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Autore: Mizurai    26/08/2017    2 recensioni
L'orgoglio talvolta può corrodere l'animo degli uomini fino a divorarlo, portandoli alla rovina.
Enamor, Aldmer originaria dei caldi lidi di Summerset, ripercorre gli eventi che caratterizzarono la sua vita con voce velata dalla nostalgia e dalla tristezza. Dolci ricordi, orrori, gioie e rimpianti diventano così i colori con i quali la protagonista dipinge un'esistenza dedita alla ricerca ed al contempo, alla fuga da se stessa.
Genere: Dark, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Un prezzo da pagare

I giorni che seguirono trascorsero rapidi, tra un’incombenza e l’altra. Ero stata assegnata al servizio di Ilewen Eloran, giovane figlia di Erendor e Talien, i capostipiti della nobile casata Eloran.

Ilewen era una ragazzina odiosa, piena di se ed altezzosa come tutti i giovani di alto lignaggio.

I miei compiti comprendevano principalmente la pulizia delle sue stanze ed i servizi come cameriera. Anche se saltuariamente ero addetta anche ad aiuto nelle cucine, o mandata al mercato della Città Superiore a far spese.

La tenuta Eloran era immensa, ricordo ancora i grandi saloni pavimentati in marmo candido. L’imponente scalinata conducente alle stanze da letto nobiliari e le finestre, ampie e dalle vetrate intarsiate, la cui luce rifulgeva tingendo di mille tonalità di oro pallido i pavimenti in pietra lunare.

Nonostante non fossi che una serva non potei fare a meno di sentirmi parte di tanta grandiosità.

Spesso, incurante delle ramanzine, mi attardavo nei giardini ai piedi dell’Alto Tempio di Auri-El. Quando, una volta calato il sole, la tenue luce di Jode e Jone indugiava sulla superficie dorata delle alte guglie del tempio  rifulgendo opalescente come un riflesso lontano, colmando il mio cuore di una gioia incontenibile.

Come promesso a mia madre mi venne impartita un’educazione, imparai a leggere e a scrivere. Fu la signora della capitale ad insegnarmi, in un certo senso credo che sia stata lei il mio primo vero Maestro.

Ma fu dai libri che imparai maggiormente; il libri dell'immensa biblioteca della Tenuta Eloran. Centinaia e centinaia di scaffali colmi di tomi sugli argomenti più vari, dalla storia alla botanica, la geografia, l’alchimia, la cucina, la filosofia, la mitologia e molti altri ancora. Spesso, approfittando di qualche distrazione, correvo a rifugiarmi tra quegli scaffali, pronta a viaggiare verso terre sconosciute ed a vivere straordinarie avventure.  Rimanevo lì seduta a terra, con la schiena appoggiata agli alti scaffali. Leggendo di luoghi che altrimenti mai avrei visitato, di piante che mai avrei osservato, di cibi che mai avrei assaggiato e di persone che mai avrei incontrato. In un certo modo mi sentivo libera, anche se solo per poche ore.

Ma in ogni luce vi è sempre un ombra, e per quanto Alinor la Splendente apparisse meravigliosa ai miei occhi, io restavo una serva. Presto dovetti imparare a metter da parte l’orgoglio e chinare la testa, accettando ogni cosa, per quanto ingiusta od umiliante. Non diversamente da quel mendicante dalle mani piagate che incontrai alla Città Bassa il giorno in cui giunsi ad Alinor; io restavo un inferiore, indegna del loro rispetto.

Ma io sono sempre stata una persona molto orgogliosa.

