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Autore: Sospiri_amore    25/08/2017    0 recensioni
❤️SECONDO LIBRO DI UNA TRILOGIA❤️
Ritorneranno Elena, Kate, James, Jo, Adrian, Stephanie, Lucas, Rebecca, (Nik ??).
Ci saranno nuovi intrecci, guai, incomprensioni e amori.
Elena avrà dimenticato James?
Chi vivrà un amore proibito?
Riuscirà il Club di Dibattito a sconfiggere la scuola rivale?
Nik sara sempre un professore del Trinity?
Elena andrà al ballo di fine anno?
IL FINALE di questo libro corrisponde alla fine del liceo, il terzo libro sarà incentrato sulla vita adulta dei personaggi. Più precisamente quattordici anni dopo.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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IERI:
Un mucchio di stracci



 

Cammino in mezzo ad una nuvola di fumo. È tutto bianco. Mi guardo intorno ma non vedo nessuno, non ho idea di dove sia. L'eco di una voce femminile risuona nell'aria. Risate. Corro alla ricerca della fonte, ma una folata di fumo mi colpisce il volto. Chiudo gli occhi per proteggermi, quando li riapro mi ritrovo immersa in una vasca da bagno piena di schiuma. Ho sette o otto anni al massimo. Una mano mi toglie la schiuma dal volto. È mamma. Mamma mi sta lavando. Sembra serena, ride. Mi dice qualcosa, ma non riesco a capirla. Non mi importa, seguo i suoi movimenti come fossi ipnotizzata. Sta ridendo ed io sono felice di vederla così. Allunga un braccio per prendere una spugna, ma non riesce. L'arto le cade mollemente nella vasca sollevando una nuvola di schiuma. Mamma è spaventata dalla sua debolezza, lo capisco dai suoi occhi, lo capisco da come mi fissa. Nero. Tutto sparisce. Gli occhi di mia madre sono l'unica cosa che vedo, ma mutano secondo dopo secondo. Aumentano le sue occhiaie e la stanchezza. Un bip rompe il silenzio. Poi un altro. Sempre di più, non smettono di risuonare. Bip. Bip. Bip. Bip. Odore di disinfettante. Corro. Voglio raggiungere quegli occhi, ma non riesco ad andare da nessuna parte. Mamma, urlo. Mamma, urlo. Gli occhi di mia madre si trasformano in quelli di Demetra. Le sue pupille si dilatano, un'ultima scintilla di vita. I bip si interrompono. Urlo, ma dalla mia bocca non esce nessun suono. Il nero è ovunque, mi sento soffocare. Con le mani cerco a tentoni una via d'uscita. Un piccolo puntino luminoso attira la mia attenzione, è un foro. Infilo il dito e, come fosse un foglio di carta velina, tiro e strappo. Ho distrutto il nero intorno a me. Mi assale una luce accecante. Papà è di spalle e sta leggendo un blocco di appunti. James è di spalle, indossa la toga del Trinity. Kate, Jo e Stephanie sono di spalle, si stanno tenendo per mano. Provo ad avvicinarmi a ciascuno di loro, ma una catena blocca i miei piedi. Provo a tirarla, lotto per sfuggire, ma non riesco. Non ho voce, non mi sentono. Provo a sbattere le catene per terra, ma non fanno rumore. Papà, James, Kate, Jo e Stephanie non si accorgono di me. Mi accascio a terra piangendo, sono stanca, rassegnata. Una mano mi accarezza i capelli. Scatto spaventata. Alzo lo sguardo. Di fronte a me c'è un'altra me stessa con tacchi, ciglia finte e boccoli. Si avvicina al mio orecchio e parla.

Il suono della sua voce è quello di Andrew.

Dice solo quattro parole.

È tutta colpa tua.

 

Mi sveglio di colpo.

Da diversi giorni sogno sempre le stesse cose, più o meno. Guardo l'orologio, sono le sei del pomeriggio. Non so che giorno è, non mi importa. Mi appallottolo sotto la coperta, l'immagine degli occhi di mia madre e quelli di Demetra mi ossessiona.

Non riesco a pensare ad altro, non sono in grado di fare nulla.

Sento parlottare in salotto. Non sono le voci di Tess e Victor che sento di solito. Sono le voci di persone che conosco fin troppo bene. Hanna e Roger. Non ho voglia di vederli.

 

Provo a riaddormentarmi, anche se non ho sonno. Con gli occhi chiusi cerco di svuotare il cervello, ma immagini a raffica mi ruotano senza sosta.

 

Io a cavalcioni su James.

Le spillette a forma di L.

Il volto di Andrew che ride.

Luci stroboscopiche.

La gara di Dibattito.

Rebecca che balla sul tavolo.

