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Autore: annalisa93    02/09/2017    0 recensioni
Questa storia non è mia, ma di una mia amica, il suo profilo ufficiale lo trovate su wattpad : https://www.wattpad.com/user/ChiBa93
GENERE: sentimentale, thriller, mistero, psicologico, urbanfantasy.
Diciassette ragazzi.
Diciassette anime diverse, ognuna con il proprio passato, con le proprie fragilità e con le proprie aspettative per il futuro.
Diciassette cuori destinati ad incontrarsi e a scontrarsi.
Diciassette persone che si ritroveranno ad indagare su una serie di misteriose scomparse e sull'inquietante morte di una giovane liceale, avvenuta quarant'anni prima.
N.B: Questa storia è una light novel, ovvero un romanzo con illustrazioni in stile manga
Genere: Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Salveee :) come avevo previsto l'altra settimana non ho potuto aggiornare, ma ora eccoci qui con una nuova parte del secondo capitolo :) Vi auguro una buona lettura e se vi va fateci sapere cosa ne pensate, 
un abbraccio :) 

 

No I'm not saying I'm sorry

One day maybe we'll meet again  

(da Closer To The Edge, 30 Seconds To Mars)
 

Trento, 10/11/12 ore 16.00

Era da ore che se ne stava seduto sul letto a gambe incrociate, con la chitarra in mano. Mancavano solo dieci giorni al concerto che avrebbe aperto il suo tour e non aveva ancora scritto neppure una riga. Appena scriveva due o tre note ecco che puntualmente si bloccava. Disperato, aveva strappato ogni foglio che aveva usato e l'aveva appallottolato, gettandolo per terra. Intorno a sé aveva una trentina di palle di carta. Abbassò il viso e scosse la testa. Era inutile. Ovunque volgesse lo sguardo, vedeva quei due occhi grandi, verdi e disarmanti. Due occhi maledettamente belli. Non ce la faceva più. Da quando li aveva visti la prima volta, non lo avevano mai abbandonato. Eppure era stato lui a volerli allontanare per sempre, era stato lui a lasciarla, a dirle addio. Da quella volta non passava giorno in cui si chiedesse se avesse preso la decisione giusta. L'aveva amata tanto e lo avrebbe fatto per tutta la vita, ma sentiva che sarebbe stato meglio per entrambi che si separassero, altrimenti avrebbe finito per farle del male. Nonostante il modo risoluto con cui quel giorno le aveva parlato, in fondo al suo cuore, sperava che un giorno si sarebbero ritrovati. Anche perché quegli occhi, così brillanti e gentili, non smettevano di perseguitarlo.

«Basta!!»

Preso dalla disperazione, strappò con forza l'ultimo foglio del blocco, lo accartocciò e lo gettò contro il muro, gridando. Poi stremato si abbandonò indietro sul letto. Fissò il soffitto bianco, finché, anche lì, non si proiettò l'immagine di quegli occhi tanto odiati. Prese il cuscino e se lo schiacciò contro il volto, ma niente da fare. A salvarlo da quella tortura fu la voce di Stefano, il suo manager.

«Jared, ci sei? E' arrivato un pacco per te!»

«Sì, ci sono» Rispose scocciato.

Stefano aprì la porta ed entrò nella stanza, fra le braccia aveva una lunga scatola.

«Cos'è?»

«Che ne so! Con il pacco c'era anche una busta. Prendila, è in cima alla scatola.»

Jared fece come gli disse Stefano e aprì la busta. Dentro c'era una lettera, la estrasse, la spiegò e la lesse.

Gentile signor Zener,

La prego di conservare con la massima cura gli oggetti da lei ricevuti, la prego di non cederli a nessuno e di tenerli sempre con lei, si tratta di oggetti speciali.

«Ehi, vedi un po' che c'è dentro.» Ordinò al manager.

Lui non se lo fece ripetere due volte, non aspettava altro. Appoggiò la scatola per terra, tolse lo scotch e sollevò le alette. Sul suo viso si dipinse un'espressione incredula. Jared, notando la faccia dell'amico, gli si avvicinò. Vide la custodia di una chitarra, l'aprì. Conteneva una bellissima chitarra elettrica, una di quelle che ogni chitarrista vorrebbe, con il corpo nero e il battipenna argentato, la tastiera in polissandro e il manico fatto d'ebano. Il plettro era in carapace di tartaruga.

Jared la sollevò con attenzione, se la mise al collo e cominciò a suonare con delicatezza, temeva di rovinarla. L'energia della musica dalle mani cominciò a scorrere per tutto il corpo, con la velocità e l'efficacia di una scarica elettrica. L'ispirazione, tanto agognata, era finalmente arrivata. Si mise sul letto e annotò velocemente parole e note, in meno di un'ora aveva composto un nuovo pezzo. Stefano lo aveva osservato per tutto il tempo, incredulo. Era senza parole.

