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Autore: Aliisza    31/08/2017    0 recensioni
La vita di Emily non è mai stata semplice finché un giorno, un incontro fortuito, un salvataggio la cambierà per sempre. Suo malgrado si ritroverà coinvolta in fatti che vanno ben oltre la ragione. E quando il possibile non è più possibile, che cosa le rimane?
Genere: Horror, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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_MEMENTO MORI_

Prologo 

 

“I fantasmi non ci perseguitano. Non è così che funziona. Sono presenti tra noi, perché noi non li lasciamo andare via”.
“Io non credo ai fantasmi,” dissi, debolmente.
“Alcune persone non possono vedere il colore rosso. Ciò non significa che non esiste” rispose.


***
Era calata la notte da un bel pezzo, fuori solo qualche chiacchiericcio riempiva di vita le strade d Londra. Non vi era possibile scorgere le stelle, ottenebrate dalle luci e dall’inquinamento della città ma solo un piccolo spicchio di luna, che come un sorriso beffardo vegliava sui tetti grigi e spenti. La ragazza aveva accelerato il passo, muovendo piccoli passetti spediti e leggeri. La sua figura leggiadra e aggraziata, serpeggiava tra vicoli bui e maleodoranti. Ma non aveva paura, aveva l’entusiasmo tipico della sua giovane età. Se solo avesse avuto una vita migliore a quest’ora avrebbe fatto il suo debutto in società, avrebbe indossato abiti raffinati e ballato per ore e ore in ampi saloni. Era quel genere di sogni che lei e le sue amiche facevano sempre. Ma questa sera, non stava pensando a questo, no, aveva in mente solo l’appuntamento e il suo cuore scoppiava di gioia. Era innamorata per la prima volta nella sua vita e finalmente Joffrey si era accorto di lei. Non era come tutti gli altri uomini, era diverso da loro. Era bellissimo e sempre con la battuta pronta. Almeno, era così che i suoi occhi innamorati lo vedevano.
Aveva indossato il suo abito migliore, o quello buono, uno non da lavoro. Un corpetto stretto che metteva bene in vista il suo vitino da vespa, di un color blu che bene si intonava al colore dei suoi occhi con una bella gonna ampia, imbottita da altri mille strati di stoffa leggera che la teneva al caldo. I piedi affondavano in un paio di stivaletti di pelle marrone ormai usurati ma che lei aveva lucidato prima di uscire mentre Wendy, una sua amica, le aveva raccolto i capelli con maggiore attenzione seguendo un po' la moda dell’epoca. Giunse finalmente a destinazione, con il cuore martellante, era in anticipo di qualche minuto, proprio nei pressi della stazione di Farringdon.
Faceva freddo, così prese a sfregare prima le mani, poi pizzicò le guance per rendere il suo incarnato piacevole e si morse le labbra per renderle più rosse. Attese, trepidante, fantasticò su cosa dire o su cosa fare. Non si era mai ritrovata in questa situazione. Con la schiena poggiata contro un muro, finalmente i passi di qualcuno in avvicinamento poterono essere uditi. Gli occhi bruciarono i metri in poco tempo e finalmente, la figura familiare di Joffrey si fece più nitida man mano che il ragazzo si avvicina a lei. Era alto e slanciato, un po' snello per i canoni del periodo ma la bellezza del suo volto equiparava tutto il resto. Tratti affilati, si mischiavano ad una carnagione chiara, incoronati da un paio di occhi verde giada. I capelli scuri erano ben pettinati mentre il corpo era avvolto da un completo scuro come la notte. Aveva il fascino del proibito, soprattutto per lei che nonostante tutto non aveva perso la purezza della sua anima.
«Milady, perdonatemi per il ritardo!», disse il giovane dopo essersi fermato davanti alla biondina con un inchino recitato. Strinse la bocca in un sorriso vagamente mellifluo mentre lei si ritrovò a sorridere di rimando con lo stomaco in subbuglio per l’emozione della sua vicinanza.
«Smettila di prendermi in giro!», commentò la ragazza, mantenendo sempre un sorriso divertito, giocavano sempre in questa maniera, ma lo trovava sempre divertente.
«Allora dove mi porti?» chiese facendo scivolare il braccio intorno a quello di lui e presero a camminare con calma, uno accanto all’altra quasi come una coppia sposata. Nessuno avrebbe potuto dire il contrario, solo loro due conoscevano la verità. Lei fantasticava già di cambiare vita, di ricominciare altrove, in un altro quartiere dove nessuno era a conosceva del suo mestiere. Lontano da Madame Francine e dal suo postribolo. Sospirò piano mentre Joffrey indirizzava con il corpo la giusta via da seguire, pressando appena verso destra in un piccolo viottolo malconcio.