Le ragazze del fan club.

Il Trinity Institute in macerie.

Le mani di James intorno ai miei fianchi.

I cartelloni strappati di Adrian.

 

Infilo le mani tra i capelli premendo con forza. Vorrei strappare tutti i pensieri che mi tormentano, vorrei poter tornare indietro nel tempo. Mi sento così stupida. Ho cercato di essere quella che non sono per un potere che neanche desideravo. Ho usato la scusa di voler cambiare le cose al Trinity, quando invece cercavo di riavere ciò che avevo perso. Ha ragione Rebecca, sono una perdente. Una perdente che non sa che fare.

 

Toc.

Toc.

«Elena sei sveglia? Abbiamo visite». Papà entra in camera con cautela, credo abbia paura di una mia reazione negativa, anzi, credo abbia più paura di una mia non reazione. In questi giorni, in cui mi sono rintanata in camera, ha provato in tutti i modi a smuovermi, ma non c'è stato verso. Nessuna sua minaccia, nessuna sua presa di posizione è servita a molto. Non ho reagito. Non ho risposto. Non ho pianto. Ho guardato il vuoto e basta. Sono stata in silenzio.

Non mi muovo dalla mia posizione sotto le coperte.

Sento passi di diverse persone entrare in camera.

«Bruno, dobbiamo cambiare l'aria nella stanza. Un po' d'aria fresca le farà bene», bisbiglia Hanna.

Sento qualcuno aprire la finestra e spalancare le persiane, ma da sotto le coperte tutto appare buio.

«Ciao Elena. Ti va di uscire e parlare?», mi chiede Roger con il solito tono pacato.

Non rispondo.

«Mia cara, devi mangiare, farti una doccia e prendere una boccata d'aria. Sono ormai dieci giorni che non esci dalla stanza», dice Hanna.

«Elena». La voce di Kate ha un suono triste e arrabbiato allo stesso momento. 

Non credevo fosse venuta anche lei. Non ho intenzione di uscire da lì.

Sento qualcuno sedersi sul letto di fianco a me. È papà, lo capisco da come mi accarezza.

«Ti prego, piccola mia, non posso sopportare di vederti in questo stato, non so quanto potrò reggere». Papà prova a scostare la coperta, ma la tengo stretta, non ho il coraggio di farmi vedere. Mi sento un mostro.

Non reagisco.

«Elena, non devi fare così. Capito? Tuo padre e noi ti amiamo, devi darci la possibilità di aiutarti. Esci da lì sotto», dice Hanna con tono deciso.

Non dico nulla.

«Smettila Elena. Quelle sceme del fan club hanno fatto una stupidata, la preside Marquez le ha messe in punizione. Nessuno incolpa te per le spillette, non rischi di venire espulsa o altro. Mi sembra un po' esagerata la tua reazione, si tratta solo di una cretinata di quattro ragazzine esaltate». Anche se non posso vedere Kate me la immagino con le braccia incrociate e la sua tipica espressione imbronciata. 

«Ha ragione Kate. Quello che hanno fatto quelle studentesse non è minimamente colpa tua, devi reagire e cercare di andare avanti», dice papà.

Non mi importa quello che dicono.

«Se continui così dovremo usare modi poco gentili, vuoi che ti facciamo uscire a forza dal letto? Vuoi che ti obblighiamo a mandarti a scuola? Vuoi essere trattata come una bambina piccola? Credo di no, quindi alzati e reagisci», la voce di Roger è dura, non l'avevo mai sentito così.

 

Con forza stringo i denti, non sopporto la loro arroganza. Sono tutti pronti a dirmi cosa dovrei fare e come dovrei comportarmi. Non ho voglia di ascoltare le loro parole, mi innervosiscono e basta.

Mi alzo e appoggio la schiena contro la spalliera del letto. Ho capelli arruffati davanti al volto, non devo avere una bella cera.

«Voglio essere lasciata in pace. Non voglio parlare con nessuno di voi, non voglio fare quello che mi dite. Potete minacciarmi, insultarmi, ma sappiate che non mi smuoverò da qui. Niente scuola, niente Trinity. Non ho intenzione di tornarci. Non voglio più studiare», dico sempre a testa china.

«Cosa? Ma non puoi, devi finire la scuola», urla papà.

«Calmati Bruno, e vedrai che sta scherzando, non può pensare veramente una cosa del genere. Vero Elena, è una battuta la tua?», mi chiede Hanna preoccupata.

«No. Non voglio più andare a scuola», dico con voce ferma.

Papà si alza in piedi di scatto, cammina avanti e indietro come un animale in gabbia. Passa le mani tra la barba nervoso: «Possibile che abbia la figlia più testarda e cocciuta che esista al mondo? Ti sembra normale che faccia così?». Papà chiede a Roger che lo abbraccia dandogli un paio di pacche sulle spalle.

