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Autore: Crissy_Chan    31/08/2017    5 recensioni
"La strega riuscì a fuggire nel bosco, maledicendo gli abitanti. Da allora, chiunque cercasse di catturarla, non faceva più ritorno. Oppure, se tornava, moriva nel giro di poche ore per il poco sangue che gli rimaneva in circolo. La città venne dunque chiamata "Scary City" e col tempo gli abitanti se ne dimenticarono. Ma ricordiamoci che la strega è immortale e detesta essere ignorata"
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Non ci posso credere... ti sei addormentato di nuovo per terra, razza di figlio degenere!» una donna stava in piedi davanti a lui, con le mani sui fianchi e le sopracciglia nere aggrottate.

Ma che ...?” Non aprì subito gli occhi. Dovette aspettare una manciata di secondi per capire quello che stava succedendo o, più che altro, rendersi conto del punto esatto in cui si trovava sulla faccia della Terra.

Schiuse gli occhi, ma un raggio di sole, troppo forte per i suoi gusti, glieli serrò. Sbatté le palpebre più volte, abituandosi alla luce e realizzò di trovarsi in camera sua. Notò delle ciabatte rosso scuro a pochi centimetri dal viso e diresse lentamente lo sguardo verso l’alto, incrociando due occhi verdi e furibondi che lo guardavano in cagnesco. «Mamma...» borbottò. Aprì bocca per dire altro, ma la stanchezza prevalse e la richiuse.

La donna alzò un sopracciglio. I secondi, o forse addirittura minuti, passarono silenziosi. Impaziente e con i pugni stretti sui fianchi, cominciò a battere ritmicamente un piede contro il pavimento in parquet. «Se continui a spingere il viso a fare quelle pieghe innaturali, ti verranno tante rughe» la incalzò il ragazzo, mentre tentava di issarsi su a sedere. Lei lo guardò storto, offesa, ed incrociò le braccia restando immobile.

Deve aver dormito di nuovo sul pavimento, come da piccolo. Un braccio addormentato gli impediva di sostenersi e, per non cadere, fece affidamento ai piedi del letto, appoggiandovi la schiena. Sentì freddo e si rese conto di essersi appisolato senza coperta, ancora. Intorno a lui giacevano mucchi di vestiti accatastati e oggetti alla rinfusa. Se non fosse stato per il disordine, il parquet in legno scuro ne sarebbe stato altamente felice.

La madre emise un sonoro sospiro e chiuse gli occhi con fare di rassegnazione. Gli occhi blu scuro del ragazzo ricaddero sui capelli neri e lucenti della madre, si spostarono sul suo viso, molto curato, dalla pelle candida. L’avrebbero potuta quasi scambiare per uno di quei vampiri di Twilight se non avesse avuto quelle guance rosse, che davano vitalità.

«La colazione è pronta, datti una mossa» il suo tono era apparentemente freddo e distaccato ma, chiunque la conoscesse, sapeva che dietro si nascondeva un certo affetto e calore materno.

Il ragazzo fece una smorfia e si distese sul pavimento supino, sbuffando.

«Come desideri» la donna lasciò la stanza, chiudendosi dolcemente la porta alle spalle.

Dorian sbadigliò. Si strofinò gli occhi per una manciata di secondi e si alzò in piedi, cercando di riprendere l’equilibrio. Dato il dolore alla zona lombare, dedusse che quella notte aveva dormito davvero poco e male, molto male. Fece una smorfia ripensandoci.

La sua stanza era molto semplice, un letto abbastanza grande per due persone, anche se ci dormiva soltanto lui, un armadio in acero di fronte al letto, una tavolo in stile vittoriano che usava come scrivania e che sua madre aveva ripescato in uno strano negozio di antiquariato, una sedia girevole e i poster dei Muse. Alle finestre erano state messe delle tende semitrasparenti color carminio, che rimaveano immobili.

Una musichetta appena percettibile cominciò ad invadere la stanza. Dorian inarcò un sopracciglio, cercando di capirne la provenienza. La versione strumentale di The Real Slim Shady si fece sempre più intensa. “Il cellulare” pensò tranquillo. “Il cellulare!” si agitò e, realizzando la situazione, si lanciò in ginocchio per terra. Camminò a carponi fino alla pila di vestiti e vi rovistò poco garbatamente, gettandosi indietro gli indumenti che capitavano a tiro. Circa a metà del mucchio, prese un paio di jeans sbiaditi e ripescò il cellulare dalla tasca posteriore. Lo mise all’orecchio e premette un bottone a caso, sperando con tutto il cuore che fosse quello che avrebbe avviato la chiamata.

«Sì?» non controllò il numero.

«Finalmente» rispose una voce femminile e Dorian si rilassò, era il pulsante giusto. Si sentivano ruggiti e rumori strani in lontananza. Aggrottò la fronte.

«Idiota!» sbraitò la ragazza dall’altro capo del telefono. Sparo.

Ma che... ” Dorian sgranò gli occhi sorpreso. «Eve!» la chiamò, la calma stava svanendo lentamente.

«Ti sei dimenticato di oggi!» lo sgridò. Un altro sparo.

