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Autore: Adeia Di Elferas    02/09/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Bartolomea Orsini si stava guardando con occhio critico allo specchio. L'ultimo scontro con i soldati del papa le aveva lasciato un bel senso di soddisfazione, ma anche parecchi lividi.

In più, la notte prima, aveva deciso di montare la guardia, dando il cambio al marito, che era rimasto sui camminamenti tutto il giorno e così si era ritrovata a dover contrastare un attacco improvviso del Duca di Urbino sotto una neve pesante d'acqua.

Non poteva negare con se stessa di essere abbastanza provata da quell'assedio frammentario e dall'esito ancora molto incerto, tuttavia, mentre osservava una volta di più la grossa ecchimosi che aveva sulla spalla, non poteva evitare di pensare che, per essere una donna della sua età, era riuscita a cavarsela ancora bene.

“Come stai?” chiese Bartolomeo d'Alviano, rientrando in camera e vedendo la moglie seduta davanti alla specchiera, le spalle scoperte, i resti di una cena molto frugale sul tavolinetto e indosso solo abiti da camera.

“Il mio unico problema – disse la donna, ricoprendosi e andando a salutarlo con un bacio sulla guancia – è che vorrei avere come minimo vent'anni in meno.”

Bartolomeo fece un sorriso stiracchiato. Detestava quando sua moglie parlava della sua età, soprattutto se lo faceva con quel tono malinconico.

Il più delle volte, lui si dimenticava di aver diciotto anni meno di lei, ma quando la sua donna diceva certe cose, non poteva far altro che farsi attanagliare dalla paura, al pensiero che ormai Bartolomea aveva quasi sessant'anni. Poca gente viveva tanto a lungo.

Con un sospiro, che avrebbe dovuto aiutarlo a pensare meno, l'uomo si cavò gli stivali e andò un momento accanto al fuoco, a scaldarsi.

Quella sera nevicava con forza, come forse mai era successo a Bracciano negli ultimi anni.

I papalini sembravano essersi calmati un po' e anche Guidobaldo da Montefeltro, fino a quel momento molto più bellicoso dell'inetto Juan Borja, aveva abbassato le arie.

Sentendo qualche brivido, Bartolomea preferì stendersi a letto. Aveva dato ordine di essere subito chiamata in caso di bisogno, ma il loro luogotenente poteva bastare, per quella notte di neve. Non si prevedevano attacchi e la donna dubitava che il figlio del papa si lasciasse convincere dal Duca di Urbino a scagliarsi contro il loro castello proprio con quelle condizioni proibitive.

Dopo pochi minuti, Bartolomeo si spogliò e la raggiunse.

Svegliandosi nel pieno della notte, l'Orsini restò per un po' immobile, fissando il camino in cui crepitava ancora un piccolo fuoco. Si poteva sentire il fischio feroce del vento oltre la finestra.

Era stata destata da un sogno orribile, i cui contorni ormai erano già sfumati, e quella vista di morte e distruzione le aveva fatto accelerare il battito cardiaco e provare un forte senso di nausea.

Bartolomeo dormiva in silenzio, come faceva sempre. Era sorprendente come un uomo della sua stazza riuscisse a sembrare un bambino, quando era immerso nei suoi sogni.

La donna si avvicinò un po' di più a lui, muovendosi lentamente per non disturbarlo, e godendosi il calore della sua pelle. Quando stava così appiccicata all'uomo che amava, benché fuori infuriasse la tempesta o la bufera, per Bartolomea i brutti sogni e i problemi non esistevano più.

Mentre si beava di quella sensazione di pace e protezione, si rese conto che quello era il momento giusto.

Non avrebbe mai più trovato il coraggio, altrimenti.

Quei giorni difficili l'avevano messa di fronte una volta per tutte ai suoi limiti e sapeva che, se l'assedio fosse andato avanti ancora, il suo fisico non avrebbe retto.

Non voleva ammetterlo nemmeno con se stessa, ma ormai la realtà era troppo palese per continuare a negarla. Era dolorante e, anche se tra le braccia di suo marito riusciva a non pensarci, i reumatismi alla ossa e la costante sensazione di avere la febbre la tormentavano da giorni, senza darle speranza di remissione.

Con un velo di nostalgia che aveva quasi il sapore amaro della disperazione, Bartolomea tornò a pensare che il suo vero problema era l'età. Se solo avesse avuto l'età di suo marito, o anche solo cinquant'anni, le cose sarebbero state diverse.

