che comunque lei era sangue del sangue, ma sin dal primo momento in cui l’aveva vista, in quel pub, e ancora non sapeva nulla, le aveva immediatamente voluto bene. Eppure, lui non voleva metter su famiglia. Si rendeva conto della sua infantilità, della sua bestialità, ma non l’avrebbe fatto. Voleva essere ancora libero, libero di morire in Afghanistan, dove aveva trovato la sua vera casa, libero di tornare a casa ubriaco e strafatto senza rimorsi di coscienza, libero di prendere e scappare lontano, libero di vivere la propria esistenza come meglio credeva, cosa che, con una figlia piccola a casa e un fidanzato iper apprensivo non poteva nemmeno sognarsi. E Tom era troppo egoista per potersi permettere anche solo il lusso di pensare a come sarebbe stato avere una famiglia. Voleva la sua indipendenza e l’avrebbe ottenuta, non gli importava come.
Però, un’antipatica vocina nella sua testa, continuava a ricordargli che oramai non sarebbe più riuscito a vivere come avrebbe voluto, sapendo che comunque loro esistevano. Egoista sì, ma non totalmente bastardo. Quante notti avrebbe potuto dormire sapendo che da qualche parte sua figlia stava avendo incubi terribili ma sua madre non l’avrebbe nemmeno guardata perché sarebbe stata impegnata a imbottirsi di barbiturici per farla finita? Come avrebbe potuto pensare di morire tranquillo sotto le ombre di Kabul vedendosi davanti agli occhi i fantasmi danzanti di un glamster fuori tempo e di una bambina grassa? Chi avrebbe più avuto il coraggio di guardare in faccia, fingendo che andasse tutto bene quando sapeva che non era vero? Tom sospirò, aggiustandosi il berretto da skater in testa, e guardò il pallido cielo tedesco, con le sue nuvolette a pecorelle grigiastre che galleggiavano nell’infinito, così monotone, così nauseanti, e pensò al cielo afghano, alle sue notti stellate, ai suoi mezzogiorni infuocati, alla sua potenza deflagrante sopra al deserto montano. Si chiese come sarebbe stato andare in Afghanistan come civile, portandosi dietro Bill; come l’avrebbe trovato, cosa si sarebbero detti sotto la luna di latte che illuminava le capre al pascolo, se la loro storia sarebbe stata diversa oppure identica. Imboccò qualche strada a caso, e si chiese cosa avrebbe dovuto fare adesso: se rimanere, e prendersi cura di quello che in fondo lui aveva creato, oppure scappare ancora, per non fare davvero più ritorno. Avrebbe tanto voluto che ci fosse una via di mezzo a tutto quello, ma sapeva che non ci sarebbe stata: era diventato un “do or die”. Bill e Mackenzie, o la libertà? Crescere definitivamente, o rimanere il solito Peter Pan? Era qualcosa che gli faceva male al cuore, ma sapeva da solo cosa avrebbe scelto, in fondo.

Bill, nel frattempo, si era svegliato ed era rimasto un po’ indispettito dall’assenza di Tom, ma si era comunque alzato da letto, stiracchiando le membra di nuovo giovani ed elastiche come sarebbero dovute essere. Aveva ancora voglia di lui, dopotutto, ma poco male: gli sarebbe saltato addosso quando sarebbe rincasato. Sorrise tra sé e sé, e scese in salotto, portandosi Mackenzie in braccio. La depositò sul divano, ancora semi addormentata e cominciò a guardarsi intorno, incuriosito. Era ovvio che non fosse la casa di diretta proprietà del ragazzo, tutto troppo ordinato per esserlo. Ricordava quanto Tom fosse disordinato, a Berlino, di come fosse solito buttare tutto all’aria, e toccava sempre a lui mettere tutto a posto. Era bello piegargli i vestiti, ogni tanto, e sentire il profumo di menta, ribellione e rock’n’roll impregnargli i suoi, di abiti. Era un profumo che non aveva mai più sentito, se non nei suoi deliri post-antidepressivi.
-Mamma?- la voce di Mackenzie lo distolse dai suoi pensieri. Le andò vicino, stampandole un sonoro bacio sulla testolina.
-Sì, patata, dimmi. Hai fame? Vuoi che ti preparo la merenda?
-Uhm, magari sì. Però adesso voglio giocare. Giochiamo?- la bambina lo guardò con quei suoi grandi occhi nati per essere tristi e mai felici.
-Giocare? Oh, sì, amore, va bene.- Bill si stupì quasi di sé stesso. Lui non aveva mai giocato con la bambina, sempre troppo stanco, stufo, depresso per poter fare qualcosa che concernesse l’alzarsi dal divano e il fingere di sorridere. A volte provava svogliatamente a farle costruire dei castelli di carte, ma arrivati al secondo piano si stancava e se ne andava, lasciandola da sola a continuare. Ma quel giorno, quel giorno il moro si sentiva anche in grado di sostenere un gioco. Anche se non sapeva quanto la sua libidine schizzata a mille lo potesse trattenere a giocare una volta che Tom fosse rincasato. – Andiamo su a cercare qualcosa, sì?
