Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: fuoritema    02/09/2017    6 recensioni
Noemi camminava per via Roma come in un sogno, girava tra la gente senza urtarla e le stava bene passare la giornata così, con Manù che la seguiva ansante – perché lui le persone le scontrava tutte – e delle converse ai piedi troppo borghesi per essere accettabili. Noemi si fermò, sorrise all’amico come se non si rendesse conto della sua stanchezza e poi continuò a scivolare via, appendersi ai lampioni per svoltare e ridere di quella risata fresca e genuina che faceva impazzire Manuele. Noemi era Noël con la dieresi, perché la dieresi dà quel po’ di figo che in un nome senza fronzoli non c’è. […] L’unico che sembra capire la questione di quei due puntini del cazzo – così soprannominati dal suo coinquilino – era stato Emanuele, ma lui le dava ragione su qualsiasi cosa quindi non valeva. Manuele non valeva mai.

‘Polaroid’ racconta una storia di vite che si intrecciano, si lasciano e si rincontrano senza sosta con, come teatro, la città di Napoli ai giorni nostri. Racconta una storia di margherite colorate con l’inchiostro, famiglie incasinate e tele completamente nere.
Genere: Drammatico, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Polaroid.
 
 


Love is a polaroid
Better in picture
Never can fill the void
Polaroid, imagine dragons
 
 