Quanta gente conosceva che a cinquantanove anni fosse ancora in grado di sopportare e sopravvivere a un assedio di quella portata? Forse nemmeno suo fratello Virginio, al suo posto, sarebbe riuscito a restare in salute.

“Bartolomeo...” sussurrò.

Recettivo anche nel sonno, come solo un ottimo soldato sa essere, a quel bisbiglio l'uomo aprì subito gli occhi: “Sì?”

Bartolomea fece un profondo respiro, guardandolo nel buio. Riconosceva il viso asimmetrico e gli occhietti incavati che l'avevano incuriosita fin da quando lui era un ragazzino e così, per trovare il coraggio, che continuava a scapparle dalle dita, l'abbracciò con forza.

Premendo il viso contro il petto del marito, l'Orsini disse, a bassa voce, resistendo a stento alla tentazione di non parlare più: “Ti risposerai.”

Bartolomeo la scostò da sé con forza, facendo del suo meglio per riuscire a guardarla in faccia, benché la stanza fosse tinta solo dalla luce distorta del camino: “Che accidenti vuol dire?”

“Io potrei non sopravvivere a questa guerra. È quasi certo che sarà così.” iniziò a dire Bartolomea.

“Non dire assurdità...” si ribellò l'uomo, ormai completamente sveglio.

“Anche se non morissi in questa guerra, ormai sono vecchia. Quanto pensi che resterò ancora su questa Terra?” chiese la signora di Bracciano, cercando la mano ruvida del marito e stringendola con forza nella sua: “Gli Orsini sono finiti. Il papa ci ha scomunicati. Ci ha tolto tutto. A guerra finita, non ci resterà nulla. Appena io non ci sarò più, tu dovrai andartene da un'altra parte e per essere salvo, dovrai risposarti con qualcuno che abbia una famiglia forte alle spalle che possa proteggerti.”

“Io non mi risposerò mai. Io sono tuo marito e basta.” decretò Bartolomeo, mettendosi seduto sul letto, la pelle d'avorio che riluceva spettarle al riflesso delle braci.

“Tu ti risposerai, invece. Io ho deciso così.” lo contraddisse Bartolomea, assumendo il cipiglio che assumeva nel parlare con la soldataglia: “E siccome queste cose non si possono fare in fretta, sappi che ho già scelto con chi ti sposerai, quando io sarò morta.”

L'uomo non sembrava capace di dire altro. La moglie gli si avvicinò e, restando sotto le coperte per via del freddo che la infastidiva come non mai, cominciò a massaggiargli lentamente la schiena, per calmarlo.

“Ho iniziato da parecchio tempo un carteggio con Rodolfo Baglioni e ha acconsentito a farti sposare Pantasilea.” svelò Bartolomea: “Crede che sia stato tu a scrivergli, pensa che tu l'abbia fatto di nascosto da me. Per questo ha accettato. Per questo è ben disposto ad aspettare con pazienza che io muoia. Hanno bisogno di un condottiero come te in famiglia. Loro sono bravi comandanti, ma tu sei uno dei guerrieri più abili e feroci d'Italia.”

“Io non voglio...” sussurrò Bartolomeo, abbassando la testa e stringendosela tra le mani, incapace anche solo di prendere in considerazione una simile ipotesi.

“E invece lo farai.” lo contraddisse l'Orsini, combattendo contro il nodo alla gola che la stava quasi strozzando: “Andrai via di qui, dimenticherai gli Orsini, la sposerai e ci farai pure dei figli.”

L'uomo continuava a scuotere il capo: “No. La sposerò, se è questo che vuoi, ma non avrò mai dei figli da lei.”

“Li avrai, invece!” inveì la donna: “Ti servono degli eredi, se vuoi assicurarti un posto fisso nel loro casato. Pantasilea è giovane, è in salute, ti darà tutti i figli che vorrai.”

“Ma Marco...” sussurrò Bartolomeo, quasi senza fiato.

“Nostro figlio verrà con te.” decretò in fretta l'Orsini: “Lo andrai a recuperare e lo porterai con te, gli insegnerai il mestiere delle armi. A quel punto sarà più al sicuro assieme a te, che non lontano com'è stato fino ad adesso.”