«E’ una sorpresa!», commentò il damerino con quel suo fare eccentrico e carismatico mentre presero a chiacchierare per minuti e minuti, che volarono rapidamente per entrambi. Si addentrarono in una via sempre più stretta e silenziosa, dimenticata da dio, immersa nell’oscurità e qualcosa cominciò a destare nella fanciulla dei sospetti. Un vago senso di disagio provocato forse dalla situazione, il suo sesto senso le parlava ma nella sua fiducia e nella buona fede non immaginava ciò che stava per accadere.  «Eccoci», disse Joffrey arrestando finalmente il suo passo. Si guardò intorno e poi poso gli occhi verde giada sulla ragazza che con un sorriso appena divertito prima osservò quello che circondava loro e poi tornò su di lui nel finale.
«Arrivati? Ma qui non c’è nulla», rispose la giovane donna sempre con quel campanello d’allarme acceso ma pregna di un’ingenuità che potrebbe segnarla per sempre. Fu proprio dopo aver detto queste parola che dall’ombra emersero due altre figure che a fatica riuscì a mettere a fuoco, solo quando furono a meno di due metri da loro identificò la loro figura. Erano Jared e Garret, due amici di Joffrey che bazzicavano spesso al postribolo, non era la prima volta che li incontrava. Lei prese ad osservarli, con quei loro sorrisi taglienti, i denti gialli e lo sguardo carico di un desiderio malsano, qualcosa che seppe riconoscere molto bene. Fece un passo indietro, cercando quasi riparo affianco al suo amato. Il cuore le martellava nel petto, strinse la bocca, strinse i pugni ma non si mosse, un lungo brivido attraversò tutta la sua schiena trafiggendola come una lama ghiacciata.
«Perché sono qui?», domandò in direzione di Joffrey alzando lo sguardo con fare quasi impaurito mentre l’altro la cingeva con una mano, facendola scivolare intorno alla sua vita per tenerla vicino a sé.
«Non aver paura, ci sono io qui con te», ammise candidamente Jeoffrey mentre con un colpo veloce della mano, provò a liberare il corpetto, tirando via i lacci senza troppe cerimonie. Jared e Garret le furono addosso subito dopo, ma con il chiaro intento di divertirsi, di giocare, di spogliarla poco alla volta, strappandole lembi di stoffa a suon di risate.
Il risveglio alla realtà fu un vero shock per la ragazzina, che prima alzò sorpresa lo sguardo verso il ragazzo con cui sognava di condividere un futuro e poi, sopraggiunge il terrore. Prese a dimenarsi, provò a spingere il primo che le capitò sotto mano, calciando e provando persino a scappare. Ma in tre l’avevano praticamente circondata e si divertirono ancora, strappando ancora della stoffa, allargando il tessuto rigido del corsetto, tirandole i capelli mentre lei prese a gridare. Le lacrime invasero presto i suoi grandi occhi azzurri. Perché doveva capitarle anche questo? Non aveva già sofferto abbastanza?
«Noo! Vi prego, lasciatemi andare!», mugugnò con il volto bagnato mentre veniva spinta da una parte all’altra, prima uno, poi l’altro, mentre continuavano a fissarla, deridendola, schernendola ma in effetti non avevano ancora fatto nulla se non impaurirla e strappandole i vestiti.
«Stai zitta, puttana!», le parole più offensive giungevano proprio dal suo amato. Ma l’amore finì del tutto, si cancellò in quel momento, e prese ad aver il sapore salato delle sue lacrime. Si sentì persa e più sola che mai. Chi mai avrebbe potuto aiutarla? Una prostituta poi. Schiacciò il piede di Garret, che per un momento abbassò la guardia, si spostò lateralmente imprecando e lei con uno scattò si fiondo in avanti, spingendolo e correndo via velocemente. Cercò di muoversi in direzione della stazione mentre dietro di lei sentiva il trio che la inseguiva, ma continuavano a ridere. Era tutto un gioco per loro. Chiamavano il suo nome, la chiamavano “puttana” in continuazione ma lei non ci badò, provò in tutti modi a farsi spazio a scivolare oltre le ombre che forse per una volta l’avrebbero aiutata. Si sentiva cacciata, braccata, una preda inseguita da un branco di lupi. Lei era l’agnello che andava immolato. Correva, tirando su la gonna, piangendo silenziosamente mentre troppo intenta a respirare a fatica, a divorare con la bocca l’aria gelida di quella sera ove la falce di luna ormai sovrastava tutto quanto.
«Aiuto! Aiutatemi, vi prego!» continuava a ripetere, alzando la voce, deformata per via del terrore. Gli altri tre che continuavano ad inseguirla, tra i vagoni vuoti e dormienti, facevano eco alle sue richieste, continuavano a prenderla in giro, ridendo come dei bambini innocenti. E quando le gambe della ragazza cominciarono a stancarsi, a cedere per via della corsa interminabile, non ce la fece più e inciampando si ritrovò a caracollare verso il basso, impattando in avanti e cercando di attutire un minimo la caduta con le mani. I palmi si sbucciarono, buona parte di pelle venne logorata con violenza ma quanto meno non sbatté la testa. Non aveva più forza, era allo stremo. Stanca e con il volto pasticciato dalle lacrime, sentì i tre ragazzi rallentare, cominciarono a camminare lentamente mentre lei ansimava. Guardava avanti, poi ancora indietro.