«Elena, non puoi crederci veramente. Ti piace studiare, hai dei buoni amici che ti vogliono bene. Perché fai così?», mi chiede Kate arrabbiata. 

La guardo attraverso i capelli. Non sembra la ragazza che ho conosciuto e a cui ho voluto bene, mi sembra una estranea. Vedo nei suoi occhi freddezza e distacco.

«L'altro giorno mi hai detto che Yale è il tuo sogno, quando sei stata alla conferenza con il tuo amico, come mai hai cambiato idea?», papà ha le lacrime agli occhi, credo si senta frustrato da tutta la situazione.

 

Non voglio che papà dica il nome di Andrew, non voglio che lo nomini. Non voglio che mi ricordi quei momenti. Una rabbia viscerale e profonda parte dallo stomaco e lo contorce, nausea e malessere: «Uscite dalla mia camera. Tutti. Non voglio più vedere nessuno. Non voglio parlare con nessuno di voi».

«Ma Elena...». Prova a ribellarsi Kate, ma la interrompo.

«Ho detto nessuno di voi. Nemmeno te!», le urlo in faccia.

Hanna appoggia un braccio sulla spalla della figlia, mentre Roger sorregge papà che sembra stia per svenire. 

«Fuori!», giorni di frustrazione mi hanno resa più aggressiva del normale.

Tutti e quattro lasciano la stanza. Sono indispettiti, non ci vuole molto ad interpretare le loro facce. Kate scuote la testa, mentre Hanna e Roger tengono per mano papà.

 

Mi odio. Detesto come mi sto comportando, ma non so cosa fare. Non posso confessare quello che è successo né a mio padre e nemmeno a Kate. Sono in trappola.

Ancora carica di rabbia salto giù dal letto scaraventando il cuscino per terra, una nuvola di piume galleggia per la stanza. Prendo la coperta e la strappo dal letto. Con le braccia tese passo rapida sulla scrivania facendo cadere tutto quello che si trova sopra: penne, libri, quaderni. Mi butto sull'armadio, stacco con forza i vestiti appesi, prendo le scarpe con il tacco e le scaglio con forza sul pavimento. Come fossi un tornado pronto a distruggere tutto, mi lancio verso i trucchi. Una cascata di polveri colorate, ciglia finte e creme si mescola sopra i vestiti ammucchiati per terra. Voglio eliminare ogni traccia della mia esistenza, voglio che quella Elena non esista mai più. Mi guardo intorno, mi avvento sul comodino vicino al letto. Voglio prendere il cellulare e farlo in frantumi, ma il braccio urta una scatola di legno. La scatola di legno, quella che costudisce le lettere che scrivo ogni anno a mia madre. 

Tra le piume svolazzanti nella stanza e le polveri dei trucchi, le lettere scivolano sul pavimento. Il mio tesoro è disperso.

In preda ad una crisi isterica inizio a raccoglierle tutte, pulendo le dai residui colorati dei trucchi. Le controllo ossessivamente, una ad una, non voglio che si rovinino. Le ripongo nella scatola con cura, sto per mettere il coperchio quando noto l'angolo di una busta che sbuca da sotto il letto vicino a tre cucchiaini di plastica. 

È la busta che mi ha dato Demetra, quella che mi ha detto di aprire solo quando James ed io saremmo riusciti ad amarci. La stringo al petto, la stringo più forte che posso, mentre nella mano tengo i cucchiaini. Mi accascio sul pavimento e piango. Piango perché so che quel momento non arriverà mai, quella busta non verrà mai aperta.

 

Drin.

Drin.

Il cellulare squilla.

Non voglio rispondere.

Drin.

Drin.

Ancora con le lacrime agli occhi prendo il cellulare, ho bloccato i numeri di tutti quelli che conosco per non essere disturbata. Chi mai potrà essere?

È un numero sconosciuto.

 

«Pronto?», chiedo.

«Cara ragazza, quanto ti ci vuole a rispondere al telefono», la voce della Signora McArthur risuona per tutta la stanza.

«I-io...», balbetto confusa.

«Bando alle ciance. Non ti sei presentata per sistemare gli scatoloni a casa mia. Ti ricordo che hai una punizione da portare a termine», mi dice decisa.

«Ma... Io, non vado più al Trinity e...».

«A me non importa se vai o non vai a scuola. Hai preso un impegno con me ed esigo che lo porti a termine. Chiaro?».

«Non credo di riuscir...», ma vengo interrotta bruscamente.

«Domani. Casa mia. Io e te». Poi butta giù il telefono lasciandomi senza parole.

 
   
 
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