Accadde un Thurdas del Primo Seme, lo ricordo ancora perfettamente. Quella mattina si erano recati in visita alla Tenuta Eloran alcuni giovani di alto lignaggio provenienti dalle maggiori casate di Alinor. Ricorreva il tredicesimo compleanno della giovane Ilewen ed io ero stata assegnata alle mansioni di sua cameriera personale. Ilewen era una ragazzina viziata e capricciosa, avvezza ad umiliare e sminuire chiunque considerasse a lei inferiore. Spesso mi era capitato di divenire oggetto delle sue mire, ma col tempo avevo imparato a non dar peso alle sue parole, per quanto velenose fossero. Quel giorno, finito di sparecchiare la sala da pranzo fui chiamata a servire il tè alla radice canina ed il pane dolce nelle stanze della giovane Ilewen. Una volta preparato il vassoio salii le scale in marmo candido e percorsi il lungo corridoio conducente alle stanze nobiliari. Giunta innanzi alla porta diedi due colpi leggeri onde avvisare del mio arrivo, poi entrai. All’interno una quindicina di giovani, abbigliati in lunghe e preziose vesti dai colori tenui erano intenti a chiacchierare tra loro. Tra di essi Ilewen sedeva scomposta su di un ampio sofà foderato in broccato color porpora.

«Finalmente! Certo che ce ne hai messo di tempo eh serva!» Disse Ilewen sorridendo soddisfatta.

Senza rispondere, mi avvicinai in silenzio, sforzandomi di mantenere lo sguardo abbassato. Sentii calare su di me gli sguardi dei giovani nobili mentre avanzavo, reggendo ancora tra le mani il vassoio con il tè e i dolci.

Mi diressi verso il basso tavolino in mogano, ai piedi del sofà, quando all’improvviso una giovane dai lunghi capelli scuri e gli occhi verdi seduta al fianco di Ilewen spostò il suo piede nella mia direzione, facendomi perdere l’equilibrio. Tutto accadde in un istante. Il vassoio d’argento mi scivolò dalle mani cadendo a terra. Il prezioso servizio da thè in porcellana esplose in mille pezzi. Il pane dolce rotolò fin sotto al sofà lasciando dietro di se un leggero aroma speziato. Mentre il contenuto della teiera, ancora fumante, si spanse nel pavimento in marmo, inzuppando gli orli delle lunghe vesti dei giovani invitati.

Rimasi immobile, come pietrificata per alcuni istanti. Fu la voce melensa della giovane dagli occhi verdi a riportarmi alla realtà.

«Guarda cos’hai combinato! Inutile e maldestra...» sibilò. Non raccolsi la sua provocazione e mi chinai a terra a  raccogliere i cocci del servizio da tè in silenzio.

«Ma d’altronde cosa puoi aspettarti quando fai la carità? Ilewen, la tua famiglia è fin troppo prodiga verso questa gente...accogliere in casa vostra questo rifiuto. Figlia di una sgualdrina senza padre, incapace persino di reggere un vassoio...»

Sentii le risate di scherno degli altri giovani, ed i loro sguardi carichi di disprezzo gravare su di me. In quel momento nacque nel mio cuore una consapevolezza ancor più dolorosa dell’umiliazione, la consapevolezza che nelle parole di quella giovane vi fosse un fondo di verità. E per la prima volta nella mia vita mi sentii patetica, lì chinata a terra a strisciare ai loro piedi.

Così, lo dissi.

«Non è stata colpa mia...»

Calò improvvisamente il silenzio, solo dopo qualche istante la giovane dagli occhi verdi si avvicinò a me.

«Che sfacciata! come osi rispondere? Ilewen, dovresti insegnare alla tua serva a tenere a freno la lingua e ad aver maggior rispetto di chi le è superiore... »

«Fosse per me la rimanderei là da dove è venuta. Nella Città Inferiore a strisciare fra i suoi simili.»

Furono le parole che scivolarono come veleno dalle sue labbra.

Mi alzai di scatto e senza abbassare lo sguardo, mi avvicinai a lei. Era abbigliata in una lunga veste ricamata dalle maniche ampie color turchese, stretta in vita da una cintura dorata. I suoi capelli, lisci e scuri le ricadevano morbidi fino ai fianchi, intrecciati di perle. Il suo capo era cinto da un cerchietto dorato messo ancor più in risalto dagli occhi sprezzanti.

In quel momento non riflettei alle conseguenze che il mio gesto avrebbe portato.

Sollevai la mano e la colpii al viso con forza, facendola cadere a terra.

