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Autore: heartbreakerz    02/09/2017    2 recensioni
La sera prima di un esame, Robert ricorda la sua prima runa, il dolore provato, e ha un attacco di panico. Michael lo raggiunge e gli offre il proprio corpo come tela.
Dal testo: “Boccheggiò in cerca d’aria. Il suo battito era accelerato, il suo respiro irregolare. La gola gli bruciava: non riusciva a trattenere l’aria dentro di sé. Non riusciva a parlare. La sua vista si era fatta scura. Le sue mani, rigide. Tremanti.
Incompetenti.
Sentì qualcosa sfiorargli le spalle, e poi lo sfioramento si tramutò in una presa solida, e Robert sobbalzò, colto di sorpresa, cercando di divincolarsi dalle sue paure. Era tutto finto, «tutto finto», tutto «finto», «tutto» finto, cercava di convincersi, ma la presa si fece ancora più forte. Robert fu costretto ad allungare le mani per tastarsi, per assicurarsi di essere ancora in sé. [...] Poi le sue dita si aggrapparono a un polso sottile, e la confusione cominciò a schiarirsi. Il rombo irrequieto del suo battito s’arrestò per un secondo, e tanto bastò perché una voce, sicura come una freccia, facesse breccia tra i respiri spezzati e i lunghi tremori.
«Robert! Robs, parabatai. Fratello mio» ripeteva la voce. «Mi senti?»”
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Michael Wayland, Robert Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Evil We Love (What If)'
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♦    Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Back to School” a cura di Fanwriter.it.
♦    Numero Parole: 2875 parole. 
♦    Prompt/Traccia: “Notte prima degli esami” (prompt brevi).

DISCLAIMER: Tutti i personaggi e le ambientazioni contenuti all’interno di questa storia non mi appartengono. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro e non intende infrangere il copyright dell’autore originale.



 

 

 

 

La lingua di Dracula



Il cielo era cupo e scuro. La luna nuova spariva tra le nubi nere e ricompariva, di tanto in tanto, con la sua flebile luce. Era poco più luminosa di una stella: i suoi raggi non erano abbastanza forti da illuminare la stanza buia di Robert. I suoi occhi si erano già abituati al buio ma, nonostante la stanchezza, il sonno sembrava non raggiungerlo.

Si portò una mano al petto, in alto, dove riposava la runa parabatai, e si crogiolò nella sensazione del sentirla pulsare. Non era dolore né paura; era la sensazione di un secondo cuore che batteva insieme al suo, per il suo, come se fossero collegati, come se uno non potesse battere senza l’altro. Era il cuore di Michael, con il suo battere scandito come quello di una ninna nanna.

Si aggrappò più forte alla stoffa della maglia. Le sue unghie, corte e spezzate, affondarono nel suo stesso petto. Graffiò la runa parabatai. Ma un graffio non sarebbe servito a raggiungere Michael; non era così che funzionava. Eppure, in casi come quello, quando la paura lo immobilizzava e il terrore lo accecava, Robert sperava di poter avere una runa per richiamare Michael e poter arrivare da lui in un batter d’occhio.

Deglutì.

Non importava, si ripeté. Poteva cavarsela da solo. L’aveva sempre fatto. Si sarebbe alzato, il giorno dopo, e avrebbe affrontato l’esame come tutti i suoi coetanei: a testa alta, gli occhi sicuri, una smorfia imperturbabile sul viso. Non c’era nulla che potesse andare storto, continuò. Si era allenato a lungo. Aveva imparato a tracciare le rune con meticolosa attenzione, senza sbavature, senza tremolii. La sua era la mano stabile di un fabbro, e il suo corpo era la materia prima pronta a essere forgiata. Non si sarebbe spezzato. Non succedeva da anni.

Ma il ricordo era ancora vivido.

Sentiva l’eco dei propri urli pulsargli alle orecchie, il suo battito tuonargli nel petto fino a fargli perdere il fiato. Sentiva il dolore accecante spargersi sotto la sua pelle, lungo le sue vene; si muoveva rapido come un veleno, vorace e ustionante, senza lasciargli tempo di ricordare che no, quella non era la verità, e che no, non sarebbe morto, non sarebbe diventato un Mondano, non avrebbe disonorato la sua famiglia. Non di nuovo. Mai più.

Il suo corpo tremava. L’odore pungente del sudore impregnava la stanza; lo sentiva, Robert, perché quello era il sapore marcio della paura. Della debolezza. Del disonore.