«Ecco qui il pezzo che mi avevi chiesto.» La sua voce tornò ad essere fredda, come sempre. Si alzò dal letto e si diresse alla scrivania, prese il borsalino nero e se lo mise in testa, coprendosi il volto. «Io devo partire per qualche giorno, ma tornerò in tempo per prepararmi per il concerto.» Assicurò, porgendogli il pentagramma con la melodia, accompagnato dal testo della canzone. Il manager afferrò il foglio e lesse il titolo:

Green Eyes.

                                                   ****

Due ragazze erano sedute laddove un tempo solevano prendere posto gli elementi dell'orchestra scolastica.

Sakura strizzò gli occhi nel tentativo di vederci meglio: da lontano, senza occhiali, era cieca come una talpa. Dopo uno sforzo immane riuscì a mettere a fuoco le due figure. «Minami?! Che ci fai qui?» Nel preciso istante in cui pronunciò il suo nome, sentì la ragazza dimenarsi, sembrava non riuscisse a muoversi liberamente, non riusciva neppure a parlare, era in grado solo di emettere mugolii soffocati. Nathan, che era al suo fianco, fece un passo avanti. «Tranquilla, vi libero io.»

Sakura lo guardò confusa, non comprendeva il perché di quelle parole. Tornò a guardare le ragazze, sforzò ancora una volta la vista, subito le venne mal di testa, ma lei continuò a tenere il capo alzato, finché non capì. Entrambe avevano un fazzoletto legato sulla bocca e le mani legate dietro la sedia.

«Non così in fretta!» Una tuonante voce maschile riempì la stanza. I ragazzi piantarono gli occhi sulla spessa tenda che copriva la finestra in fondo alla stanza. Ne uscì una figura vestita di nero, il collo adornato da una cravatta verde, scarpe nere perfettamente lucidate, la testa leggermente abbassata, il volto nascosto da un borsalino nero.

«Chi sei?» Domandò David che, guardandolo con aria decisa, si mise in posizione di attacco.

«Il tuo migliore amico, o forse il tuo peggior nemico, dipende.» Affermò il ragazzo misterioso, con un irritante tono provocatorio.

«Dipende da cosa?» Domandò Emma.

«Dal gioco. Voglio il gioco, datemelo.»

«Noi non abbiamo nessun gioco.» Esclamò Sakura con determinazione. Senza alzare la testa, il misterioso individuo la guardò. S'irrigidì. Sentì i brividi corrergli lungo la schiena, ma cercò di dissimulare.

«E anche se lo avessimo avuto non te lo avremmo mai dato.» Aggiunse David.

«Ah, è cosi? Ditemi, allora, che diritto avete di tenervi il gioco?» Chiese, con tono di sfida, riprendendo il controllo sulle proprie emozioni.

«Te lo spiego io.» Rispose Nathan. «Com'è stato stabilito, il gioco appartiene ai Guardiani e i Guardiani siamo noi, quindi, a rigor di logica, il gioco ci appartiene. Semplice, no?» Gli spiegò con un sillogismo che non faceva una piega.

«E chi ti dice che non sia un Guardiano anch'io?»

Cosa? Quell'ultima affermazione colpì i ragazzi con la potenza di un macigno, un macigno che in un secondo mandò in frantumi la sicurezza e la determinazione che fino ad allora li avevano animati. Quel ragazzo poteva benissimo mentire, come dire la verità. Come avrebbero potuto chiedergli una prova di quello che stava affermando? Sapevano con certezza che Emily, Lucas e Amanda erano Guardiani, li avevano riconosciuti nel disegno mostrato loro da Summer e Filippo. Ma come avrebbero fatto a rintracciare gli altri otto? C'era un segno di riconoscimento, un simbolo, un oggetto, qualcosa che avrebbe potuto aiutarli? L'unico aiuto su cui avrebbero potuto contare, per il momento, sembrava essere il gioco: da quello che avevano potuto capire, solo i Guardiani sarebbero stati in grado di utilizzarlo. Purtroppo, però, dovevano ancora trovarlo.

«Su, non ho tempo da perdere con gente come voi, datemi il gioco.» Il ragazzo si avvicinò a Minami. «Altrimenti faccio del male alle vostre amiche.» Tirò fuori un coltello, cinse il collo di Minami con il braccio e lentamente lo fece scorrere verso destra, finché la lama non fu sulla giugulare della giovane sventurata. Premette leggermente, sulla pelle bianca della ragazza apparve una leggera striscia rossa.