Nominare il loro unico figlio, ormai adolescente, che per motivi di sicurezza era sempre stato tenuto lontano da Bracciano, fu sufficiente per ripiombare entrambi in un profondo sconforto.

Tuttavia, l'Orsini ormai aveva deciso di andare fino in fondo e di convincere suo marito a fare esattamente quello che lei aveva deciso che avrebbe fatto.

Così, quando lui provò ancora una volta a obiettare: “Non potrei mai risposarmi, tanto meno fare figli con un'altra donna... Io voglio solo te.”

“Se mi ami, lo farai, invece.” disse Bartolomea, con durezza, convincendolo a rimettersi coricato e a guardarla: “Tu sei stato l'unico amore della mia vita, l'unico uomo capace di farmi tremare di desiderio. L'unico. Ti basti questo. Ormai, non possiamo avere di più. Io non posso avere di più. Ora per me esiste solo il passato. Tu hai ancora del futuro davanti e farai quello che ti dico.”

Il marito non diceva più nulla. La fissava nella penombra della loro stanza e anche il soffio rabbioso del vento gli pareva un rumore assordante e incomprensibile. Tutto quel discorso gli sembrava qualcosa di surreale.

“Tu hai dato un senso alla mia vita.” continuò la donna, sistemandosi meglio accanto a lui e dandogli un piccolo bacio sul collo: “Ma quando non ci sarò più, io voglio saperti al sicuro. Voglio saperti salvo e protetto. Se non fosse così, non potrei mai avere pace.”

Bartolomeo rimase pensieroso a lungo, e mentre nella sua testa si affastellavano i pensieri più disparati, sua moglie si perse nei ricordi di quando l'aveva visto la prima volta, quando era poco più che un ragazzino, e di quando poi l'aveva ritrovato, ormai uomo, e l'aveva amato.

“Farai quello che ti ho detto?” chiese Bartolomea, il fiato spezzato dall'ansia di sentire la risposta.

“Lo farò, se è questo che vuoi – disse lui lentamente – ma sappi che tu sarai per sempre l'unica donna, per me.”

La moglie allora lo baciò e poi, non curandosi dei suoi dolori e rinforzata dal sollievo di aver finalmente raccontato tutto a suo marito e di averlo trovato collaborante, lo convinse ad assecondarla ancora una volta.

Iniziando a dargli piccoli baci sul viso e poi sul petto, intrecciò le mani alle sue e gli sussurrò nell'orecchio: “Per ora, comunque, sono ancora viva, e all'alba manca parecchio...”

 

“Mi fa piacere rivedervi.” disse Caterina, invitando Simone Ridolfi ad accomodarsi: “Vostra moglie come sta?”

Il fiorentino si sistemò davanti alla scrivania del castellano, dietro la quale si sedette la Contessa.

Fece un sorriso un po' stanco, poi, alzando appena le spalle, su cui restava qualche residuo della neve che aveva affrontato quella mattina durante l'ultimo tratto del suo viaggio, assicurò: “Mia moglie sta bene. Voleva venire a salutarvi, ma prima ho preferito chiedere un colloquio privato.”

La Tigre, che dopotutto non aveva voglia di imbattersi in Lucrezia Feo che con la sua innegabile bellezza le ricordava anche troppo Giacomo, non disse nulla, mettendosi le mani in grembo e facendosi più attenta.

Aveva apprezzato molto il fatto che Ridolfi avesse deciso di passare da Ravaldino, prima di proseguire per Imola, dove avrebbe finalmente preso possesso degli averi della moglie, dimostrando di avere parecchio più buonsenso di Achille Tiberti. Tuttavia non le piaceva affatto scorgere sul suo viso delle rughe di preoccupazione e delle profonde occhiaie.

Da quanto le pareva di ricordare di ricordare, prima di partire per Firenze il volto di Simone era molto più disteso e giovanile.

“Voglio parlarvi con molta franchezza, mia signora.” prese a dire Ridolfi, abbassando lo sguardo e sollevando un sopracciglio: “Firenze non è più come la ricordavo. Anche se mancavo da poco, negli ultimi mesi Savonarola ha stretto come non mai le sue grinfie sulla città, e l'impressione è quella che non si viva più.”

Caterina si morse il labbro, cercando di capire dove volesse andare a parare quell'uomo mastodontico. Si chiese anche se Simone avesse anticipato a Giovanni Medici quel suo discorso e per qualche motivo pensò che non fosse così.

