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Autore: None to Blame    01/09/2017    1 recensioni
​Questa è la storia intima di una ragazza senz'anima e del suo ritorno alla vita.
 
"Take me back, Josephine,
To that cold and dark December
I am missing someone but I don't know who. 
Now I'm standing alone and I'm trying to remember,
Sometimes I wonder how I ever started loving you"
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Giorno 3
 
 
 
Brandon è uno skater. Non credevo esistessero davvero al di fuori delle pubblicità e dei programmi trash sugli sport estremi. Quando T. mi ha invitata ad uscire con loro perché “Brandon si esibisce al parco” pensavo più ad uno strimpellatore di motivetti indie con ai piedi un cappello pieno di spiccioli. E invece va su e giù per questa pedana da un quarto d’ora, insieme ad altri tre ragazzi, con uno skateboard lercio che una volta dev’essere stato verde. Sono talmente bravi che mi sento quasi a mio agio in questa situazione.

« È sorprendente! » esclamo, mentre Brandon salta e fa evoluzioni come se fosse senza peso. Wyatt mi sorride e T. applaude entusiasta. Sta guardando Brandon come io guardo il salame di cioccolato. Purtroppo Brandon ha iniziato a pattinare solo quando ha visto arrivare una bella biondina con l’aria da cheerleader, ed è chiaro che si sta esibendo per i suoi occhi. A guardarla bene potrebbe effettivamente essere una delle nostre cheerleader, ha un volto familiare.
Come d'abitudine, prendo il telefono dalla tasca per controllare Facebook, ma quando le mie mani si stringono intorno all’ingombrante pezzo di antiquariato che mia madre mi ha rifilato esalo un grugnito di frustrazione. Wyatt ridacchia. Lui trova divertentissima la punizione. T. invece crede che sia del tutto fuori luogo e che per quello che ho fatto meriterei una fornitura a vita di muffin al triplo cioccolato – e se non lo farà mia madre ci penserà lei stessa, portandomene uno da mangiare a pranzo ogni giorno finché lo riterrà necessario. Devo ammettere che questa è una delle cose migliori che mi sono capitate finora.
Mentre scavo fra i denti alla ricerca di qualche residuo di cioccolato, il cellulare dell’anteguerra squilla.


Chiamata in arrivo…

Papà


Clicco sul tastone rosso e lo schermo torna scuro. Traccio il profilo dell’apparecchio con il pollice riflettendo sulle mie possibili scelte per l’immediato futuro. Lentamente mi alzo e mi metto la borsa a tracolla.

« Non dirmi che te ne vai! » strilla T.

« Devo tornare a casa. »

Non ho scelta, le spiego. Le lamentele di T. mi fanno tentennare appena, ma poi rinsavisco e saluto definitivamente, facendo cenno da lontano anche a Brandon.

La folla intorno alla pista di pattinaggio è aumentata e riconosco vagamente le figure di persone che ho intravisto a scuola, ma è ancora troppo presto perché riesca a riconoscerli. Mi impegno a non incrociare lo sguardo di nessuno, tenendo la testa bassa e camminando a passo svelto. Mi stanno già aspettando. Non dovrei comunque metterci più di cinque minuti ad arrivare a casa. Non che abbia fretta, certo.
 
 
 
 
 
 

Mio padre mi ha regalato una borsa. Pelle morbida, viola chiaro, una stella di paillettes opalescenti che pende dalla cerniera. Mi ha accolta in casa – casa mia, casa nostra – con una gran risata divertita, quasi cattiva, si è lamentato del mio ritardo e della mia giacca (« Un po’ da maschio, non trovi? »), e subito mi ha rifilato un pacchetto mal incartato. « Non mi piace » gli ho detto una volta aperto. L’ho richiusa nella carta e gliel’ho restituita, ma lui non l’ha voluta. « Non fare la permalosa » è stata la sua risposta. Avrei potuto sbattergli il regalo in faccia. Sapevo che avrebbe sminuito le mie reazioni, che si sarebbe preso gioco del mio stato d’animo.
Crede che lo faccia apposta, che sia solo un capriccio da ragazzina.

« Gianna, vai nell’altra stanza, per favore » era poi intervenuta mia madre, impedendomi saggiamente di fare una scenata.

Ma io non sono diplomatica, perciò prima di chiudermi la porta alle spalle ho dovuto dire la mia.

« Perché la borsa non la dai a Katie? Scommetto che a lei piacerebbe. »

Ho visto la mia sorellastra solo nel paio di fotografie che mi ha mostrato zia Nina. Katherine. Una splendida bambolina bionda. In una foto aveva il volto ricoperto di marmellata e il sorriso più spensierato del mondo mentre tendeva la manina grassa verso la telecamera, reggendo una fetta di torta spappolata. Un’altra la ritraeva più piccola, che sbadigliava fra le braccia di mio padre, entrambi stanchi, beati e felici.
In nessuna delle nostre foto sorride in quel modo.

Mio padre ci ha sostituite. Si è costruito un’altra famiglia. Io non posso sostituirlo, non posso trovarmi un altro padre, ma ho tutto il diritto di eliminarlo dalla mia esistenza.