Boccheggiò in cerca d’aria. Il suo battito era accelerato, il suo respiro irregolare. La gola gli bruciava: non riusciva a trattenere l’aria dentro di sé. Non riusciva a parlare. La sua vista si era fatta scura. Le sue mani, rigide. Tremanti.

Incompetenti.

Sentì qualcosa sfiorargli le spalle, e poi lo sfioramento si tramutò in una presa solida, e Robert sobbalzò, colto di sorpresa, cercando di divincolarsi dalle sue paure. Era tutto finto, «tutto finto», tutto «finto», «tutto» finto, cercava di convincersi, ma la presa si fece ancora più forte. Robert fu costretto ad allungare le mani per tastarsi, per assicurarsi di essere ancora in sé. Per confermare che quello era solo un brutto incubo. Nulla di vero. Nulla di possibile. Era solo la confusione che accresceva il terrore. Poi le sue dita si aggrapparono a un polso sottile, e la confusione cominciò a schiarirsi. Il rombo irrequieto del suo battito s’arrestò per un secondo, e tanto bastò perché una voce, sicura come una freccia, facesse breccia tra i respiri spezzati e i lunghi tremori.

«Robert! Robs, parabatai. Fratello mio» ripeteva la voce. «Mi senti?»

Non riusciva a rispondere né ad annuire. L’unica cosa che poté fare fu afferrare più forte la mano di Michael, il suo parabatai, suo fratello, la sua anima, e affidare a lui il suo battito, il suo respiro, concentrandosi solo su quello di Michael. Era lento e calcolato, ma così distante, così coperto da tutti gli altri rumori, che Robert si ritrovò a barcollare come se le sue radici lo stessero abbandonando.

Si allungò all’avanti e con una mano riuscì in qualche modo a raggiungere il collo di Michael. Si spinse più in basso, trovando il suo cuore. Era lì, caldo e vivo; batteva sotto la sua pelle in quel continuo tum-tum a cui era abituato. Lo stesso che sentiva contro di sé quando, di notte, in silenzio, si metteva ad ascoltare il pulsare della runa parabatai.

«Lo senti?» ripeté la voce di Michael. «Batte per te. Con te» continuò. La sua voce era scandita esattamente come il suo battito, e non importava cosa Michael gli stesse dicendo – inutili parole di conforto, brevi mormorii, il suo nome sussurrato, «parabatai, fratello mio»; non importava il senso delle sue parole, perché era la sua voce a richiamarlo. A riportarlo in sé. A fargli riprendere il controllo.

All’improvviso sentì un fiotto d’aria arrivargli dritto nei polmoni. Fu doloroso, e Robert si piegò in avanti. Si accasciò su Michael, il suo petto snello ma solido, le sue braccia agili pronte a sorreggerlo. Si poggiò con la fronte sulla sua spalla e ansimò. Poi Michael cominciò a contare al suo orecchio: «Uno», e Robert inspirò; «due», e Robert trattenne il respiro; «tre», e Robert si lasciò andare, espirando, e ricominciando tutto da capo. La voce di Michael accompagnava ogni suo movimento. Continuò per lunghi minuti; l’«uno, due, tre» si era trasformato in un «trenta, quaranta, cinquanta», e allora Michael aveva ripreso da capo, usando sempre gli stessi numeri, lasciando che Robert si abituasse al suono, aspettando che Robert cominciasse a contare insieme a lui.

Presto Robert sollevò gli occhi. Non c’era abbastanza luce per vedere la faccia di Michael, ma non aveva bisogno di guardarlo per sapere che la sua fronte era corrucciato in un’espressione apprensiva, che i suoi occhi lo stavano studiando in cerca di una ricaduta, che le sue labbra erano tese in una linea rigida. Che lì a sinistra, sotto la sua bocca, c’era un piccolo neo; che giù per la sua gola la pelle era irregolare, lì dove Michael si dimenticava di radersi la mattina.

Si aggrappò a quei dettagli e li cercò, con gli occhi e con le dita, e Michael si offrì a lui, lasciandosi guardare e toccare fino a che Robert non riprese a respirare lentamente, fino a che le sue mani non trovarono nuovamente la loro forza, fino a che non riuscì di nuovo a controllare il suo corpo.

Allora Michael si staccò lentamente, e Robert lo guardò sporgersi verso il comodino per frugare dentro un cassetto. Quando ritirò la mano, nel suo palmo brillava una stregaluce.

«Come hai fatto a entrare?» mormorò Robert, la voce bassa, graffiante.