«Dimenticato cos...» fece una pausa, come se fosse arrivata l'illuminazione divina anche per lui e mimò un “Oh no” con le labbra. «Sto arrivando!» col telefono ancora all’orecchio, si alzò di scatto, rischiando di scivolare. Andò verso l’armadio e ne aprì un'anta: era vuoto, se non per qualche calzino appeso a caso. Schioccò la lingua e si diresse verso il mucchio di vestiti, recuperando una maglietta a caso e i jeans sbiaditi di prima. Li buttò sul letto, si tolse la maglia del pigiama e la scaraventò a terra, infilandosi la t-shirt nera con la stampa dei Guns N’ Roses e liberandosi dei pantaloni del pigiama.

«Fai presto, essere!» Eve chiuse la chiamata e Dorian corse velocemente giù per le scale, cercando di infilarsi i jeans e rischiando di cadere in avanti più volte. “Merda!” all’ultimo gradino si era visto la fronte impalata contro l’attaccapanni del corridoio.

Con passo felpato, arrivò in cucina. Sul tavolo rotondo di legno al centro della stanza c’era una tovaglia bianca di pizzo e in mezzo, sopra un centrino blu scuro, c'era il cesto con i croissants appena sfornati dalla madre di Dorian. La sorella, capelli castani corti fino alle spalle, sopracciglia nere alte e grandi occhi ambrati, scrutava curiosa il fratello. Indossava una camicetta rossa larga sbottonata sul petto e, mantenendo lo sguardo su Dorian, affondò i denti in un croissant.

Il ragazzo si guardò intorno alla ricerca di qualcosa da mangiare al volo e quando adocchiò la cesta di pandolce, sorrise sghembo. La madre gli dava la schiena, intenta a versare del latte in un bicchiere sul pianerottolo della cucina, vicino ai fornelli. Diversamente da prima, aveva i capelli corvini legati in uno chignon disordinato e tenuto su da un bastoncino bianco. Prima che lei potesse fermarlo o dirgli qualcosa, il ragazzo corse verso l’ingresso. «Oggi è sabato! Non rimani a fare colazione?» domandò a voce alta, in modo da farsi sentire.

La risposta che ottenne fu lo sbattere della porta. Sospirò, andando verso il tavolo con il bicchiere. “Adolescenti” pensò tra sé e sé. La sorella emise un risolino simile allo squittio di un roditore e finì di mangiare il pandolce.

Dorian uscì dalla porta verde scuro di casa, scese i gradini davanti e sé e girò automaticamente alla sua sinistra. Attraversò una piccola porzione di giardino e si diresse verso il portone avorio del garage. Per fortuna era già aperto ed evitò, quindi, di rientrare in casa per prendere le chiavi e dare spiegazioni alla madre.

Entrò, scansando agilmente alcuni oggetti di falegnameria che suo padre aveva agganciato al soffitto e raggiungendo la parete in fondo, su cui era adagiata la sua mountain bike blu che, con uno scatto, staccò dal muro, montandoci sopra.

Come caspita ho potuto dimenticarmene?” si rimproverò da solo, imprecando più volte. Uscì dal garage pedalando e attraversò la sua via. Quasi tutte le case erano di mattoni stile inglese, con ampie finestre al piano terra. Dorian pedalava furiosamente veloce e aveva attraversato tre isolati. Deviò direzione con impeto e si inoltrò in un sentiero di terra battuta. Il vento non era forte, ma dava una sensazione di freddo sulla pelle umida di sudore per lo sforzo.

Il cielo era sereno, con alcune nuvole candide e il sole gli picchiava contro. Quando l’aria smetteva di soffiare ne sentiva il caldo e si maledisse per aver dimenticato gli occhiali da sole. Percorse un sentiero molto lungo, ai cui lati c’era del terreno riservato alla semina su cui giacevano delle balle di fieno immobili. A un certo punto si aprì un bivio: uno portava verso campi incolti e colline, l’altro verso un bosco molto fitto.

Si fermò e gli venne un brivido. Il bosco in questione era quello che si trovava nel cuore della città, ed era noto per le sue attività paranormali. L’articolo della settimana scorsa sul giornale locale citava uno dei tanti casi: una bambina, secondo due testimoni oculari, stava tranquillamente giocando con la palla facendola rimbalzare davanti a sé, quando, improvvisamente, il giocattolo deviò la traiettoria, rimbalzando da solo verso il bosco come se fosse stato attirato da un magnere. La bambina, pensando fosse stato il vento, la rincorse entrando nella selva, senza però uscirne. I genitori erano tutt'ora disperati.

Mia sorella conosceva quella bambina, gli aveva fatto da baby-sitter” gli si accapponò la pelle al pensiero. Deglutì e mise un piede sul pedale destro, alzato rispetto all’altro. Sospirò e premette il piede facendo partire la bici, scomparendo nella fitta boscaglia.



 

Salve salvino! Eccomi qui con una nuova storia.
Ringrazio voi reduci di questo capitolo! Grazie per essere arrivati fino a qui!!! Colgo l'occasione per dire che ho iniziato a scrivere questo racconto qualche anno fa, ma mai contenta del risultato, ho lasciato perdere. L'ho ripreso in mano di recente e ho cercato, ripeto, ho cercato, di affinare la mia tecnica di scrittura e renderlo più leggibile, si spera ahahah ;)

Mi presento per quelli che non mi conoscono, sono Cristina e ho una fantasia infinita. Ho parecchie idee e una tastiera del computer che prima o poi prenderò fuoco dalla velocità con cui scrivo.
Ma a parte i dettagli. Per favore recensite! Le vostre critiche mi aiutano a formarmi e a crescere, sono importantissime per me!
Datemi i vostri pareriii *voce da fantasma*. Plizzz...
Al prossimo capitolo :)

Cri

   
 
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