Si avviarono al piano superiore, zampettando su per le scale, ed entrarono in quello che Bill pensava potesse essere lo studio, per cercare un mazzo di carte con cui fare l’ennesima fortezza. Lasciò Mackenzie sgattaiolare in giro, guardando in mezzo ai libri accumulati in pile disordinate, mentre lui si concentrò sulla scrivania. C’erano alcune vecchie foto di persone che non conosceva, qualche libro aperto e intoccato da anni, vecchi documenti che probabilmente appartenevano ai nonni di Tom, una vecchia lampada verde, e tanti fogli scritti, che uscivano da ogni cassetto.
-Mamma, ho trovato gli scacchi. Possiamo?- cinguettò Mackenzie, agitando faticosamente una scatola degli scacchi. Bill sorrise e annuì distrattamente
-Certo, patatina. Portalo giù, io arrivo subito.
Mackenzie lo guardò un po’ stranita, ma poi annuì, stringendosi nelle spalle e scese rotolando sulle gambette grassottelle insieme agli scacchi.
Rimasto solo, il ragazzo si guardò attorno, passandosi una mano tra i foltissimi capelli sparati dappertutto. Non sapeva bene perché, ma il suo sesto senso di Iblis gli stava dicendo che avrebbe dovuto guardarsi meglio intorno, che quella stanza nascondeva qualcosa che lui avrebbe dovuto scoprire.
Guardò la scrivania, quando, sotto a un libro, intravide qualcosa di familiare. Di molto, familiare. Spostò delicatamente tutto quello che c’era sopra per riesumare un pacco piuttosto nutrito di lettere. Delle sue lettere.
Sbarrò gli occhi, leggendo nervosamente la prima, riconoscendo ovviamente la sua calligrafia rotonda e precisa, la carta da lettere color crema, l’inchiostro nero con riflessi verdi. Le sfogliò rapidamente, e cercò di soffocare uno strillo scioccato. Le sue lettere che gli aveva mandato in quei due anni, erano tutte lì. Impilate con precisione, con le fotografie  che gli aveva mandato, le sue, quelle di Mackenzie appena nata, tutte lì a prendere polvere. Lui. E la loro bambina. Eppure … istericamente, cominciò a buttarle per aria, afferrando tutta quella carta che lui aveva pazientemente scritto nella speranza che Tom gli rispondesse, si facesse sentire. Vide l’indirizzo, i numeri di telefono che gli aveva spedito, nella speranza che prima o poi gli facesse uno squillo, rispondesse a una lettera, anche con un telegramma, con un rapido “sto bene, mi manchi”. Gli si strinse il cuore in una morsa quando guardò la fotografia di lui sul letto dell’ospedale, gli occhi segnati sotto il solito trucco impeccabile, i capelli meticolosamente sparati e Mackenzie stretta al petto, così grossa anche appena nata, con quegli occhi assurdamente spalancati e un sorriso. A differenza di tutti i neonati piangenti, lei era nata ridendo, come Mago Merlino, o almeno così gli avevano detto le infermiere quando si era risvegliato dopo il cesareo. Effettivamente, quando gliel’avevano messa in braccio, la bambina rideva pacifica, e gli si era appesa addosso con un sorriso sornione. Ricordava ancora quando aveva timidamente chiesto all’infermiera di fargli una foto, “per mandarla a suo padre, è un militare, sa? Adesso è in Afghanistan, vorrei fargli vedere la nostra bambina lo stesso, però”. Aveva mandato quella bellissima foto fiducioso di ricevere una risposta entusiasta, e invece nulla era pervenuto nella sua cassetta. Solo silenzio, lacrime e un’attesa che l’aveva consumato. Alla fine, si era convinto che non gli fosse mai arrivato nulla, che tutte le lettere fossero andate perse e con loro le foto, che due anni della sua esistenza ora non fossero altro che polvere afghana e che Tom non le avesse mai potute vedere. Invece, eccole lì, tutte, non ne mancava nessuna. Tranne la prima foto che gli aveva inviato, quella dove se ne stava seduto sull’altalena dell’Erholungspark, la pancia ancora invisibile e una salda vita a Berlino, che si era sgretolata dopo pochissimi mesi, quando si era reso conto che Tom non sarebbe tornato. Quella mancava all’appello, e non sapeva dov’era andata a finire, anche se, in quel momento, non gli importava nemmeno più tanto. Perché, al posto della totalizzante gioia di poco prima, era subentrato un altro sentimento, orribile, lacerante, distruttivo: la rabbia. E una nuova, inaspettata, ondata di terrore e di depressione che lo avviluppò come se fosse appena precipitato dentro a un mare di alghe nere che lo