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Autore: telesette    25/08/2017    0 recensioni
Una favola liberamente ispirata alla figura di Giacomo Leopardi, e alla sua triste e sofferta gioventù, una storia puramente di fantasia, in chiave horror, dove i temi della moralità vengono messi in discussione dal dubbio e dall'angoscia...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Liberamente e grossolanamente ispirato agli accadimenti storici e alla poetica inerente di Giacomo Leopardi, quanto segue è da ritenersi mera opera di fantasia col solo ed unico scopo di intrattenimento...


Giacomo e Silvia - "Oltre l'amore... cosa?"

 

Buffo!
Per anni ho continuato a cercare Dio nella parola, nell'uso sublime e nel concetto della parola stessa... e quel che mi accingo a scrivere adesso, invece, non potrebbe esser da Lui più lontano.
Dietro a queste pagine c'è una storia, una storia malvagia, una storia talmente intrisa di male che, se l'inchiostro potesse percepirlo, la carta trasuderebbe come un lenzuolo funebre che delinea i tratti della salma in esso avvolta.
Non era così, un tempo.
Non è mai stato e, forse, non sarebbe nemmeno dovuto essere.
Se il mio vecchio precettore don Giuseppe fosse ancora vivo, e se potesse vedere con i suoi occhi tutto ciò che ho potuto vedere coi miei, sono certo che crollerebbero le fondamenta di tutto il suo essere. Lui era così fermamente convinto, così sicuro delle sue conoscenze e delle sue certezze, mai una esitazione o un dubbio.  Solo una fede incrollabile e il timor di Dio senza il quale, a detta sua: "ogni uomo vaga solitario lungo la via delle tenebre, cercando una luce che non può vedere, perché il suo cuore si rifiuta di vedere"...
Io invece ho visto.
Anche senza la luce, ho visto più di quanto avrei mai potuto desiderare.
Ho visto LEI...

***

Alcuni anni prima...


Ero assai più che giovane, all'epoca, un'età che molti rimpiangono senza neppure realizzare il valore che essa rappresenta.
Tutti mi conoscevano come "il signorino" della casa, nato e cresciuto in seno ad una importante e nobile famiglia locale. Imparai prestissimo a leggere e scrivere, quasi ancor prima che a reggermi in piedi e camminare, ma l'universo legato a quella antica forma di conoscenza mi divenne chiaro poco a poco. Sapevo distinguere le parole l'una dall'altra, conoscevo il loro suono e il loro significato, e potevo usarle per comporre sia il mio linguaggio sia quello degli altri.
Un potere immenso.
Impressionante.
Esistono bambini che, fin dall'infanzia, vivono felici e spensierati entro una minuscola parte di ciò che è il mondo ( e che per loro rappresenta ogni cosa! ). Io invece, già coi miei occhi di bambino, gettavo lo sguardo sull'enormità che la conoscenza può dare all'essere umano.
La biblioteca di famiglia era niente, niente in confronto alla capacità di sapere. Ogni parola, appresa ed incamerata nel mio essere, mi spalancava una porta; ogni frase, invece, era come lo scorrere di un fiume nella mia mente... Potevo citare a memoria versi e concetti a me noti, oppure inventarne di nuovi, ma più delle parole era la padronanza di esse a rendere evidente cosa avrei fatto del mio futuro.
Era quello il mio dono.
La natura non mi aveva concesso altro, nessuna serenità, nessuna gioia...
Solo attraverso le parole potevo esprimere il "vero" me stesso.
La mia era una vita ingiusta, profondamente ingiusta, un'esistenza dove la parola "felicità" non aveva nemmeno ragione di esistere. Potevo provare a rifugiarmi nei libri, nei versi e nella sublime bellezza delle parole capaci di sollevare il mio spirito, laddove il mio corpo non poteva giungere in alcun modo... Ma ad ogni mio leggero distacco, per quanto piacevole ed intenso, inevitabilmente seguivano, la tristezza, la solitudine e l'angoscia dovute alla mia prigione. Non una gabbia di ferro, fatta di sbarre o catene ai polsi, bensì di miasmi addolciti con profumo e di putridume repellente celato coi soffici petali rugiadosi dei fiori appena colti.
E pensare che fuori da quella gabbia velenosa, proprio sotto alla mia finestra, la giovane Silvia era libera e spensierata come io mai avrei potuto essere.
Una giovin fanciulla, un nonsoché di divino nella voce, negli sguardi e persino nei modi. Bella, di una bellezza che niente può agguagliare, il fascino del fiore intriso di purezza e gioventù...
Suo padre si occupava dei nostri cavalli, perciò lei era così robusta nel maneggiare i secchi con cui era solita prender l'acqua ogni giorno. Tra noi vi era solo un anno di differenza: lei era più grande ma, date le sue umili origini, ero io ad apparirle alto quando mi vedeva.

