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Autore: kosmos67    28/08/2017    2 recensioni
Il suo passato, i suoi simulacri in fiamme s'erano come sfumati con le spoglie romite di Albus Potter, il cui aspetto umbratile strideva con l'abbacinante pallore di Scorpius; oscurati entrambi da una mitologia che li relegava ai margini della Storia della Magia, nati dal ristagnarsi degli estremi umori del trionfo sui Mangiamorte, gettati al mondo dagli spasmi della felicità inconsapevole, subitaneo risveglio dalla disperazione più tenebrosa.
albus/scorpius || alternative to cursed child
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, Draco Malfoy, Scorpius Malfoy | Coppie: Albus Severus Potter/Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto, Nuova generazione
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ndA
Salve a tutti! La storia che pubblico segna il mio esordio (spero non fallimentare) nel mondo delle fanfictions :) Per meglio comprendere il testo, mi sembra opportuno chiarire che esso muova i suoi passi nel medesimo mondo di Harry potter e la maledizione dell'erede",  in cui tuttavia i viaggi nel tempo no sono mai avvenuti. La tragicità del rapporto di Scorpius e Albus con i relativi padri, così, è esasperata dalla mancata risoluzione che i suddetti viaggi apportano, nel canon: la conflittualità e la delusione, in tal modo, non hanno mai avuto modo di stemperarsi.
Spero vi piaccia c: 

 

 

 

 

withered branches of future

 

 

“you were alone, left out in the cold
clinging to the ruin of your broken home.”

                                                                                       

Tornava spesso lì, Scorpius, chinato con un mazzolino di crisantemi accanto alla lapide della madre. Il retaggio paterno anche in tale circostanza gli imponeva una severità che mal s’accompagnava con il rifluire increspato della sua sfera emotiva, gelosamente custodita e inibita agli altri: la madre avrebbe capito – v'era sempre riuscita, d'altronde – perché il figlio avesse perseverato, una volta in più, nel gelo del suo silenzio. Le regioni della solitudine erano uno spazio familiare, confortevole, e lui amava passeggiarvi, slanciandosi al di là della realtà – al di sopra di qualsiasi altra distesa: il torpore della regressione in sé, l'ondeggiare dolce dell'introspezione erano equiparabili al movimento misurato, lieve della mano a contatto con uno specchio d'acqua.

Le rappresentazioni che guadagnavano il teatro della sua immaginazione s'erano estraniate dalla realtà, sature delle deformazioni del medesimo ricordo, infine accartocciato e rivoltato, in modo da esporne il rovescio – inesorabilmente danneggiato. Sì, questo la madre l'avrebbe capito, con la vergogna ingenerata dalla consapevolezza d'avervi pure contribuito, o, forse, di non averlo impedito; Scorpius ricordava i lunghi pomeriggi alla sontuosa tenuta di famiglia, avvolto dalla cura inestinguibile dei genitori. Eppure, le attenzioni rivoltegli erano oro liquido che l’aveva avvolto; e raffreddatosi divenne la crisalide da cui mai sarebbe riuscito ad evadere. E tale alienazione – in maniera più o meno conscia – mai aveva retrocesso, mai aveva perduto il suo sapore metallico: ad Hogwarts, anzi, essa era addirittura avvalorata dalle reazioni ostili dei compagni, in coda per additarlo come il figlio di Voldemort.

Eppure a lui non interessava, né in alcun modo ciò avrebbe mai potuto lederlo, benché mostrasse il fianco alla rassegnazione di procedere lungo le vestigia del suo passato, sfociando nell'inaridirsi della sua volizione: una timida scintilla, tuttavia, continuava a fermentare nel cuore, ancora non vinto dalle sferzate della risacca. Il suo passato, i suoi simulacri in fiamme s'erano come sfumati con le spoglie romite di Albus Potter, il cui aspetto umbratile strideva con l'abbacinante pallore di Scorpius; oscurati entrambi da una mitologia che li relegava ai margini della Storia della Magia, nati dal ristagnarsi degli estremi umori del trionfo sui Mangiamorte, gettati al mondo dagli spasmi della felicità inconsapevole, subitaneo risveglio dalla disperazione più tenebrosa.