( prologo – portami a bere dalle pozzanghere)
• 0 •
 
 
lacrimogeni, le luci della centrale elettrica
 
Mi dicono che scrivere le cose te le fa ricordare con più nitidezza, ti aiuta a ordinarle nella testa e cacciarle con più facilità, anche se credo sia il contrario. Ho scritto con precisione il numero dei gradini che ho fatto per salire sull’aereo – scale mobili comprese –, le hostess, il numero di minuti passati prima di addormentarmi. Le stronzate che ho fatto, però, non riesco ancora ad elencarle tutte. Le pagine bianche in questo quaderno lo testimoniano, così come gli spazi e i piccoli punti interrogativi che circondano i margini dei fogli più martoriati. Neppure le persone che ho fatto stare male, le so mettere per iscritto. A volte penso che ne potrei fare figurine, da collezionare nel mio album come trofei e buttare via non appena iniziano a fare troppo male. Tutte messe in fila, dovrebbero soddisfare anche Davide, che ci ha accompagnati fino al metal detector con una faccia che si aspettava qualsiasi cosa – chiunque si aspetta tutto da suo fratello. Poi è andato tutto liscio e lo abbiamo salutato dalla porticina verde dell’imbarco rapido, ma sembrava tutto una brutta copia di un originale che non c’è mai stato. “Ti vuole bene” ho sussurrato a Manuele, quando lo ho visto tirare su col naso di nascosto. Lui si è limitato ad annuire; è da un pezzo che queste cose non lo toccano più. Di me invece gli importa ancora, invece, anche se non so se si tratti di qualcosa di buono o meno. Poi abbiamo cercato l’imbarco e abbiamo seguito un mare di persone che partivano con lo sguardo sollevato. Ci eravamo allontanati dall’area saluti, quindi la nube non ci seguiva più: era rimasta ad aleggiare sulle teste dei figli che lasciavano le famiglie e i fidanzati che si davano un ultimo bacio – che non è mai l’ultimo, perché ce ne saranno almeno tre prima del decisivo. Mi sembrava di averla causata io, prima di ricordarmi del posto in cui mi trovavo. Le cose non dette rimangono un po’ ovunque, ma negli aeroporti e nelle stazioni di più. I treni ne sono pervasi.
Tornando a parlare di figurine, mi dicono pure che la sua figurina dovrei cancellarla e basta, come nei film horror, quando graffiano via lo sguardo da un’immagine e poi piangono. Forse ho mischiato un po’ le cose: io vorrei piangere, nei film urlano soltanto. A volte muoiono. Quel pensiero invece mi ha sfiorato appena, mentre Olivia sosteneva il contrario perché avevo i capelli colorati e le unghie mangiate. A quanto pare questi sono segni di squilibrio mentale, per lei. Per me sono altri, pure se non ci ho tenuto a farglieli sapere. Avere pensieri suicidi potrebbe essere inserito tra quelli, oppure anche credersi colpevoli pure del buco dell’ozono o sentirsi un puzzle rotto, come se ti avessero rubato il pezzo più importante che alla fine era solo cielo, quindi inutile, ma a te sembra fottutamente fondamentale – capito? Lei era una nuvola per me, poi ho soffiato troppo forte e si è dispersa nel vento per colpa mia. Giuro che non volevo farle male. Ho tirato la corda, forse l’ho soffocata, ma non volevo farle male. Lo giuro. Chissà se l’ha capito.
Siamo rimasti in attesa che imbarcassero per quaranta minuti precisi – il tempo che Manuele mangiasse qualcosa, io scrivessi quello che avevo visto (una bambina tenuta al guinzaglio dalla madre, due ristoranti giapponesi e una sedia rotta a metà) e le hostess di terra si esibissero nei loro migliori sorrisi finti. Poi si è costituita la fila, ma non volevo seguirli perché aspetto sempre che non ci sia più folla per salire sull’aereo. Mi dà fastidio sapere di essere circondata da persone: mi mette ansia, come se la loro fretta si insinuasse in me e mi costringesse a incazzarmi per chi supera o non si muove abbastanza in velocità. Anche Manuele si stressa a seguire code interminabili di gente, quindi ce ne siamo stati buoni buoni a sbocconcellare grissini sulla panchina davanti al gate, con le hostess che ci guardavano male perché stavamo sporcando.
“Dovete partire?” ci hanno chiesto alla fine, quando il tempo di imbarcare era quasi finito e il pullman che doveva prelevare tutti se ne era andato ed era stato sostituito da un altro, più piccolo. Noi abbiamo fatto sì con la testa all’unisono. Quello di Manù, però, era solo accennato; era molto stanco, come se i saluti di Davide lo avessero svuotato di tutta la forza per alzarsi, e sulla sedia di attesa ci stava quasi completamente abbandonato.
“Siamo gli ultimi?” Le tizie hanno annuito. “Allora mi sa che ci dobbiamo muovere” ho continuato, rivolta a lui. L’ho preso per mano, una mano lunga e sottile, e ho trascinato sia lui che la valigia per qualche metro. Non c’è voluto molto per arrivare all’aereo. Il primo corridoio era stretto e lungo, con la moquette blu e le pareti di vetro sporco, così ho deciso di iniziare a correre ma sbandavo. Il mio bagaglio era della massima dimensione consentita per uno a mano, quindi a stento si teneva in piedi da solo, figuriamoci ad essere sballottato da una parte e l’altra. Sembravo ubriaca. Manuele mi ha rivolto un’occhiata rapida. “Non sei più così leggera” ha fatto, con serietà. “Prima era come se ballassi per le strade, senza peso.”
Mi sto ancora chiedendo il senso di quella frase, eppure un minimo ha ragione – è come se mi sentissi un po’ più pensante da quando è successa la cosa. Il bagaglio era solo il mio riflesso; lui l’ha capito e me l’ha detto nel suo modo sibillino, tipico di quando è fatto. Non gli ho risposto nulla, solo ho smesso di correre e l’ho accostato. Abbiamo camminato insieme fino alla scaletta, dove, dopo aver tentato invano di darmi una mano mentre gli intimavo di ‘no, con la tua sono due incudini’, ci siamo separati, entrambi impegnati con le nostre borsone piene di uranio. Dieci mesi sono tanti, vero? 303 giorni in tutto. E pure se studi e continui ad applicarti per tutto il periodo, comunque a un certo punto inizi a sentirli. Il brutto è che io già li pesavo prima di partire, come se fossi una chiaroveggente e prevedessi con certezza che da lì a poco avrei avuto un tracollo di dimensioni stratosferiche.
Manù è arrivato alla porticina prima di me, così ha utilizzato questa scusa per strapparmi il bagaglio dalle mani e trascinarlo lui su. “Sei impedita” mi ha sussurrato all’orecchio e un po’ sorrideva, un po’ no. Io mi sono limitata a mandarlo a fanculo, che ormai conosce perfettamente la strada per arrivarci e ritorna sempre poco dopo che ce l’ho spedito. “Cosa c’è dentro, l’armadio intero?”
Non mi ha dato il tempo di rispondergli a tono che già si era mosso per cercare il suo posto. Il 22B; io avevo il C, che era quello vicino al finestrino. Col senno di poi avremmo fatto meglio ad arrivare dalla coda dell’aereo, invece di partire da davanti, che, con tutte le famigliole felici in viaggio, per ogni passo che facevamo due erano indietro per permettere ai padri di posare le valigie sullo scaffale. Un parto, davvero. Quando ci siamo seduti avevamo il fiatone e a me era venuto uno strano senso di nostalgia. Mi aveva presa nel petto, mentre meno me l’aspettavo, e stringeva come una morsa fino a creare un groppo alla gola. È stato in quel momento che mi sono accorta che, in fondo, io la mia vecchia, incasinata vita non la volevo lasciare per cercarne un’altra come surrogato.
“Tutto bene?” Era come se Manuele se lo stesse dicendo da solo, per convincersi, solo che era diventata una domanda e io mi sentivo in dovere di dargli un cenno di vita. Ho scosso la testa – ‘niente’ – e poi ho chiuso gli occhi, in attesa di sentire le ruote muoversi. Volevo dormire disperatamente. Siamo stati in silenzio per tutto il viaggio. Io ero troppo occupata a pensare alle mie margherite, quelle blu e verdi e gialle che erano rimaste sul balcone a seccare; lui rifletteva in uno stato di dormiveglia, sostenuto precario dal suo tavolino. Niente. Spero che qualcuno gli dia da bere, ai miei fiori, che altrimenti ho incasinato anche quelli, ma non dovevo potevo portarli con me sull’aereo. Sono così selvatici che ci ho messo secoli per trovare il giusto modo di trattarli: a volte anche le persone sono così. Ci possono servire anni per conoscerne davvero una, per capire le sue sfaccettature e individuare dal rumore del suo passo che è lei. Il buffo è che pensavo fosse una stronzata, come la maggior parte delle frasi fatte che caccia Manuele per impressionarmi, ma poi ci fa solo ridere come due dementi. Che idioti, eh? Ispirata da questo suo amore per le frasi fatte e strane, prima di decidere sulla partenza gli ho detto di portarmi a bere dalle pozzanghere, ma non ha capito.
Non mi ero ancora accorta di quante cose non capisse prima di passarci così tanto tempo insieme.
 