“L'aria è pesante e non si respira. Non c'è più musica, né colori, né entusiasmo. Ovunque si parla di far penitenza, di espiare i propri peccati, di bruciare e distruggere tutto ciò che è bello, anzi, come dice il domenicano: tutto ciò che è vanità.” disse piano il fiorentino, risollevando lentamente lo sguardo e puntando gli occhi in quelli della Leonessa: “La mia famiglia è ancora là, ma io ho consigliato a tutti di scappare almeno in campagna, prima che sia tardi. E i Medici...”

“I Medici..?” chiese la Contessa, inclinando un po' la testa.

“Non dico che siano stati ufficiosamente sfrattati da Firenze, ma con la linea del Popolano in esilio e Lorenzo nelle Fiandre a far finta di seguire i suoi affari... L'unico che potrebbe alzar la voce per difenderli è Giovanni, ma è qui da voi a far finta di far l'ambasciatore...” fece Ridolfi, con la reticenza di chi si sta facendo cavare un dente dal barbiere.

“Pensate che la Signoria potrebbe risentirsi con lui per come sta gestendo i suoi compiti?” chiese la donna, a cui la sorte di Firenze importava molto relativamente, rispetto a quella del Popolano.

“La Signoria l'ha messo alla prova e per ora, pur non avendo fatto grossi disastri, Giovanni si sta dimostrando un ambasciatore degno del tempo di pace, non del tempo di guerra. E noi due sappiamo bene perché sta facendo così.” concluse Simone, con un profondo sospiro.

Caterina era certa che quel discorso stesse pesando e non poco al fiorentino e dunque non si finse oltraggiata per quell'inciso. Anche lei aveva capito benissimo che Giovanni aveva perso di vista la giusta misura e aveva anche capito il perché.

“Avete ragione, vostro cugino trascura troppo i suoi doveri.” confermò, picchiettando nervosamente le dita sulla scrivania: “Vi prego, voi che siete suo parente e suo amico, richiamatelo all'ordine.”

“E se dovessi fallire? Non è facile far cambiare idea a un uomo nelle sue condizioni. Se non riuscissi a fargli capire che le sue speranze sono mal riposte, che dovrei fare?” chiese Ridolfi, molto teso.

Caterina strinse le labbra, nel sentire come il toscano avesse già decretato che le aspettative di Giovanni sarebbero state disattese, tuttavia non diede segno di esserne così contrariata come invece, suo malgrado, era: “In tal caso potreste tornarvene a Firenze, facendogli rimettere il mandato e convincendolo a curare prima i propri affari, abbandonando la carriera diplomatica.”

“Firenze non è più un posto sicuro, per noi.” obiettò Simone, sulle spine.

“Se vostro cugino non dovesse sentir ragione né in un senso né nell'altro e se doveste per questo trovarvi in serio pericolo, sappiate che il mio Stato vi darà asilo.” dichiarò la Tigre, senza doverci pensar sopra nemmeno un momento.

Ridolfi restò colpito dalla rapidità con cui la Contessa aveva preso la sua decisione. Sentendosi sollevato da un enorme peso sul cuore, la ringraziò sentitamente e poi prese da lei congedo, dicendo che avrebbe provato subito a rimettere in riga Giovanni.

Dopo aver guardato uscire Ridolfi, Caterina restò qualche momento ancora alla scrivania, le mani allacciate in grembo e gli occhi rivolti alla finestrella appannata.

Sentì il bisogno di bere qualcosa, ma non aveva la forza di alzarsi per andarsi a prendere una caraffa di vino. Così rimase ferma al suo posto, il cuore in subbuglio e la testa immersa in pensieri tanto confusi da darle quasi il mal di mare.

 

Natale era ormai alle porte e al palazzo di Porta Giovia il domine magister Leonardo andava avanti e indietro senza requie, completamente soverchiato dai preparativi della festa ordinata dal Moro.

Non mancava ormai molto nemmeno al parto di Beatrice, che si aggirava nei corridoi gonfia e ciondolante, con il suo solito codazzo di dame di compagnia, tra le quali, però, non si vedeva più Lucrezia Crivelli, che preferiva restarsene ritirata, anche lei già abbastanza grossa da non poter nascondere più il suo stato a nessuno.