Sì è flagello o vittima, mentre loro galleggiavano in un limbo cupo, offuscato da malcelate delusioni delle reciproche famiglie, con l'orgoglio abortito e la nostalgia di ciò che mai potrà esser da loro eguagliato.

 

*

 

“hear you, falling and lonely, cry out
will you fix me up? will you show me hope?”

 

Scorpius amava attraversare con le dita affusolate i capelli di Albus, plasmandoli con carezze febbrili; Albus, dal canto suo, amava incunearsi nelle sue latebre, senza mai pretendere di rischiararle, anzi, lasciandosi da esse inumidire le labbra: era un amore profondo, ma modesto, su cui aleggiava un'aura funerea. Ciò che era stato torreggiava su ciò che avrebbe potuto essere, e le loro ambizioni erano parimenti tarpate, tuttavia immerse nella galvanizzazione della passione dell'esilio, dell'eterno pellegrinaggio: senza meta, mai avrebbero percorso i sentieri sbagliati. Intrappolati nelle sembianze narcisistiche del loro amore, null'altro poteva addivenire di eguale valore, null'altro avrebbe meritato maggiore considerazione: traslati in una dimensione altra, fluttuavano in lievi fumi onirici - finalmente fantasmi, vacui sepolcri vivi, sebbene congiunti nei penetrali della loro connessione fatale.

Il sorriso tremulo di Albus, la luce infranta dei suoi occhi: rimandi ad un altrove vuoto, appannato da una bruma che impediva a Scorpius di sollevarsi dal margine della sua esistenza, da quegli angoli smussati in cui pure senza freno si gettava. Albus era nient’altro che una timida raffica inghiottita dallo spirare della bora, un fatuo segnale luminoso di difficile interpretazione – Scorpius incline al fraintendimento, mai capace di sovrapporre materia e realtà verbale: solo con lui, tuttavia, riusciva a scappare dalla convenzione del linguaggio, della genericità al cospetto della quale aveva consentito che la sua interiorità s’inginocchiasse, sparisse.

Le loro labbra reciprocamente si corrompevano, iniettando sul dorso della lingua una miscela venefica, sebbene narcotica: senza sosta alimentavano l’opacità della loro solitudine, disperatamente protesi sul precipizio della nera malinconia. Sommersi e naufraghi, mai avrebbero permesso che la loro graduale autodistruzione fosse sventata; evidentemente dimentichi del peso delle rispettive famiglie, scontarono l’irruenza di tale cecità.

 

*

 

Docili lingue di fuoco crepitavano dalla legna, mentre Draco misurava la stanza sulla base delle oscillazioni del calice di Quintin Black, osservando le sue inestimabili teche. Trattati alchemici, artefatti di pura magia oscura, ricettacoli per poteri banditi dal tempo: gli occhi dardeggiavano, ancora perduti nel fango della sua voluttà, del suo sangue annerito dalle promesse di Voldemort.

In tale tessuto di pensieri s’intromise il tarlo legato alla noiosa, prolungata assenza del figlio dalla magione. Niente più che un impedimento – necessariamente temporaneo – eppure così presente, un gravame a cui non riusciva a dedicare indifferenza. Lo cercò nel giardino srotolato ai piedi dell’edificio, nelle zone adiacenti: invano. Incapace di ricostruirne il plausibile passaggio, si risolse a raccogliere alla mente le persone che ne sarebbero state in grado. L’elenco, certo, era estremamente esiguo, eppure gli balenò l’idea che, forse, solo Potter poteva essere a conoscenza di ciò che gli sfuggiva: d’altronde era sempre un passo avanti, con la schiena che l’irrideva, beffarda.

Si risolse a non indugiare ulteriormente, smaterializzandosi innanzi alla sua residenza. L’ira infiammata dall’alcool l’esortava a non arrestarsi sulla soglia, eppure l’idea di irrompere nella casa di uno dei quadri del Ministero ne frenò l’intraprendenza. “Potter, apri questa dannata porta!”
Il silenzio ripristinò la medesima collera degli anni di Hogwarts, la speculare frustrazione di non comprendere, di non esser il fuoco delle prospettive altrui.