«Stiamo arrivando per te, piccola», era sempre Joffrey a parlare, era lui il capo, colui che aveva ideato il piano «Dai, ti daremo un po' di vantaggio. Alzati e scappa… », disse un altro che al momento, per lei aveva perso di importanza. Provò a strisciare mentre gli insulti giungevano alle sue orecchie, loro camminavano lentamente, mettendo con calma un passo dietro l’altro, sapevano di avere la vittoria a portata di mano. Lei dal canto suo, ormai aveva smesso anche di strisciare, non aveva più forze. Aveva solo le lacrime e la paura che stringeva tutto il suo corpo, avrebbero giocato con il suo corpo e poi l’avrebbero uccisa. Sapeva come girava il mondo, se fosse sopravvissuta avrebbe parlato, e Madame Francine avrebbe di certo preso provvedimenti per quello che le era stato fatto. Dopotutto, le apparteneva. Chiuse gli occhi, sentiva i loro passi farsi sempre più vicini, cominciò a pregare, ripetendo come una nenia l’unica preghiera che avesse mai conosciuto. In un latino volgarizzato, ripeteva a voce bassa, mentre ancora lacrimava attendendo il suo destino ormai con rassegnazione. La terra era fredda, ma non quanto il gelo interiore che provava in questo momento. Come poteva essere stata così cieca? Così stupida? Continuò a pregare ma improvvisamente sia i passi, sia le voci dei tre cessarono improvvisamente. Ebbe quasi timore che stessero per saltargli addosso ma con un timore sempre crescente, trovando un po' di coraggio, aprì gli occhi a fatica, le palpebre si sollevarono e abbassò il volto in direzione del trio. Erano immobili come statue di sale, gli occhi sgranati, la bocca tesa, avevano paura, poteva leggere il timore nei loro sguardi. Una sensazione di freddo cominciò ad avvolgerla, ma era un gelo diverso, qualcosa che non aveva mai provato prima d’ora, che si insinuava sotto pelle e risvegliava in lei paure primordiale. Cominciò a tremare con maggior vigore, rimase immobile per qualche istante, deglutì e con altrettanto coraggio provò a muovere il capo, indirizzandolo davanti a sé, all’altezza del terreno. Ma prima che potesse girarsi del tutto, mettendo a fuoco la presenza percepita alle sue spalle sentì il freddo crescere dentro di lei, domarla del tutto. Il suo corpo ebbe un forte sussulto che non riuscì a sostenere e perse i sensi subito dopo.
Cadde in un sonno privo di sogni, un torpore oscuro che la tenevo in bilico ma poco alla volta, una voce prese a chiamarla. Sentiva una voce preoccupata, qualcuno che la stava sostenendo e il tepore del contatto di due corpi assai più piacevole del gelo provato prima. Aprì gli occhi a fatica, le palpebre sembravano pesanti serrande di ferro, tirò un lungo respiro che era simile al primo vagito emesso alla nascita. Era viva. Non sapeva come ma era viva. La vista era appannata, dovette sbattere le palpebre diverse volte, prima di cominciare a distinguere le macchie variopinte e scure che sitavano sopra la sua testa.
«Come vi sentite?», il tono gentile raggiunge le sue orecchie e gli occhi azzurri della ragazza riuscirono finalmente a mettere a fuoco la figura elegante del gentiluomo. Erano un altro paio di occhi azzurri che si ritrovava a fissare, più profondi dei suoi e incastonati in un volto giovane e dai capelli scuri e appena disordinati. Sbatte le palpebre lentamente, la gola era arida e bruciava per le urla. Mosse la bocca carnosa delicatamente, con fatica e provò a parlare non riuscendoci in un primo momento.
«Io sono un medico, mi chiamo Quentin Mason», disse continuando a parlare mentre la osservava, nella speranza che riprendesse del tutto i sensi. La sollevò, la prese in braccio e con calma cominciò a costeggiare uno dei binari della stazione, dei tre non vi era più alcuna traccia.
La ragazza deglutì ancora una volta, e con tutta la forza che aveva in corpo riuscì a formulare la prima frase di senso compiuto. «Emily» proferì «Mi chiamo Emily», respirò ancora e poi si tranquillizzò, non riuscì ad aggiungere altro, per il momento, era provata da tutto e c’erano diverse ammaccature nel suo corpo che andavano sistemate.
«Molto bene Miss Emily, vi riporto a casa.», la voce di Quentin fece eco nelle orecchie della ragazza. Lei annuì in silenzio, con il volto ancora bagnato dalle sue lacrime e con la consapevolezza che il medico aveva coperto il suo corpo con il proprio soprabito. Fu così che la portò a casa sua per visitarla, e da allora, Emily non lasciò più la casa del dottore.

