Carugi, strette vie che salgono ripide
lungo le costole e poi il tronco di questa piccola città.
Angusto e umido anfratto di mare
che ospita la mia persona
per ormai pochi giorni dell’anno solare.
Gradini.
Ampi gradini scorrono sotto i miei piedi
come tasti di un pianoforte sotto le dita di un abile musicista.
Uno dietro l’altro,
cadono come tasselli del domino
al primo tocco di un bambino che gioca.
Accelero il passo,
necessito correre su queste pietre sconnesse,
invecchiate, povere di cura ma
ricche di muschio, polvere antica, sangue, piscio e acqua torbida.
Veloce ormai salto quei gradini.
Non percepisco la fatica del cuore che,
battendo per lo sforzo, infame mi divora la bocca dello stomaco.
Nei polmoni il respiro si fa affannato,
irregolare vive in me.
Gocce di sudore cadono lungo la spina dorsale
come la condensa su un bicchiere ghiacciato.
Ricaccio i pensieri della serata che,
spietati e inflessibili, mi inseguono alle spalle.
Risalgo in cima al vecchio quartiere per raggiungere
quella camera che non mi appartiene,
quel luogo in cui sono perenne ospite,
quel letto scomodo che mi distrugge le ossa ogni volta che vi giaccio
ma sul quale sento il bisogno di scrivere queste parole vane,
su un foglio sterile, in una malinconica notte d’agosto.