Un rumore precedette l’istinto di sillabare “Alohomora”, suggerendogli di sgusciare sul retro della villetta, rimanendo a debita distanza da possibili avvistamenti indesiderati. La finestra del piano superiore catturò la sua attenzione: il volto di Scorpius nascosto fra le dita di Albus - il corpo sbranato dal suo sguardo da basilisco.

La rincorsa era chiaramente cessata. Ancora una volta al centro di un circuito interrotto, i cui segmenti impazziti gli si sviluppavano attorno; una realtà che sfuggiva ai suoi schemi geometrici, non suscettibile d’esser ricondotta su direttrici a lui congeniali. L’animo fiacco del figlio affidato al cuore insolente di un Potter, il lustro di casa Malfoy vandalizzato da un’unione promiscua, rigonfia di insensatezza, si spalancavano in una sintesi superflua: Scorpius l’aveva rinnegato.

Erano anni che la sua carne non era trafitta da quell’aculeo rovente così simile al bruciore del Marchio. Impugnò la bacchetta, puntata in alto: meteore verdi sfrecciarono trasversali al cielo, lambendone gli orli stellati.

 

*

 

“Albus, no. Restane fuori, non sarebbe utile.” Scorpius era come pietrificato, ma sapeva che la sua paura non avrebbe dovuto violare il suo amore – o, almeno, la carne che lo rivestiva. “Uscirò dalla tua casa da solo, mi consegnerò a mio padre preparandomi per il peggio. Non voglio che tu faccia cavolate.”

Conosceva lo spirito di Albus, demoniaco quando il suo possesso era messo a repentaglio dall’ingerenze altrui: aveva monopolizzato il suo affetto, ricalcando su ogni parte della sua affilata figura il suo diritto d’esclusiva. Avrebbe ripudiato la sua stessa famiglia – l’avrebbe compiuto anche senza una parvenza di giustificabilità, beninteso – se si fosse frapposta fra lui e Scorpius; questi, però, avrebbe fatto ricorso persino ad incantesimi di immobilizzazione, se Albus avesse persistito in quel delirio di immatura volontà di ribellione.

“Non sbagliare, Scorpius”, mormorò Albus, gli occhi gelidamente verdi che ne incatenavano il pensiero, mentre la presa della sua mano gli si stringeva sulle dita. “Scegli la parte giusta, per una volta.”

Incrinato, dismesso, il suo ego era come soverchiato dall’energia affermativa del padre e del ragazzo a cui era avvinto: rendeva sua la volontà altrui – e acconsentiva ad essere un terreno di conquista, un ulteriore lembo di spazio vitale oggetto di imperio.

“Tornerai mio, e nel caso in cui riuscisse persino a farti sprofondare nell’autocommiserazione e nel rimorso non esiterò a vendicarmi di lui.”

Scorpius avvertiva, d’un tratto e per intero, l’irresistibile gravità patita da un satellite.

 

*


“Astoria non avrebbe voluto, Scorpius.”

Draco era visibilmente cereo, i suoi denti digrignavano mentre, invano, cercava di dissimulare la sua agitazione, la sua resa issata sul tumulo della speranza: per persuadere Scorpius, non bastavano il tono affettato, le mani stinte dall’affetto in cancrena mentre gli avviluppavano la spalla. Il loro rapporto collassava, inghiottito dall’effetto di non aver saputo, voluto affrontare la loro debolezza, cercando di ruotarne l’effigie per allontanare le crepe: dalla morte della madre, alla loro relazione era stata impressa una sorta di scadenza, un corollario di precetti che ne stritolava la genuinità.

“Hai ragione, lei non avrebbe voluto me.”

Scorpius si stringeva il braccio con la mano sinistra, come a frenarne la circolazione di rabbia. Oramai dubitava finanche dell’amore della madre, l’unica percezione che, fino a quel momento, fosse scampata alla morsa della sua intima inquisizione; ricordava la sua fragilità sullo sfondo delle foto di famiglia, come essa fosse tradita dalla concavità del volto contratto in un sorriso più simile ad un’incisione. Un solco – allora ne era quasi certo – tracciato da una gestazione complessa, contrassegnato dalla vita di Astoria immolata alla nascita del figlio, dono che esigeva il suo sacrificio.