soffocavano e cercavano di trascinarlo sul fondo e fagocitarlo per sempre. Faceva fatica persino a respirare, in quel momento, e tutto gli era come chiaro, limpido anche se il buio gli opprimeva la vista. Tom lo aveva volutamente ignorato. Se ne era sbattuto di quelle lettere, di quelle foto, non aveva nemmeno risposto al suo richiamo di dolore, alle lacrime che sporcavano l’inchiostro, alla figlia che lo aspettava trepidante, a niente. Sapeva tutto, eppure aveva lasciato che lui si struggesse nel suo dolore senza nemmeno provare a consolarlo. Gli aveva mentito spudoratamente, l’aveva di nuovo usato come faceva ai tempi di Berlino. Bill si sfiorò il collo pallido, ornato da un succhiotto violaceo e rabbrividì: c’era cascato ancora, come il malato di Tom che era, credendo ciecamente alle sue bugie continue, convinto che il rasta fosse tornato a prenderlo, che per tutti quegli anni non avesse pensato ad altro che a lui. Si fece schifo da solo pensando a poche ore prima, quando gli era venuto addosso urlando il suo nome come la peggiore delle troie, quando aveva goduto infinitamente a stare tra le sue braccia calde e forti, a sentirselo completamente dentro, quando aveva pensato che tutto si sarebbe risolto. Ebbe un conato di vomito, e, in un impeto d’ira, scagliò il pacco di lettere per terra, scoppiando in lacrime. Di nuovo. Come se in quei due anni non avesse pianto abbastanza, tanto da pensare di averle finite. Ma per Tom, Tom Kaulitz il soldato, le lacrime non bastavano mai. Bill si morse il labbro, precipitandosi fuori dallo studio, gli occhioni accecati dal pianto e dalla furia sconosciuta che cominciava a bruciargli nel petto, la furia di un ragazzo tradito, usato, violato in ogni modo possibile dall’unico ragazzo che amava tanto da essersi quasi suicidato per lui. Corse giù dalle scale il più rapidamente possibile, e recuperò Mackenzie
-Patatina, molla qui il gioco, dobbiamo tornare a casa!- strillò istericamente, cercando di asciugarsi nervosamente il pianto nella manica della felpa. Non appena si accorse che però aveva ancora addosso l’indumento del rasta, se la strappò di dosso con un gemito inconsulto, lanciandola per terra mentre si reinfilava la sua maglia e i suoi jeans aderentissimi, cercando di infilare le scarpette alla bambina che lo guardava senza capire, anche se non era troppo stupita da quella inaspettata crisi di nervi.
-Perché, mamma? Tom non è ancora tornato. Voglio salutarlo.- cercò di opporsi Mackenzie, cercando di capitombolare dietro a Bill che raccattava in fretta e furia la sua roba gettandola alla rinfusa nella borsa.
-No, amore, siamo stati anche troppo, lo saluterai un altro giorno.
“Non lo rivedrai mai più, altro che, bastardo maledetto” pensava invece, cercando di sorridere tra il pianto e il trucco che colava miseramente. Mackenzie lo guardò senza capire, prima di venire afferrata letteralmente di peso e trascinata come una furia fuori dalla porta. Bill le strinse forte la manina paffuta, ravviandosi i lunghissimi capelli con una mano, e cercò di aprire la porta per lasciarsi alle spalle quella casa e quella scoperta straziante per il suo cuore distrutto una volta per tutte. Eppure proprio mentre lui tirava, la porta si aprì da sola, lasciando palesare Tom sull’uscio, che guardò abbastanza perplesso Bill che si stampò letteralmente su di lui tanta era la foga con cui cercava di scappare.
-Ehi, ehi, Bill che ma che hai?- disse, prendendolo delicatamente per le spalle, guardando con orrore i lacrimoni che correvano sulle guance pallide del ragazzo – Ma ti senti bene, Mackenzie, tesoro, cos’è successo?
-Vaffanculo, schifoso bastardo, non mi toccare, lascia stare mia figlia, ingrato figlio di troia! Lasciala stare ti ho detto! Mollami!
Tom non aveva ancora fatto in tempo a realizzare la caterva di insulti che Bill gli stava rovesciando addosso con una furia degna solo di un jinn particolarmente innervosito che vomitava sabbia per tutto il deserto, che si ritrovò la guancia arrossata da uno schiaffone epocale. E, in un secondo, capì tutto. Le lettere. Le aveva trovate. Prima di ricevere un secondo schiaffo che gli lasciò il segno, riuscì solo a pensare che bene, sì, ora che l’Iblis si era arrabbiato, lui era decisamente fottuto una volta per tutte.

  
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