«Lasci sempre la finestra aperta» rispose Michael.

«Perché sei qui?»

Michael restò a studiarlo per un lungo istante. Poi le sue labbra si aprirono in un sorriso delicato. «Mi hai chiamato» disse, inclinando il capo. Alcuni riccioli gli ricaddero sulla fronte e Michael li scacciò con un movimento scocciato della mano. «Ti ho sentito qui», si portò una mano al petto, sulla runa parabatai, «come se mi stessi toccando. E poi mi si è mozzato il respiro. Pensavo che ti fosse successo qualcosa e sono corso da te.»

«Come facevi a sapere che ero qui?» Non riusciva a smettere di fare domande. Doveva sapere perché Michael era lì, come c’era arrivato, come l’aveva sentito, come l’aveva trovato.

E Michael rispose senza scomporsi. «Perché sei il mio parabatai» disse, e poi, ridendo, aggiunse: «E perché non romperesti mai il coprifuoco. Quindi casa tua è il primo posto in cui ho cercato».

Robert gli diede una gomitata sul fianco.

«Ehi» sbuffò l’altro, ma continuò a sorridere, e Robert gliene fu grato.

Abbassò lo sguardo sulla stregaluce. Le dita di Michael erano lunghe e sottili e coprivano quasi interamente la pietra. La sua pelle sembrava più pallida del solito. Gli unici sprazzi di colore erano la runa della Vista e alcuni nei che si spargevano lungo il dorso della sua mano, spingendosi verso il polso.

Michael lasciò cadere la stregaluce in mano a Robert.

«Tieni, è tua» gli disse.

«Ciò che è mio è anche tuo» rispose di riflesso.

Michael sbuffò in una risata trattenuta.

«Queste cose dovresti dirle a Maryse, non a me.»

Robert lo guardò sorpreso. «Ma sei tu il mio parabatai» disse, confuso. «Dove andrai tu andrò anch'io, e dove ti fermerai mi fermerò. Il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio. Non ricordi?»

Michael gli lanciò una breve occhiata, prima di abbassare il capo. «Dove morirai tu,  morirò anch’io e vi sarò sepolto» recitò. «Ricordo.»

Robert barcollò appena. La voce di Michael era debole. Sconfitta.

«Te ne sei pentito» sputò Robert.

Michael non rispose per un lungo istante. Robert non si aspettava una risposta; la sua non era una domanda. Ma Michael si girò lentamente verso di lui. Si aggrappò alle sue spalle, con sicurezza, e lo guardò dritto negli occhi. Con i raggi della stregaluce e il buio della stanza, il suo volto sembrava spaccato a metà: da una parte c’era il Michael che conosceva, con l’occhio castano circondato da piccole rughe d’espressione; l’altra parte, invece, c’era qualcosa di indecifrabile: una maschera sconosciuta di pelle e ossa che Robert non riusciva a leggere.

«Non mi pentirò mai di te, Robert Lightwood» disse, il tono solenne come se stesse pronunciando una promessa. «Sei la mia unica sicurezza. E lo sarai sempre.»

Non c’era altro da dire. Gli occhi di Michael parlavano per lui. Così il discorso cadde e scese un nuovo silenzio.

Durò poco.

«Sei pronto per domani?» mormorò Robert.

Michael gli lanciò un’occhiata di sbieco. «Vuoi allenarti un’ultima volta?»

Robert fece per dire di no. No, non voleva sentire lo stilo bruciare contro la pelle; non voleva sentire i propri muscoli tendersi per i ricordi della sua infanzia, la propria mente sbiancare per lunghi minuti. Non voleva più provare quella sensazione. Ma sapeva che così non poteva funzionare: le rune erano una delle armi più potenti in mano ai Nephilim. E se non avesse passato l’esame, l’indomani, si sarebbe dovuto separare da Michael per gli allenamenti.

Non poteva permetterselo.

«Va bene» disse dopo un po’.

Michael cominciò a frugare nella sua tasca fino a che non tirò fuori il suo stilo. Lo offrì a Robert con la stessa tranquillità con cui gli aveva offerto la stregaluce: come se non fosse niente di che, come se la sua mano si fosse già abituata al peso, al calore dello stilo.

Per un secondo, Robert lo invidiò. Ma poi Michael gli sorrise, incoraggiante, e Robert trovò la forza di afferrare lo stilo e rigirarselo nel palmo. Lo stilo di Michael era allungato, più lungo di quello a cui Robert era abituato, e insolitamente sottile. Così liscio e regolare, sembrava più che altro un pennello. Allora Robert lasciò da parte lo stilo e si concentrò sul pennello. Gli venne più facile impugnarlo. Fu quasi naturale.