Si sottrasse dalle dita paterne – sempre più corpo estraneo – mentre avvertiva scivolar via il controllo sulla sua psiche, soggiogata dal reflusso degli umori, dei liquidi viscosi che ne avevano acquisito il dominio.

Tiranno di se stesso, temeva che tale livore potesse intaccare l’ultimo residuo di luce che lampeggiava sulle iridi: rinunciare ad Albus prescindeva dal veto paterno, forse.

 

*

 

Albus onorò la sua decisione. Lasciò che Scorpius si precipitasse dalle scale per placare la furia del padre, osservandoli allontanarsi dalla finestra, con la rabbia che si mescolava al risentimento.

Iniziò il suo tormento. La prigionia a casa senza il sollievo del suo amore rappresentava l’inquietudine più imminente su cui soffermarsi; senza le sue carezze imperfette, rapsodiche, avvertiva distintamente il ritorno dei suoi tratti ferini, pungenti – liberi di ricoprire d’erica i fiori che avevano avuto l’ardire di sollevare lo stelo.

 Assuefatto dalla delusione paterna, dalla stima soffocante della madre, dalla radicale diversità che pure soggiaceva al rapporto con i suoi fratelli, Albus trascurava le mutazioni del sentimento che nutriva nei confronti di Scorpius: latente, un’ombra di ossessività allargava il raggio del suo cono d’ombra, agitando la perfetta stasi della separazione – intatta dai detriti della realtà futura – per lordarla della brutalità della paranoia. Prosciugava i suoi sforzi nel restare lucido, per architettare un piano di fuga dalla magione Malfoy; tuttavia, spesso avvertiva l’inesorabilità del fallimento. Il suo amore, d’altronde, naufragava nel magma indistinto come quella medesima gioia oramai ammutolita, innescata da una fame sì straziante da non saperla coltivare e replicare. Scorpius era il portale disconnesso da tutto ciò che non avrebbe mai più recuperato – ciò che aveva faticosamente sradicato dalle zolle brulle della sua apatia.

Allo spirare dell’estate, Albus, il cui volto era profondamente cupo e scavato, decise che la soglia di fallibilità del suo piano raggiungeva una soglia quantomeno accettabile: in ogni caso, la totalità delle sue energie non avrebbe retto ad un secondo tentativo.

Entrò nella camera del padre, rovistando nella sua cassa: ne conosceva l’attitudine piuttosto confusionaria, talora sciatta, che gli impediva di custodire correttamente quanto non fosse destinato all’evidenza: gliene avrebbe dolcemente ricordato le indesiderate conseguenze. Era lì, sepolta da una folla di oggetti insignificanti: la sua fiera scopa. L’eroismo paterno sarebbe stato sbiadito dal trionfo del suo individualismo, opponendo al bene superiore da lui ricercato la gioia solipsistica del suo ego.  L’afferrò con sorprendente coraggio – l’unico legato tramandatogli – pronto per maldestramente sfrecciare fra le nubi che sorvolavano la contea di casa Malfoy, pur non sapendone un accidenti di picchiata, planata e quelle altre diavolerie da poster in camera del perfetto stereotipo di figlio di Harry Potter; immaginava vagamente un punto d’atterraggio prossimo ad essa, ma temeva per il recupero di Scorpius, di cui, d’altronde, non aveva notizie da un mese. Avrebbe corso il rischio di avvicinarsi alla sua finestra, se non l’avesse visto facilmente; essere smentito dagli eventi, tuttavia, per una volta fu una piacevole ricorrenza. Era lì, immerso nella lettura di un volume – lo riconobbe come uno dei compiti che avrebbero dovuto svolgere insieme – riparato all’ombra di un salice, mentre, attraverso il fitto fogliame, il sole gli bagnava alcuni ciuffi di capelli.