- Buongiorno padron Giacomo!

Quanto mi piaceva il suo sorriso.
Era come se il suo volto si rischiarasse, come se brillasse di luce propria, e il colorito chiaro della sua pelle mi ricordava molto quello degli angeli raffigurati sul soffitto della nostra chiesa. Dinanzi a lei mi tremava la voce, non so perché ma mi imbarazzava sentire addosso il suo sguardo, temevo di apparirle impacciato e ridicolo con la mia vita da recluso. Ma lei non rideva mai di me.
Mai.
Neppure quando i libri mi scivolavano di mano e mi chinavo goffamente a raccoglierli.

- Aspettate, vi aiuto!
- No... Davvero, grazie, non ce n'è bisogno...
- Voi leggete sempre così tante cose, padron Giacomo, magari potessi leggere anch'io!
- Ti piacerebbe?
- Sarebbe un sogno!

La sua mano sfiorò la mia, in modo del tutto accidentale, eppure il mio cuore si fermò nello stesso istante.
Non potevo parlare, non riuscivo nemmeno a respirare.
Tutto di lei mi affascinava: la freschezza, la spontaneità, la dolcezza, il modo in cui mi guardava, la sua sincera ammirazione nei miei confronti... Tutte cose che, in cuor mio, sapevo di non meritare.
Non meritavo una cosa tanto bella, e certo il mondo non me l'avrebbe nemmeno concessa. La felicità era una parola proibita, un concetto a me precluso, per me significava tormentarmi su una cosa semplicemente irrealizzabile.
Eppure qualcosa, tra noi, nacque lo stesso.
Quando il mio cuore riprese a battere, e quando finalmente me ne resi conto, le dita della mia mano erano intrecciate alle sue. Silvia rise, non per dileggiarmi, e per un attimo quella parola trovò un posto in colui che l'aveva sempre ignorata.

- Forse... Forse posso insegnarti qualcosa - mormorai. - Non so, non sono un maestro ma...
- Lo fareste davvero, padron Giacomo? - mi chiese con occhi lucidi e speranzosi.

Le dissi di sì.
Quello fu l'inizio del mio periodo in assoluto più bello. Ogni giorno, lontano da sguardi indiscreti, io e Silvia ci incontravamo all'ombra dell'albero più lontano di tutto il giardino. Qui ci siedevamo e io leggevo per lei, spiegandole come associare il suono della parola all'uso corretto della parola scritta; lei mi ascoltava rapita, quasi meravigliata, come se la mia voce desse vita alle strofe e ai versi in modo ancor più sublime di quanto io stesso abbia mai percepito.
Col tempo, anche Silvia ebbe modo di comprendere la bellezza e la vastità del mio mondo ( l'unico mondo che io potevo dire di conoscere! ), e le piaceva... Non perché fosse in grado di assimilarne i concetti, o per il desiderio stesso di conoscenza, ma per la sola gioia di vedermi sorridere ogni singolo momento che trascorrevamo insieme.

- Sei felice, Giacomo? - da tempo, ormai, aveva smesso di chiamarmi "padron Giacomo" o di darmi del "voi" e io preferivo così.

Di nuovo mi irrigidii.
Non sapevo cosa rispondere, dal momento che non avevo idea di cosa fosse la felicità per me. Conoscevo il mero significato, per quanto i miei studi classici mi avevano permesso, ma non avevo mai pensato di poterla applicare un giorno a me stesso.

- Non saprei - dissi. - La felicità è una parola, come tutte, una parola con l'interazione che essa comporta...
- Che c'entra adesso questa... alterazione? - mormorò lei perplessa.
- "Interazione" - corressi. - Sarebbe l'azione che definisce l'esistenza della parola in modo concreto, per come lo so io almeno!
- Ma io ho chiesto se tu sei felice - sottolineò lei, lasciandomi completamente spiazzato. - Il significato della parola già lo conosco!
- Silvia - mormorai. - Vorrei poterti rispondere, se fossi in grado di farlo, ma la verità è... che non lo so!
- Non sai se sei felice - ribatté lei incredula. - Ma come puoi non saperlo?
- E' perché non lo sono mai stato - ammisi. - Ci sono parole, a questo mondo, che non sono in grado di comprendere: la verità oltre la parola, la conoscenza ultima, è una cosa che ambisco da sempre ma... Ma non l'ho mai trovata!