Riguardo a ciò che avvenne in seguito non ho che dei ricordi confusi. Accorsero in fretta molte persone, domestici e servitori.

Scoppiò il caos; i giovani invitati ed Ilewen, intenti a dare la loro versione dei fatti, parlavano uno sopra l’altro ed al baccano generale presto si unirono le grida isteriche della ragazza dagli occhi verdi. La zia della Capitale mi prese per un braccio e mi condusse ad una stanza piccola e buia, di solito adibita a ripostiglio. Mi spinse dentro con uno strattone e richiuse la porta dietro di me.

Soltanto in seguito seppi chi era la ragazza che avevo colpito. Melian Escaliot, figlia di Salian e Orentor Escaliot, nipote del Sovrano di Alinor.

La mia punizione venne discussa a lungo. Una mattina, dopo tre giorni passati rinchiusa in quel ripostiglio la porta venne aperta e la zia della Capitale mi condusse in giardino. Lì, abbigliate sontuosamente, stavano in attesa diverse persone. Riconobbi la ragazza dagli occhi verdi che avevo colpito al ricevimento di Ilewen, era in piedi a fianco di quelli che dovevano essere suo padre e sua madre.

Un servitore della Casata Escaliot, un uomo alto e robusto si avvicinò a me. In mano reggeva una pesante frusta di cuoio intrecciato. Fui spogliata e gettata a terra con uno strattone.

Nonostante mi fossi ripromessa di non piangere, in modo da privare quella maledetta della sua soddisfazione, nel momento stesso in cui la frusta colpì la superficie della mia pelle lacerandomi la carne, un dolore lancinante, simile ad una scarica elettrica attraversò il mio corpo, costringendomi a lanciare un’ urlo disumano.

Sentii un rivolo di sangue caldo scendere lungo la mia schiena. Con la vista annebbiata dalle lacrime posai lo sguardo sulla figura della ragazza dagli occhi verdi, sorrideva soddisfatta al fianco dei suoi genitori.

Non so di preciso per quanto tempo rimasi lì, né quante frustate mi vennero inflitte. Ad un certo punto smisi di contarle.

Quando venni riportata nella mia stanza era ormai calato il tramonto ed i miei vestiti erano zuppi di sangue.

Le ferite alla schiena pulsavano e mi dolevano terribilmente. Ma ancor più che nella carne ero ferita nell’orgoglio. Chiusi gli occhi e strinsi forte i pugni, mentre calde lacrime scendevano a rigare il mio volto. In quel momento non potei fare a meno di pensare alla mia casa, ormai così distante, mi sentii piccola e sola in un mondo a me avverso.

Poi rividi l’immagine di Melian, la ragazza dai lunghi capelli scuri e gli occhi verdi, in piedi davanti a me, sorridere soddisfatta ad ogni mio urlo di dolore.

Nel mio cuore si fece strada l’odio, un odio profondo che crebbe fino ad avvelenarmi. Un odio per tutti coloro che ogni giorno mi guardavano dall’alto al basso. Per quella ragazza dagli occhi verdi che infine era riuscita ad umiliarmi. Per mia madre, che avrebbe dovuto proteggermi, ed invece mi aveva abbandonata. Per quella donna crudele che si definiva mia zia e che non esitava a picchiarmi al minimo sbaglio, ed infine per me stessa, che ero troppo debole per reagire.                

Raggomitolata su me stessa, incurante del sangue che ancora caldo, scendeva lungo la mia schiena macchiando le lenzuola del letto, scoppiai in un pianto silenzioso. 

Le settimane successive trascorsero fiaccamente, tra un’incombenza e l’altra.

Il dolore alla schiena si affievolì poco a poco, e lentamente anche le ferite si rimarginarono. Il profondo solco ancora aperto nel mio animo invece, crebbe sempre di più.   

In me si fece strada una convinzione. Non avrei permesso mai più ad alcuno, ne uomo ne donna, di umiliarmi. Non sarei mai più stata una vittima, ne una debole.