Non ho ancora acceso la luce e la camera è nel buio più assoluto – grazie alle mie nuovissime tende, il primo oggetto di arredamento che ho acquistato. Riesco a sentirli parlare, al di là della porta. Hanno toccato già gli argomenti più scottanti (avvocati, tribunale, la banca e, ovviamente, « Come fa Gianna a sapere di Katherine? »), e adesso è l’ora dei pettegolezzi. Mrs Whitehill, che abita di fronte al nostro vecchio appartamento, è stata informata dei motivi della separazione da chissà chi e sta spargendo la voce. È in corso una sorta di ostracismo nei confronti di mio padre – bene – e una donna gli ha urlato « Porco! » mentre era in auto. Mamma gli consiglia di trasferirsi. Lui ha già messo in vendita la casa. Con tono più basso parlano di come e quando comunicarmelo. Fatica sprecata: non ho più alcun interesse nei confronti della vecchia casa, della vecchia città, della vecchia vita. La vendessero pure, non m’importa.

« Ho incontrato Rachel con la madre » dice lui ad un certo punto.

Mi si gela il sangue nelle vene.

« Era solo un taglietto » spiega « le hanno messo un punto ma non pareva neanche necessario. Alla fine gliel’ha fatto il braccialetto di Gianna. »

Non un braccialetto, papà, era il mio orologio. L’orologio del nonno, un po’ rovinato, col cinturino tutto in metallo che ha strappato la pelle dal mento della mia migliore amica.

« Rachel è sempre stata una delicatina » commenta mia madre.

« In ogni caso, mi hanno raccontato alcune cose. »

« Cosa? »

« Cose che non mi sono piaciute. Ho deciso di mandare Gianna da uno psicoanalista. »

Sento distintamente mia madre sibilare un « Ma vaffanculo » in risposta.

« Ti prego, Maria, pensaci. Hai visto cosa sta diventando. Non ci si può più ragionare, ho paura che le stia succedendo qualcosa. Io voglio solo evitare che mia figlia venga su ancora più strana. »

Segue un rumore secco che non riesco a distinguere.

« Pensa all’altra tua figlia. Con Gianna me la vedo io. »

Non voglio più ascoltare.
Mi rialzo da terra a fatica pulendomi i jeans dalla segatura che ricopre i pavimenti da una settimana. Afferro il telefono e scorro in rubrica fino a trovare il numero di Rachel. Resto a fissare le lettere, mi rigiro il suo nome fra le labbra – Rachel, così familiare. Premo i pulsanti per una buona decina di minuti, cancellando e riscrivendo le stesse parole.
 

Mi dispiace. Non doveva andare così.
G.

 
Lo invio, un po’ intimorita. Non doveva davvero andare così.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
23.57
Cancella il mio numero e non farti MAI PIÙ sentire, altrimenti ti denuncio.
R.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Giorno 4
 

Ernie ha spaccato la faccia a qualcuno. Sto ancora cercando di vederci chiaro. Girano parecchie voci: la vittima è Simon, il ragazzino disabile del terzo anno che guida una Bentley rossa; la vittima non è Simon ma Vincent Carter, matricola figlio di un famoso avvocato o quel che è; la vittima è in realtà una ragazza; la vittima è ignota, ma è certo che ha la faccia ridotta male e ha il naso/mandibola/cranio rotto. Altra cosa certa: la lite è nata a causa di un parcheggio sbadato che ha strisciato la preziosissima automobile di Ernie. Il futuro di quest’ultimo è altrettanto certo, tutta la scuola scommette sulle settimane da scontare di sospensione.
Almeno ho scoperto il suo nome per intero – Ernest Jacob King.

Mi aspettavo che T. gioisse, e invece la trovo piuttosto indifferente alla notizia. « Prevedibile » il suo unico commento.

Le lezioni in questa scuola sono facili da seguire. Gli insegnanti del vecchio liceo erano bruschi, la loro preparazione mediocre, mentre il professor Grime, qui, è un concentrato di comicità. Non ho mai amato lo studio. Sono un tipo di persona che apprende in modi non convenzionali, perlopiù autonomamente, e trovo complicato seguire costantemente un programma. In ogni caso me la sono sempre cavata, tra alti e bassi.

Questa è fra le poche cose che la mia famiglia non può recriminarmi.

« …schifosa… »

Ho una media discreta.

« …una figlia strana… »

Passabile.

« …Rachel mi ha detto… »

Appena decente.
 
 
 
 


Parlano tutti di Ernie. E di Vincent Carter, la vittima confermata dai professori. T è ancora in silenzio. Per me è prematuro cercare di capirne il motivo solo sulla base di questi quattro giorni di conoscenza, perciò tocco piano il braccio di Wyatt indicandogli la sua amica. Lui scuote la testa. È Brandon a intervenire.

« T, che cavolo c’hai da stamattina? » le chiede. Lei sobbalza come se fosse stata punta e lo guarda spaventata, ma non risponde. « Allora? » rincara lui.