Silvia non poteva certo comprendermi, nessuno ci era mai riuscito, ma capiva ugualmente il mio disagio. D'istinto mi accarezzò il volto, sfiorandomi la guancia con un bacio, e fu in quel momento che la intravidi.
Che cos'era la felicità per me?
La poesia?
La conoscenza?
Erano emozioni forti per me, senza dubbio, ma non al punto di farmi desiderare che un attimo della mia vita "umana" si fermasse in modo da assaporarlo il più a lungo possibile. Conoscevo Silvia da tempo, la conoscevo bene, ma non avevo mai provato una simile sensazione di calore in sua presenza.
Mi sentivo bene, era come se il distacco tra "immenso" e "limitato" fosse scomparso, e lei da sola riempiva il mio tutto come Dio l'universo da Lui creato.
Se felicità io abbia mai conosciuto, per quanto fugace, certo attimo fu di tutta la mia esistenza...
E attimo lo fu per davvero.
Purtroppo, nel medesimo istante, il male che aveva inteso condannarla si palesò, per portarmela via subito dopo avermela fatta conoscere.

- Silvia !!!

Lei cadde svenuta, tra le mie braccia che a stento riuscivano a sostenerla.
Chiamai aiuto, con voce rotta dalla disperazione, e già il suo pallore sembrava annunciare ciò che stava venendo a prenderla.
Fu in seguito che seppi della sua malattia, del male che la stava privando della vita nel momento in cui cominciava, eppure non potevo far nulla... Nulla, per lei.
Silvia stava morendo, e una parte di me anche.
La gioia che avevo provato, sia pure per un istante, era destinata a sparire assieme a lei. Povera innocente, del tutto inconsapevole ancora, e il pensiero di essere stato io a condannarla, con la maledizione della mia esistenza, mi pesava ancor più gravemente nell'animo e sulla coscienza.
No, non era pazzia la mia, né il delirio di un giovane... io sapevo!
Sapevo che la natura era ingiusta, sapevo quanto veleno ella è solita instillare in coloro che la rifiutano.
Io ho rifiutato la mia, perché troppo ingiusta da sopportare, ed ella si è vendicata su di lei per punirmi del mio tentativo di ribellione.
Ero così affranto, così stanco e arrabbiato di ciò che stava accadendo, non desideravo altro che finisse.
Sarei potuto morire allora, ricongiungermi a Silvia in una realtà migliore di quella, ma il maligno mi aveva già messo gli occhi addosso e fu allora che decise di avvicinare la preda.
Mi apparve in forma umana, vestito di nero da capo a piedi, con occhi rossi di brage ed un ghigno malevolo che accentuava la sinistra deformità del volto. Fu lui, trattenendomi per la spalla, ad impedire il mio volo a capofitto nelle acque scure del fiume che avevo scelto per il mio suicidio. Certo è che, se avessi saputo allora cosa sarebbe successo in seguito al suo intervento, mi sarei tuffato senza alcuna esitazione.

- Non tanta fretta, Giacomo - esclamò. - E' nella disperazione che annega chi non ha più nulla da perdere mentre tu, invece, hai ancora tutto da guadagnare!
- Non ho niente da guadagnare - ribattei io tra le lacrime. - Avevo appena trovato il mio motivo per essere felice, l'unico...
- E puoi ancora esserlo - proseguì l'individuo. - Insieme, Giacomo, tu e io possiamo riprendere in mano la tua felicità!
- Non le permetto di prendermi in giro - risposi furibondo. - Non so che lei sia, e non le ho chiesto di salvarmi, ma se non mi lascia subito io...
- Chi sono non ha importanza, non per te comunque, è Silvia l'unica che conta per te... Giusto?

Come faceva costui a sapere di Silvia?
Chi era e, soprattutto, cosa diavolo voleva da me?

- Voglio proporti un patto, Giacomo - sentenziò. - Ti chiedo solo di ascoltarmi attentamente, molto attentamente, sono sicuro che apprezzerai la mia offerta!

( continua )...

   
 
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