Ludovico guardò con apprensione la moglie entrare nello studiolo, una piccola mano a conca sul ventre e l'espressione un po' dolorante. La giovane congedò le sue ancelle e si andò a sedere sul divanetto lasciato subito libero da Calco.

Il Duca la fissò ancora qualche istante, quasi tentato di ordinarle di andare a riposare, ma poi lasciò perdere. Voleva che anche lei sentisse quello che il loro oratore a Forlì aveva scritto loro.

Calco lesse la lettera con voce piatta e quasi annoiata. Era la quinta volta che il Moro gli chiedeva di farlo e ormai Bartolomeo sentiva di averla imparata a memoria.

“Te l'avevo detto.” fece Beatrice, appena il cancelliere ebbe finito la sua monotona lettura: “Tra loro non è ancora successo nulla. Sei tu che hai corso troppo.”

Ludovico strinse i pugni lungo i fianchi e guardò il soffitto, fuori di sé dalla rabbia: “Ma stiamo scherzando?!” sbottò: “È ovvio che invece tra loro è successo qualcosa! Sono amanti! Quel maledetto fiorentino ha detto quella serie di panzane solo perché si erano messi d'accordo prima!”

“Certo, non hanno di meglio da fare che pensare a come rispondere alle domande assurde che tu fai porre dal nostro povero oratore...” lo prese in giro Beatrice.

Il Duca sollevò l'indice, intimidatorio, ma quando vide la Duchessa toccarsi di nuovo la pancia e stringere gli occhi in segno di dolore, si placò subito: “Stai bene?”

Con un respiro rapido e profondo, Beatrice annuì: “Non è nulla. È colpa di questa umidità...”

Ludovico le diede ragione. Da giorni il nevischio si mescolava a nebbia ghiacciata, come era capitato tante volte anni prima.

“Ricordi?” chiese all'improvviso il Moro, colto da un'immagine ormai lontana nel tempo: “Quando ci siamo sposati, i fiumi si erano ghiacciati...”

Calco si trattenne a stento dal gettare gli occhi al cielo, di fronte a quello slancio di sentimentalismo, mentre la donna parve ben impressionata da quell'osservazione: “Il gelo è da sempre un nostro fedele compagno.”

Quando arrivò uno dei segretari, per parlare delle spese in vista della festa di Capodanno, la Duchessa decise di andarsene e tornò nelle sue stanze a riposare.

Non era da lei trascurare a tal modo quel genere di impegni, ma, anche a detta del medico, quella gravidanza la stava appesantendo in modo notevole e le era fondamentale il risposo. Il dottore aveva perfino osato suggerire al Duca di non avere altri figli, dopo quello, perché la sua signora non aveva il fisico adatto a partorire.

Ludovico attese con pazienza a tutte le incombenze del giorno a cui non poteva sottrarsi e che non poteva in quel periodo nemmeno condividere con Beatrice, e poi, quando capì che per quel giorno la moglie non aveva intenzione di uscire più dai suoi alloggi, si recò al palazzo di suo genero, Galeazzo Sanseverino.

“Che cosa volevate dirmi?” chiese l'uomo, vestito a lutto.

Il Duca lo aveva fatto chiamare con urgenza, non avendolo trovato in casa, eppure ora che l'aveva davanti non sapeva da che parte cominciare.

Sanseverino sarebbe tornato presto a Bobbio, dunque non si poteva attendere.

Dopo aver ordinato a tutti i servi presenti di lasciarli soli, il Moro si avvicinò al genero e gli sussurrò nell'orecchio: “Temo che mia figlia Bianca Giovanna in realtà sia stata assassinata.”

Galeazzo sentì il sangue battere con forza contro i timpani: “Come dite..?” sussurrò, con la gola secca.

“Non so dire chi, ma ci sono delle spie, in casa vostra. State attento ai fratelli Dal Verme. Ho ragione di credere che siano stati loro.” proseguì il Duca, con solerzia: “Guardatevi le spalle, caro Galeazzo e allontanateli da voi, se avrete il minimo dubbio.”

“Perché non li fate arrestare, se ne siete così certo? Perchè non li fate uccidere?” chiese Galeazzo, allontanandosi dal Moro e alzando la voce.

“Perché anche io ho i miei affari da difendere. Non sono cose semplici come le credete voi, che siete solo un soldato e di politica non ne capite nulla.” chiuse il discorso Ludovico.