 

 
Appunti: Memento Mori non è altro che la trasposizione scritta di un’avventura cartacea nel quale io e miei amici ci ritroviamo coinvolti. E’ un racconto tratto dalle nostre giocate e la protagonista Emily Jenkins, non è altro che il mio personaggio. Alcuni personaggi che verranno presentati nei prossimi capitoli non sono altro che i restanti protagonisti giocati dal mio gruppo di gioco di ruolo. La trama principale è comunque, inventata e ispirata all’epoca vittoriana ma con delle sfumature steam-punk e sovrannaturali. Questo periodo storico non segue con esattezza il nostro passato, poiché, come andrete a leggere, è più che altro un mondo parallelo dove ci sono stati dei grossi cambiamenti. Cambierò alcune parti per rendere la narrazione più scorrevole, però mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate. 
Guida all'ambientazione: Londra, anno di grazia 1860, la regina Vittoria è salita al trono 23 anni fa. 
Dopo qualche anno dalla sua incoronazione, la Regina decise che nessuno sarebbe potuto più uscire dalla città senza il suo permesso, furono innalzate delle mura proprio per questo motivo. Con il passare degli anni, la situazione andò a peggiorare, degli strani marchingegni con le eliche vennero posizionati in cima alle mura e la loro funzione era quella di respingere una strana nube nera che tentava di insinuarsi all'interno della città. Ormai solo alle guardie era permesso uscire, la sovrappopolazione di Londra cominciava a diventare un problema grave, le persone arrivavano ma non potevano più andare via. Qualcuno tentò di fuggire di nascosto, ma la Regina iniziò a far giustiziare pubblicamente chi tentava l'impresa, ormai quasi nessuno ci prova più da anni. La popolazione presa dai propri problemi personali, si adattò e da qui, da queste grandi mura, al suo interno, comincia la nostra storia. 
Cast del Prologo: Emily (Dakota Fanning), Joffrey (Harry Lloyd) e Dottor Quentin Martin (James Mcavoy). 

 
 
  
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