Sorpreso, studiò con attenzione la posizione della sua mano. Solo allora si rese conto della leggera aura che circondava lo stilo. Era come un’ombra chiara, uno spirito che si avvolgeva attorno all’adamas. Ora si stava modellando anche sulla sua mano.

Robert cominciò a tremare. «Perché fa così?»

«È la mia impronta» rispose Michael, allungando la mano per coprire quella di Robert. «Perché questo è il mio primo stilo. Si ricorda di me, e cerca di aiutarti, perché anche tu sei parte di me.»

Robert ricordava di aver sentito storie simili in Accademia. Ricordava come lo stilo era capace di prendere parte dello spirito di un guerriero e farlo proprio, per potersi modellare meglio alle esigenze del suo padrone. Ma non l’aveva mai visto dal vivo. Usava il suo stilo così di rado che, a guardarlo, pareva ancora immacolato. Anche in quel momento riposava in silenzio dentro a uno scaffale, là, tra le sue divise scolastiche, indisturbato.

Michael cominciò ad arrotolare le maniche della sua camicia. Le raccolse fino ai gomiti e le lasciò lì, blande, pronte a ricadere sui suoi avambracci con il minimo movimento.

Robert studiò attentamente la sua pelle, seguendo con gli occhi il sentiero di alcuni neri. «Quale runa devo disegnare?» domandò con una punta di nervosismo.

«La senza suono. Ho già superato il coprifuoco del dormitorio, dovrò entrare di nascosto. Un po’ d’aiuto esterno non mi farà male» disse Michael. I suoi occhi brillarono di divertimento.

«Potresti restare a dormire qui» disse Robert, distratto, mentre si sporgeva all’avanti. Afferrò saldamente il polso di Michael e restò a fissarlo ancora un attimo. Era quello il momento in cui cominciava a dubitare: la pelle di Michael era ancora sana, ma se, una volta scalfita dallo stilo, avesse cominciato a sanguinare? Se Michael avesse cominciato a urlare, perso nell’agonia? Robert ricordava com’era la sensazione del limbo tra la vita e la morte; i deliri delle febbri, gli shock del dolore. Non voleva che Michael provasse quella sensazione.

Ma lui continuava a parlare tranquillo. «… preoccuparti. Oggi ho tentato con un’altra scappatoia. Ne ho lasciato uno spiraglio aperto per poter rientrare.» La sua voce era la solita di sempre: matura nel tono, ma piegata da un divertimento infantile.

Non fece pressioni, Michael; continuò a parlare, descrivendo a Robert com’era uscito dal dormitorio, quali corridoi aveva attraversato, quale professore di ronda aveva evitato. Erano tutte cose inutili, ma il suono della sua voce convinse Robert a poggiare la punta dello stilo sul braccio di Michael. Sentì l’ombra dello stilo – l’anima di Michael – avvolgerlo stretto come un guanto, e si lasciò aiutare e guidare. Seguì una costellazione di nei: il primo in alto era la sua partenza; quelli in basso, inclinati, erano la schiena della runa; quelli ancora più giù, a destra, erano la pancia e gli ultimi svolazzi. Mancavano solo due tratti. Robert si affrettò ad inciderli in alto, tagliando trasversalmente altri due nei. Fu rapido e indolore, e in pochi secondi sul braccio di Michael era comparso un nuovo scarabocchio nero.

Michael aveva continuato a parlare per tutto il tempo. La sua voce non aveva vacillato neanche per un secondo. E quando Robert sollevò lo sguardo, il viso di Michael non era cambiato. Non riusciva a leggerci nemmeno una smorfia, né di dolore né di fastidio.

«Funziona?»

«Te lo faccio sapere domani.» Michael rise e Robert scosse la testa. «Fanne un’altra» aggiunse.

Robert guardò il braccio di Michael, lo stilo, e poi sollevò lo sguardo verso i suoi occhi. «Sicuro?»

Michael si strinse nelle spalle. «Ho due braccia a disposizione, e se non ti bastano posso offrirti anche un polpaccio.»

«Un’altra» disse Robert. «Un’altra e basta.»