« C’entra Ernie? » ho fatto centro. Mi guarda quasi sofferente. Wyatt le prende la mano, rassicurandola. T sembra calmarsi, ingollando una sorsata di succo di mirtillo.

« Ho strisciato io la macchina. »

La reazione iniziale è di sgomento, poi Brandon inizia a ridere sguaiatamente attirando l’attenzione dei tavoli vicini. Quando finalmente tace chiedo a T. perché l’abbia fatto.

« È uno stronzo. »

« Ma tu vieni con l’autobus » le dice Wyatt.

« L’ho rigata con le chiavi. »

Sospirando, mi abbandono contro lo schienale della sedia. « Devi dirlo alla preside. O al tutor. A qualcuno. »

« Ma così quel pazzo le romperà i denti! » protesta Wyatt.

« Ha già sfogato la sua frustrazione sul naso di Vincent. È salva. »

« Non se ne parla proprio! Ernest è pericoloso! »

« È un ragazzino a cui non è stato insegnato l’autocontrollo. »

« Appunto, reagisce come vuole! Potrebbe arrivare a picchiare Tallulah! »

« Perché? »

La domanda non viene dal nostro gruppo. Mi giro e in piedi accanto al nostro tavolo c’è la ragazza di Ernie. Non l’avevo ancora vista così da vicino.

« Perché Ernie dovrebbe picchiarti? » dice rivolta a T, che è troppo intimorita ormai per rispondere. « Hai visto qualcosa? Stamattina? » incalza.

« Non sono affari tuoi » mi sento rispondere. Maledico quelle parole nel momento esatto in cui hanno lasciato la mia lingua. Tengo gli occhi bassi aspettando la sfuriata ma non succede niente. La ragazza si limita a fissarmi col sopracciglio inarcato e, forse mi sbaglio, c’è una leggera punta di divertimento nei suoi occhi.

« Gianna, giusto? La tizia nuova. »

Ora che mi sta guardando non riesco a smettere di fissarla. La folta capigliatura è tenuta su da un fermaglio, le ciocche ribelli danno alla sua testa la forma di un carciofo aperto.

« Loro sono incapaci di essere obiettivi » dice, indicando Wyatt, T e Brandon « ma tu sei appena arrivata, non hai ancora pregiudizi e quindi spero che tu sia in grado di ragionare. »

Quando parla i riccioli ballonzolano intorno al suo volto, come a enfatizzare le sue parole. È la ragazza più bella che abbia mai visto. Non mi sorprende che stia con il quarterback.

« Ti spiego una cosa semplice semplice: se Tallulah ha visto qualcosa di diverso dalla versione ufficiale dovrebbe immediatamente riferirlo alla preside… »

Wyatt è accigliato: « Ma– »

« …perché sia Vincent che Ernie » continua lei imperturbabile, senza staccare gli occhi da me « rischiano grosso, un bel po’ di soldi, il college e magari pure la fedina penale, per una stronzata come una strisciata su un’auto, e se lei sa qualcosa che può aiutarli deve parlare. Oppure lo faccio io. »

Sono leggermente stordita. Avrei reagito meglio ad una lite, invece lei è stata decisa senza essere aggressiva. Mi ha fregata. « Va bene » è l’unica risposta che riesco a tirar fuori. Sembra che le basti, così accenna un sorrisetto a me e lancia uno sguardo d’intesa a T; quindi torna al suo posto.

Wyatt inizia ad imprecare fra i denti, snocciolando un epiteto sessista dopo l’altro. Brandon ha abbracciato T, ma lei non sta piangendo. Sul viso coperto di lentiggini le si è dipinta un’espressione determinata.
So che si costituirà.

Vorrei rassicurarla e dirle che il gesto verrà apprezzato e che non le accadrà niente, perché è una studentessa modello ed una brava ragazza, vorrei dirle che la preside capirà e Ernie forse la perdonerà, ma dalla mia bocca non esce niente. Ho uno strano formicolio sottopelle che cammina verso la mia faccia, si infila nei polmoni.
La stanza e il mondo intero si stringono intorno al mio cuore.

Non riesco a muovermi. Non riesco a respirare.

Due minuti dopo – oppure una vita dopo – sento le dita ruvide di Brandon sul mio braccio. È a pochi centimetri dal mio volto, si è seduto accanto a me e mi scruta preoccupato.
Lancio un’occhiata agli altri due, che sono impegnati in una conversazione concitata e non si sono accorti di nulla.

« Bevi » mi porge il suo cartone del latte. Ringrazio e lo ingurgito tutto.

« Sto bene »

« Certo »

« Davvero »

Inarca un sopracciglio. Liquido i suoi dubbi con un gesto della mano, facendogli capire che non voglio parlarne e lui, seppur riluttante, mi accontenta.
 
 
 
 

T. è stata sospesa per due giorni. La preside le ha assicurato che la notizia del suo coinvolgimento non verrà diffusa, un piccolo privilegio guadagnato nel corso degli anni. Non possiamo però garantire che Ernie e Vincent tengano la bocca chiusa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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