«Non farlo!» Urlarono David ed Emma. Il ragazzo tese la mano sinistra in avanti, come per ricevere qualcosa. «Voglio il gioco.» La mano destra, invece, era stretta sul manico del coltello.

«A cosa ti serve il gioco? Perché lo stai cercando?» Intervenne Nathan.

«Non sono affari che ti riguardano, moccioso!» Il suo tono era aspro.

«Provami che sei uno di noi.» Tentò di bluffare. Se davvero fosse stato un guardiano e ci fosse stato un marchio, un oggetto, che gli avrebbe consentito di riconoscere gli altri come lui, glielo avrebbe mostrato.

«Io a te non devo mostrare niente.» Lo guardò con sfida. Non avrebbe permesso a un ragazzino di prendersi gioco di lui. «Il gioco è mio, mi appartiene. Datemelo.» Sibilò a denti stretti, trattenendo a stento quell'ultimo briciolo di pazienza che gli era rimasto.

«Te lo ripeto per l'ultima volta.» Sakura strinse i pugni per controllare la rabbia, che lentamente si stava insinuando in lei. «Noi non abbiamo nessuno gioco!»

Il misterioso ragazzo, ancora una volta, la guardò senza alzare la testa, il suo corpo s'irrigidì, irrimediabilmente. Vide due occhi belli, grandi, verdi, e sinceri. Due occhi disarmanti. L'intensità di quel colore lo fece desistere. Abbassò la mano con il coltello, chiuse l'altra, che ancora era tesa in avanti, e la girò in modo che in alto ci fosse il dorso del pugno. In quel momento le torce in mano ai ragazzi scoppiarono, lanciando in aria coriandoli di vetro.

«Ma che diavolo è successo?!» Domandarono all'unisono i quattro giovani mal capitati. Automaticamente, dopo pochi secondi, gli occhi si sensibilizzarono al buio e gli altri sensi si acuirono. Udirono il misterioso individuo muoversi, il suono dei suoi passi si faceva sempre più insistente. Sakura sentiva che si stava avvicinando, si stava muovendo nella sua direzione. Il cuore le balzò in gola. Cominciò a tremare. Non sapeva che fare, la paura si era impossessata del suo corpo, le aveva annebbiato il cervello. Poi, inavvertitamente, un pungente profumo di pino giunse al suo olfatto, con la forza di migliaia di aghi invisibili, pronti a inchiodarla contro un muro immaginario. Era vicinissimo, percepiva il suo respiro a pochi centimetri da lei. Un lungo brivido percorse velocemente la sua schiena. Cominciò a sudare, sentì il suo corpo andare in fiamme, in preda al terrore. Poi, all'improvviso, due dita le presero il mento con decisione, con la forza di due tenaglie di ferro. Lo sconosciuto le alzò il volto, lentamente. «Ti avverto, mia cara, questo bel visino ti procurerà molti problemi.» Le sussurrò. Il ghigno malefico, dipinto sul volto, risplendeva nella penombra di quella stanza buia.

Con la luce spenta, non potendo vedere quegli occhi stregati, riusciva a controllarsi.

Al contrario, Sakura si ritrovò paralizzata, inerme. D'un tratto i muscoli delle gambe si rilassarono. Sarebbe crollata a terra se non fosse stato per la presa decisa del ragazzo, che non mollava il suo mento. Gli occhi si riempirono di lacrime.

Poi arrivò, dal niente. Un ricordo, un frammento lontano che aveva dimenticato. 

«Il tuo volto sarà la tua condanna, l'ho visto, ti condurrà alla morte! Stai attenta.»

Qualcuno le aveva già fatto un discorso simile, ma non ricordava chi fosse.

Le lacrime scesero più copiose, prima le bagnarono le guance, poi caddero nel vuoto, in pesanti goccioloni che si dissolsero a contatto con il terreno.

 

«Lasciala!» Ringhiò Nathan.

Con un gesto rude ed improvviso, lo sconosciuto liberò il volto della ragazza, si allontanò e attraversò la soglia della stanza. Sakura ritrovò la forza e il controllo sul proprio corpo e, prima che potesse essere troppo tardi, si voltò. Lui era di spalle, la sua figura era in contrasto con la luce del corridoio. «Aspetta!» Cercò di fermarlo. «C-che significa?!» Balbettò. «Dimmi, ci siamo già incontrati?» Gli chiese. «Sei stato tu a pronunciare quelle parole, tanto tempo fa?»

«Non so proprio a cosa tu ti stia riferendo.» Le rispose con un tono piatto. «Io e te non ci siamo mai incontrati.» Aggiunse, abbassando impercettibilmente lo sguardo.

«Allora chi sei?» Gli domandò con voce flebile, quasi temesse di udire la risposta.

«Il tuo migliore amico.»

   
 
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