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Autore: Texta    01/09/2017    1 recensioni
Una riflessione (realmente avvenuta) che ho fatto dopo essere passata davanti ad una discoteca a bordo della nave da crociera su cui ero in vacanza.
NOTA: I nomi delle persone citate nella storia appartengono veramente a delle mie conoscenti, ma ho omesso il cognome per rispettare la loro privacy.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il mare non è calmo, e non lo sono neanche io. 
Sembra quasi che stia riflettendo il mio stato d'animo in questo momento: ondeggia di qua e di là, sembra calmo, ma in realtà quelle piccole onde hanno un'incommensurabile forza distruttiva, capace di far muovere questa gigantesca imbarcazione. 
Cammino lungo il ponte, lentamente, misurando ogni passo. È l'una di notte: in giro per la nave ci sono più soltanto sporadici membri dell'equipaggio, zelanti nelle loro pulizie, e qualche nottambulo che si attarda attorno ad un drink in uno dei numerosi bar. Mi dico tranquillamente che non c'è nulla da temere: ci passerò davanti senza saper nemmeno di averlo fatto.
Ma mi sbaglio, e mi conosco: nel mio inconscio c'è una minuscola vocina che mi suggerisce di non farlo, perché è consapevole che un gesto apparentemente semplice come quello che sto per fare può comunque devastarmi, e logorarmi dentro per giornate intere. Perché ignorai quella vocina, non si saprà mai. 
Ma, pur non sapendo come, né perché, lo feci.
Da lontano mi arriva il suo orrendo rumore, molto prima di poterlo scorgere, ma alla fine, con passi sempre più titubanti e quasi malfermi, mi avvicino. 
Ed eccolo lì. 
L'alveare, l'enorme e rumorosa casa dove tutti i miei coetanei si radunano e fremono, come api operaie, intorno alla loro regina, la pista da ballo.
La osservò tramite i vetri, oscurati per mantenere il buio nella casa degli adolescenti moderni. Non so cosa mi aspettassi di vedere, forse non mi aspettavo realmente nulla (d'altronde, io non sono "un'ape"), ma quello che vedo mi segna comunque.
Decine e decine di corpi, uno contro l'altro, ammassati come, appunto, api operaie in un alveare. Sembrano quasi un'unica entità, come una spugna marina che si alza e si abbassa al ritmo di una ripetitiva nenia che molto probabilmente non sta nemmeno ascoltando. Le ragazze si strusciano contro i ragazzi, che le accolgono senza fare troppi complimenti, le luci mutano di colore e di posizione in un turbinio senza fine.
Io, intanto, continuo ad osservare: sono quasi rapita da quello spettacolo, nonostante mi disgusti, come i curiosi che restano a vedere le auto distrutte dopo un incidente, o come un salmone con tre teste che, nonostante faccia ribrezzo, stiamo ad osservare, rapiti ed incuriositi. Il mio disagio nell'essere testimone di tale spettacolo è innegabile, ma nonostante tutto non voglio quasi andarmene; finché una sensazione terribile mi scuote fin nel profondo, e rapidamente si trasforma in una domanda, un unico, lacerante, interrogativo. 
È questo che il mondo vuole e si aspetta da me, quale adolescente moderna? 
È questo quello che dovrei essere, nell'ordine "naturale" delle cose? 
È così che dovrebbe apparire la versione "normale" di me, quella accettata, quella di cui non si ha paura, quella a cui la gente parla, quella che i ragazzi guardano?
Insomma, è così che dovrei essere? 
Questi quesiti mi colpiscono in fretta, tutti insieme, come un combattente dell'avanguardia trafitto da decine di dardi nemici, che gli tolgono il fiato e gli fermano il cuore, per sempre.
Mi allontano il più velocemente possibile dal vetro, tremando tutta, con le lacrime agli occhi: vorrei correre, ma le gambe mi si sono intorpidite tra mille formicolii e tremori. Vacillo, la mia sicurezza crolla, nonostante la credessi salda e al suo posto come un muro portante della mia personalità. 
Barcollando malfermamente sui piedi arrivo all'ascensore, e premo il bottone che porta al nono ponte. Da lì, salgo le scale verso il ponte aperto senza nemmeno guardare veramente i gradini: nel mio cervello c'è il vuoto, non riesco più a pensare ne' a cose belle, ne' a cose brutte; faccio fatica a respirare, ma non è il fiatone per le scale, e ho la nausea, ma stavolta, al contrario di poche ore prima, non è per il mal di mare. 
Sono sull'undicesimo ponte, il più alto, e non c'è nessuno sul serio, qui. Fa veramente freddo, l'aria di Norvegia mi sferza le braccia nude e mi gela il sangue, ma io non lo sento quasi. Fisso il mare, con la luna che si riflette su di esso.
Vorrei piangere, ma non ci riesco. Sono come congelata, dentro e fuori. Mi rendo impossibile ogni movimento, in questo stato, ma non ci posso fare niente: dovevo andare via dal quel posto, via dalla gente, per cercare di pensare. 
L'orrendo quesito di prima mi strappa ancora il cuore: esiste qualcosa di più angosciante di un dubbio irrisolto? 
Pian piano, il mio cervello riprende a funzionare, e ricomincio a respirare regolarmente. Ora posso riflettere razionalmente sul dubbio provocato dalla mia osservazione della discoteca, o almeno così credo. 
In realtà mi sbaglio, perché più mi arrovello sulla spinosa questione, più mi viene solo voglia di cadere sotto, nel mare ghiacciato, e rendere la mia nonesistenza un poco migliore. 
Penso alle mie compagne: a Giorgia, ad Arianna, a Chiara, e a tutte le ragazze festaiole e ubriacone come loro, a migliaia in tutta Italia, e a milioni nel mondo; e realizzo quanto gigantesca sia la differenza fra loro e me.
"La diversità è una cosa bella", ci insegnano da piccoli. Ma è veramente così, o è soltanto un proverbio buonista per far finta di essere brave persone agli occhi degli altri? 
Se veramente la diversità fosse una cosa bella, perché persone di un'altra religione dovrebbero essere massacrate solo a causa della loro fede? Perché una persona disabile dovrebbe essere guardata come un fenomeno da baraccone? Perché un ragazzo dovrebbe essere picchiato solo perché non è bravo negli sport? 
Perché una ragazza che la massa non la segue sul serio (non sono nelle didascalie sui social), una che è sempre stata bollata come "strana", una che non ha mai amato le cose che tutti gli altri amavano, dovrebbe essere maltrattata, fissata e picchiata fino ad aver voglia di morire dopo che il mondo le ha sbattuto in faccia l'aspetto che "dovrebbe" avere? Perchè deve portare il peso di aver rifiutato questo modello ogni giorno della sua vita?
   
 
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