“Scorpius! Andiamo, presto!”, gli intimò preservando la massima silenziosità. Fu raddolcito dal suo contegno, dall’assenza di perturbamenti che la sua sola presenza soleva provocargli: rimuoverlo da lì gli sembrava, quasi, offendere la maestosità di quella compenetrazione panica. Aveva sempre adorato osservarlo, notare i suoi tentativi – vani – di ricomporre le ciocche che inevitabilmente gli scompigliava, per la pura estasi di drammatizzarne la bellezza; eppure, in quel momento dubitò della legittimità di quella evasione, effettivamente scaturita da una sua iniziativa unilaterale. 

La timida irruenza di Scorpius nell’abbracciarlo risolse tali oscillazioni dai suoi pensieri, mentre riprendeva sgraziatamente il volo. Danzavano fra i veli celesti, Albus matto di felicità per l’aria che inghiottiva a sorsate, Scorpius leggermente pervaso dal tremore di perdere la presa dai suoi fianchi spigolosi, sebbene di nuovo così inesplicabilmente ebbro della sua risata esultante fra l’etere.

La libertà, per Albus, era solo uno spazio emerso dalla prepotenza della loro fuga, non il revitalizzante di un orizzonte con cui, al buio, orientarsi; per Scorpius, invero, era la facoltà di poter prescegliere il suo aguzzino, a cui compiutamente offrire la propria devozione.

 

*

 

“Scorpius, vedendoti così rilassato ero quasi tentato dal non disturbarti. Non dirmi che il vecchio Malfoy ti ha fatto passare dalla sua parte.”
Una volta atterrati vicino un lago non troppo lontano, la positività di Albus s’era prestata a facile decadimento: difficilmente la bramosia della sua curiosità s’assopiva alle soglie di un dubbio inesplorato, di un’emozione taciuta, di una deviazione sterrata dal percorso asfaltato.

Scorpius colse un leggero tremito nel suo tono di voce. Temeva di mentirgli, pur non volendolo. Non aveva mai ferito nient’altro che sé.

Una spiegazione, tuttavia, era debita, e l’onorevolezza Malfoy non avrebbe ammesso un simile inadempimento.

Nella sua memoria, il ricordo era ancora vivido. Il padre aveva invocato il prestigio del casato, potenzialmente infangato dalla remissività che sorvolava il figlio, per esporgli la vergogna che sarebbe montata dal suo temperamento: il suo esser escluso era la propaggine della delusione che, di Malfoy in Malfoy, la loro storia monumentale imponeva ai propri discendenti. La comprensione era scalfita dal tremore dell’impreparazione -sentimento comune ad entrambi: stretti da un reciproco e leale affetto, ma imbrigliati dall’imbarazzo dell’alterigia, dalla delusione del rimorso. La deliberazione del padre fu netta: bandito dall’abbraccio del primogenito Potter, Scorpius sarebbe rifiorito attingendo alla pura foce delle scelte paterne, senza più storture alla sua – regolare, ordinata – crescita.

La notte accoglieva i gemiti della sua maledizione, infuocandogli le palpebre, torcendogli i globi; uno spazio irriflesso lo distanziava da Albus, piangendo il nome a cui mai avrebbe potuto sacrificare il suo sangue, già prossimo alla consunzione. Gli aveva permesso di scrutare oltre la ruvida fibra familiare: divenuto uno spettro, cominciò ad infestare i suoi sogni. Eppure, aveva perfetta contezza che la propria incolumità rappresentasse l’alimento dell’impudenza tipica di un Potter, libero solo quando si tratta di aggirare, sormontare, beffare un comando esterno: nessuna foschia l’avrebbe fatto errare, fintanto che la cenere non avesse del tutto dissolto il ricordo della fiamma.

Il pensiero costante di un suo ritorno improvviso, tuttavia, progressivamente scivolò dall’ultimo brandello di rigoglio interiore, precipitando nell’antro da cui aveva cercato di tenerlo distante: persino l’amore per Albus stava marcendo, a contatto con i suoi stessi gangli, respirando il medesimo morbo che, intimamente, voleva affliggesse anche l’altro. D’altronde questi non si sarebbe sottratto – non gliel’avrebbe chiesto, in ogni caso: associare Albus alla gioia, così vergognosamente effimera, rappresentava un oltraggio. No, Albus doveva essere angoscia, disperazione, insensibilità del futuro: doveva essere reale. Doveva essere come lui, vivo e scisso da se stesso.