Questa volta non gli chiese conferma. Afferrò l’altro braccio, quello limpido, e iniziò a tracciare un’altra runa. Partì da una piccola spirale, che si allungò, poi, in un semicerchio sghembo; lo spezzò con un gesto rapido e si lasciò dietro un piccolo fronzolo. Trovò poi il centro della runa e da quel punto tracciò il sentiero di due rami, uno corto e spigoloso, l’altro più lungo e arrotondato.

Una volta finito, Michael parlò, e le parole gli uscirono in tutt’altra lingua.

«Esti asa aratos. Vreau să văd răsăritul cu tine

«Che lingua era?»

«La lingua di Dracula.»

Robert scosse la testa. Non avrebbe mai capito l’interesse di Michael per le leggende dei Nascosti. A cosa gli serviva sapere da dov’erano nati i Vampiri? L’unica cosa che importava era sapere come ucciderli.

Tornò al discorso principale. «Cos’hai detto?» chiese.

«Sei stato bravo» tradusse Michael. «Ma forse ora dovresti riposare.»

Robert lo guardò per un lungo istante e Michael gli fece un sorriso incoraggiante. Si alzò dal letto con un movimento fluido e silenzioso – probabilmente grazie alla runa appena disegnata – e afferrò i lembi delle lenzuola. Erano sudate, ancora incastrate al corpo di Robert. Ma Michael non commentò: si limitò a tirarle su, a coprire Robert fino al petto, e fargli cenno di stendersi. Robert gli allungò lo stilo e la stregaluce, e Michael li poggiò entrambi sul comodino.

«Stai dimenticando lo stilo» disse, la voce appena strascicata.

«Ciò che è mio è anche tuo» ripeté Michael. «Puoi tenerlo e usarlo domani. Io ne prenderò un altro in Accademia.»

Robert allungò una mano per fermarlo. Sfiorò la sua camicia, ma Michael si era già girato. E prima che potesse dirgli altro, prima che potesse fermarlo, Michael aveva raggiunto la finestra e se l’era chiusa alle spalle. L’aveva lasciato solo, con l’ultimo dubbio sulla punta della lingua.

«Perché continui a mentirmi, Michael?» mormorò nel silenzio della stanza.

Ma non arrivò risposta.

Non arrivava mai.

 

*

 

Fuori dalla finestra di Robert, schiacciato contro il muro, sotto al buio della notte, Michael aveva il fiato sospeso, il corpo immobile, il cuore impazzito.

Perché «Sei così bello», gli aveva detto. E poi aveva continuato: «Vorrei guardare l’alba con te». Ma ancora una volta non aveva avuto il coraggio di farglielo capire, e si era nascosto, codardo come un ladro, dietro una traduzione improvvisata di una lingua incomprensibile.

Non era il momento giusto, si ripeté.

Ma il momento giusto non sarebbe mai arrivato.




Alcune precisazioni! Di Robert da giovane si sa davvero poco, di Michael in generale manco a parlarne, quindi, as always, ho improvvisato.

i. Per lo stilo di Michael mi sono ispirata al libro dei fiori, in cui viene detto che Michael, da grande, comincia a forgiare delle armi, che non sono belle ma ben bilanciate. Ho immaginato che il suo stilo fosse uguale: esteticamente piatto ma funzionale, perché lo stilo deve essere pratico, non gradevole alla vista.

ii. L’interesse di Michael per le tradizioni dei Nascosti è puramente una mia invenzione perché sinceramente mi andava. LOL. E poi penso che sia azzeccato: Michael si allontana dal Circolo di sua volontà. Per quale motivo? Cos’è che considera giusto o sbagliato? Cosa gli fa cambiare idea? Penso che conoscere Nascosti e Mondani e le loro tradizioni e culture potrebbe averlo aiutato. Headcanon personalissimo.

iii. Avere un attacco di panico non è segno di debolezza né qualcosa di cui ci si debba vergognare. Robert funziona a modo suo: i ricordi della sua infanzia lo tormentano, di conseguenza collega la paura al disonore. Non ascoltatelo. Questa mentalità è colpa della società in cui vive. Ascoltate invece Michael, che continua ad amare Robert anche nei momenti di disgrazia. È così che si fa.

iv. A mia sfortuna non parlo rumeno. Ho letteralmente usato Google Translate per tradurre le frasi, quindi non mi assumo la responsabilità di ciò che potrei aver riportato, LOL. Vogliatemi bene.

E passate a dare uno sguardo ai prompt della challenge Back to School che trovate su Fanwriter.it!

Spero che la storia vi sia piaciuta. Alla prossima,

heartbreakerz

   
 
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