 
Angolo dell’autrice;
Salve! Inizio con il ringraziarvi per essere arrivati fino in fondo (<3) e con il dirvi che questa storia è rimasta a marcire nel mio computer per almeno due anni – se non di più – quindi è abbastanza strano che, alla fine, io abbia deciso di pubblicarla. L’ho ripresa in mano di recente (qualche settimana fa) con l’intento di concluderla, perché… mi faceva tristezza vederla incompleta, ecco tutto. Come potete vedere, il prologo è scritto con un carattere piuttosto strano e in prima persona, mentre la parte che ho messo nella trama è in terza. Vi spiego subito il perché: è una pagina di diario, come dovrebbero essercene di tanto in tanto, sparpagliate per la long, ma di norma è scritto tutto in terza persona passato. I capitoli veri – per intenderci, questo lo considero più un’introduzione – sono divisi in tre o quattro parti, per permettermi di seguire le storie dei quattro personaggi principali. Ci tenevo a dirvi che questo primo pezzo è scritto con la grammatica e lo stile del personaggio che lo sta scrivendo, quindi se ci sono voli pindarici o errori grammaticali è parte del modo in cui scrive lei. I suoi strafalcioni non li correggo. E niente, vi sarei immensamente grata se lasciaste anche un commento minuscolo, per farmi capire se la storia vi piace o meno, se vi incuriosisce, se vi fa schifo (capita, eh). Alla prossima! *^*
 
fuoritema
  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: fuoritema