Ma l’unico rispetto che una come me, di umili natali e per di più donna, avrebbe mai potuto ottenere era il rispetto scaturito dal timore.

Fu questa ragione, che mi indusse ad intraprendere il cammino della conoscenza.   

Incominciai a trascorrere sempre più tempo nella biblioteca della Tenuta Eloran, alla strenua ricerca di volumi riguardanti le principali scuole di magia.

Fu proprio durante una di queste mie ricerche che lo trovai.

Come ogni sera, terminate le mie mansioni in sala da pranzo, mi recai in biblioteca. Con passo silenzioso mi diressi celere tra gli scaffali, verso la sezione adibita alle Arti Arcane. Stavo cercando un libro in particolare, “Il Lorkhan lunare” di Fal Droon.

La biblioteca degli Eloran era immensa. Gli scaffali, alti ed in legno di mogano, si innalzavano fin quasi a sfiorare il soffitto a volta.

Scorsi rapidamente i titoli impressi in grandi caratteri dorati sui dorsi delle rilegature in pelle, alla ricerca del compendio di Alterazione di Droon. Spostai con cautela i volumi collocati più in fondo, e fu in quel momento, mentre ero intenta a raggiungere con la mano un tomo posto particolarmente lontano, che lo vidi.    

Si trattava di un grosso volume rilegato in cuoio consunto. Il titolo sbiadito dal tempo, recava vergato in caratteri scuri "Libro dei Daedra". Nonostante allora non comprendessi ancora appieno il significato di quella parola, non potei fare a meno di sentirmene attratta, come guidata da un desiderio di ineffabile curiosità. Tesi la mia mano e lo afferrai.

Se allora avessi saputo a quali dolori e sofferenze mi avrebbe condotta tale gesto, avrei riposto quel libro nel suo scaffale all’istante e sarei tornata correndo nella mia stanza, senza metter mai più piede in quella biblioteca.

Ma d'altronde credo che la vita di chiunque, rivista attraverso gli occhi dell’esperienza appaia colma di pentimenti e rimpianti.

Sollevai la copertina in cuoio con accortezza. La prima pagina recava impresso, sotto il titolo, un simbolo in una lingua a me sconosciuta.

Era un testo antico, risalente a prima della Chiesa di Auriel. Quando ancora nelle isole di Summerset si veneravano i Principi Demoni delle Sfere Esterne.

Un culto oscuro ed obliato da tempo; come lo era quel volume, dimenticato tra gli scaffali della grande biblioteca Eloran.

Lessi avidamente, di Piani dell’Esistenza lontani Eoni interminabili, abitati da Entità aliene alla natura umana come a quella elfica. Entità tanto dissimili da poter essere definite D-aedra nella lingua Aldmeri, i non-antenati.

Ma a differenza di Magnus, Trinimac e Auri-El i Gloriosi, Sommi e Splendenti nei cieli dell’Aetherius, tanto distanti dai comuni mortali, essi erano invece vicini alla nostra esistenza. Pronti ad ascoltare le nostre preghiere se chiamati e prodighi di aiuti, anche se come per ogni cosa, ad un prezzo.

Fu tra quelle pagine che lessi il Suo nome per la prima volta.

Hermaeus Mora, Principe Daedrico del Fato e della Memoria, guardiano delle scritture e custode di antiche conoscenze ormai dimenticate.

Colui che aveva irretito con le sue parole Xarxes, lo scriba del sommo Auri-El in persona, facendogli dono di saperi al di la della consapevolezza di dei e uomini.

Colui che leggeva nel passato e nel futuro, domando le maree del destino.

Colui il cui nome e potere si perdevano nelle origini stesse di Nirn.

Riflettei a lungo ed infine presi la mia decisione.

La notte di un quinto giorno del Primo Seme, mentre fuori imperversava il temporale, mi chiusi nella mia stanza e tracciai sul pavimento un ampio pentacolo irto di rune. Con voce tremante, pronunciai i termini dell’invocazione.