Se l’avesse allontanato, sarebbe divenuto inesistente.

“Sono rimasto immobile, Albus.” Scorpius era prossimo al pianto, benché la solita, prudente ironia lo celasse – quasi – perfettamente. “Volevo il tuo bene, e dubito che questo sia il tuo bene, sai.”

“Mio padre, in fondo, agiva nel mio interesse.” Era così convinto di quella giustificazione da dover implicare, talora, la propria colpevolezza: dinanzi alla mano di Albus, non sapeva più da cosa sarebbe dovuto fuggire. Mai aveva intuito la sua interezza, mai persuaso realmente della necessità di tacitare il suo naturale riverbero: le sue emozioni erano, sempre, annacquate da quelle con cui credeva di doverle comparare. Ogni movimento sfociava in un vuoto senz’orbite.

Albus ne era come orripilato e ammaliato allo stesso tempo, sempre più deciso della giustizia della sua decisione definitiva. Aggrappato con i denti ai singoli brandelli di vita, lo smarrimento in una nuvola elettronica era, per lui, la meraviglia dell’indeterminatezza: odiava le previsioni, tutto ciò che fosse meditato, masticato per esser reso digeribile. Era profondamente differente da Scorpius, sebbene uniti nell’obliterare se stessi, pur di nutrire un sentimento che potesse sospingerli alla deriva.

Albus sapeva d’aver oltrepassato la linea d’ombra fra dipendenza e desiderio. L’unica comunione realmente scevra da tumulti gli pareva essere la semplice confusione dei loro corpi, il rimescolamento costante delle loro ossa. Con lui sarebbe divenuto uno, senza avvertire l’agonizzante cupidigia della longevità: senza lasciar orme di sé, nulla li avrebbe ossificati, astretti in una visione d’insieme, asfittica perché coerente.

Scorpius guardava Albus e, senza una sola parola, leggeva nelle sue iridi fermamente contratte un mare di promesse, di libertà e di sollievo a cui, in quel momento, non riusciva a non credere e abbandonarvisi. Che importava chi avesse ragione? Il bene e l’interesse che suo padre stava facendo potevano essere sinceri: ma non sarebbero mai stati i suoi. Ora lo sapeva. Quando la mano fredda di Albus si posò sulla sua guancia, una lama sottile che gli fendeva la pelle – eppure fresca, rivitalizzante come acqua gelida –, sentì una scossa rifrangersi lungo tutte le sue vertebre. Il cordone che lo aveva legato a suo padre era prossimo a recidersi, tenuto in vita dal solo morbido afflato di un ricordo – un ricordo che Scorpius non sapeva più sostenere. Sua madre era un fantasma che non poteva più aleggiargli dentro, degenerato, deteriorandolo.
Adesso vi era solo l’istante, lì davanti ai suoi occhi, una visione che non poteva poggiare su alcuna maceria. 

Il gioco delle significazioni era pronto al crollo.

Le mani di Albus ripulirono Scorpius dalla prematura decomposizione, siglando l’eternità del presente, l’annichilimento della cronologia: in fuga e liberi, scagliarono la loro disperazione contro gli idoli del passato, strisciando ai fianchi delle loro ombre per crocifiggerle.

Il declinare del crepuscolo inglobava lo spirare del loro afflato, rapito dall'acqua opaca, marmorea del lago, sarcofago d'un futuro già rinsecchito.

“Obliviate”, echeggiò dalle loro gole già imprigionate dalla spuma, mentre le loro mani agitavano le bacchette con irreversibile fermezza.

 Lo sprofondare dei corpi turbò la superficie, sconquassandola.

 

dream, and so dream all night without a stir,
save from one gradual solitary gust,
which comes upon the silence, and dies off,
as if the ebbing air had but one wave.

 

   
 
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