Attesi alcuni istanti, in silenzio, ma non accadde nulla. Il solo suono del rombo dei tuoni lontani riempiva il vuoto intorno a me, mentre ampie e leggiadre volute di fumo salivano lentamente dalle candele poste a circondare il cerchio d'Evocazione. Nulla si palesò al mio sguardo, le terribili fiamme ed il vuoto dell'Oblivion di cui tanto avevo letto prima d'allora non si mostrarono affatto, né tantomeno la più semplice apparizione o prova che potesse in qualche modo ricompensare i miei sforzi. Abbassai lo sguardo stringendo i pugni con forza.

Pensai di avere fallito, ed ancora una volta mi sentii patetica ed inutile, troppo incapace persino per chiedere aiuto.

Poi udii la Sua Voce.

Fredda e distante come giunta da Sfere Lontane, ma profonda e pregna di un potere antico e terribile.

Ed infine Egli mi apparve.

Un turbine come di acque torbide e pulsanti avvolte da lunghi tentacoli neri fluttuò innanzi a me, mentre lentamente prendeva forma l'orrida figura di un corpo abominevole, senza volto ed attraversato da svariati occhi opalescenti. Gli arti sghembi si protendevano verso l'alto, scheletrici ed affilati, simili alle tenaglie di un insetto.

Il Suo corpo informe, che nulla aveva di umano o elfico, terminava in una massa molle e viscida, contornata da numerosi tentacoli. I Suoi occhi vitrei erano spalancati ed immobili, dando come l'impressione che il Dio stesse scrutando attraverso d'essi il Tutto ed il Nulla al contempo.

Rabbrividii. Un lungo rivolo di sudore gelido scese lungo la mia schiena, mentre chinavo il capo prostrandomi innanzi al Signore della Memoria.

Meditai le mie parole con attenzione.

Non avevo molto da offrire. Tutto ciò che possedevo erano gli abiti che indossavo, e pochi altri miseri averi custoditi all'interno del pesante baule ai piedi del letto. Perciò gli offrii l'unica cosa che potesse avere per me un qualche valore.

La mia anima. Certo, per quel poco che potesse valere l'anima senza nome di una ragazzina misera e semplice qual'ero.

Ma essa, per quanto insignificante, era tutto ciò che avessi da offrire.

Infine pronunciai quelle parole.

Un’eternità di schiavitù nell’Oblivion. Sua nella vita e nella morte.  

Egli mi trasse a se; avvertii le spire dei Suoi tentacoli avvolgermi e stringere il mio corpo sempre più. La vista iniziò ad annebbiarsi, mentre il mondo intorno a me sbiadiva lentamente, lasciando posto a visioni di oscuri abissi ricolmi di atrocità innominabili ed orrori a lungo dimenticati.

Immensi corridoi e sale sconfinate si aprirono innanzi ai miei occhi, dimorate da creature abominevoli e terrificanti. L'aria verdastra e malsana di quel luogo infernale permeava ogni cosa, bruciandomi i polmoni ad ogni respiro.

Parole distanti, sussurrate in una lingua a me sconosciuta giunsero alle mie orecchie da lontano. Nonostante prima d'allora non avessi mai udito tali parole, una parte di me sentiva di averne comunque memoria, come se esse provenissero da un sogno dimenticato per lungo tempo.

Obbedii e tesi il braccio sinistro davanti a me, in silenzio.

Un dolore acuto e lancinante mi attraversò all'improvviso; come se mille lame arroventate incidessero la mia carne in profondità, all'altezza dell'avambraccio.

Sentii la mia pelle sciogliersi al Suo tocco, ed i tessuti sottostanti bruciare consumandosi fino alle ossa.

Non ebbi il coraggio di abbassare lo sguardo per vedere cosa restasse del mio arto sinistro; i Suoi gelidi occhi sembravano scrutare fin dentro la mia anima, paralizzandomi.

Mi chiesi se il Dio potesse leggere il terrore che cresceva sempre più nel mio giovane cuore, mentre i suoni intorno a me si facevano ovattati e distanti ed il buio calava avvolgendo ogni cosa.

   
 
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