Quando il Duca ebbe lasciato la sua casa, Sanseverino, con le mani sudate e la mente divisa tra la prospettiva di vedere le promesse dei Dal Verme esaudite e quella di incappare nella vendetta del suo signore, andò nella sua camera e scrisse subito una lettera da spedire quel giorno stesso alla volta di Bobbio.

Si asciugò la fronte con la manica nera del suo abito da vedovo. Guardò la stoffa nera e, con una smorfia, si chiese se davvero presto avrebbe potuto levarselo, facendo un vantaggioso cambio con un abito adatto a un matrimonio.

 

Tommaso Feo aveva accettato di buon grado di avere a cena la sorella Lucrezia e il cognato. Aveva fatto servire un banchetto abbastanza semplice, ma all'altezza della situazione.

Imola era sferzata, proprio come Forlì, da un vento freddo tra le cui raffiche si agitavano minuscoli fiocchi di neve, tanto insistenti da riuscire a infilarsi anche tra le pieghe dei vestiti, dando a tutti quanti la costante impressione di essere fradici fino al midollo.

Finito di mangiare, Lucrezia chiese di potersi ritirare. Per quella notte lei e il marito sarebbero stati ospiti nel palazzo del Governatore e dunque la donna venne scortata nella stanza che Tommaso aveva scelto per loro.

Simone, invece, pareva intenzionato a restare con il cognato ancora un po'. All'inizio Tommaso provò a parlare del più e del meno, ma, ogni volta che l'argomento si esauriva, il fiorentino restava comunque in attesa.

“Voi e mia sorella andate d'accordo?” chiese il Governatore, approfittando dell'assenza di Lucrezia.

“Decisamente sì.” confermò il toscano: “Non sono mai andato tanto d'accordo con qualcuno come con lei. Siamo uguali.”

Tommaso non sapeva dire se quell'ultima affermazione fosse una cosa positiva o meno, ma decise di non sottilizzare e si felicitò con lui per il matrimonio riuscito.

Siccome la conversazione era già ritornata a languire e non era più tanto presto, il Governatore sentì il bisogno di trovare un pretesto che fosse sufficientemente gentile per far capire al cognato che era il momento di lasciare la tavola.

“Ho ancora del lavoro da fare...” disse allora Tommaso, vedendo come Ridolfi non si decidesse a congedarsi: “Ma se volete, potete restare anche voi nel mio studio a leggere qualcosa davanti al camino acceso, mentre io mi occupo degli affari di Stato.”

Il fiorentino accettò di buonagrazia e così i due si recarono nell'ufficio privato del Feo. Sulla scrivania si erano ammucchiati nel tempo fogli e libri contabili di ogni sorta.

A Simone bastò un'occhiata per capire quanto il cognato fosse in difficoltà, in quei giorni.

Quando aveva parlato con Giovanni, a Forlì, poco prima di partire per Imola, Ridolfi aveva chiesto notizie su quello che era accaduto durante la sua assenza e il cugino gli aveva riferito che secondo certi il Governatore Feo fosse deciso a lasciare la sua carica al più presto.

“Ha detto con un paio di suoi conoscenti e anche con il barbiere amico della Contessa – aveva spiegato il Medici – che è stanco e che da quando è morta sua moglie non riesce più a concentrarsi sul lavoro come un tempo e quindi ha paura di fare qualche pasticcio.”

Il fatto che Tommaso si stesse costringendo a lavorare anche quella sera, a Ridolfi lasciò intendere che le voci riferite da Giovanni fossero tutte vere.

Per non sembrare un impiccione, però, ringraziò per la seduta al caldo che gli era stata offerta e scelse un piccolo libro che parlava di Storia antica.

Mentre sfogliava con disinteresse le pagine, però, non riuscì a seguire nemmeno mezza parola. I suoi occhi continuavano a correre al cognato che, una mano tra i capelli e gli occhi strizzati alla pallida luce delle candele, passava in rassegna infiniti resoconti e colossali libri contabili.

Dopo un po', Simone non riuscì più a frenarsi. Chiuse il libro con lentezza, senza nemmeno prendersi il disturbo di tenere il segno infilando l'indice tra le pagine, e si girò verso il Governatore.

“Se volete, posso darvi una mano con quello che state facendo...” si offrì, un po' titubante.

Tommaso lo guardò, apparendo molto tentato di accettare, ma poi riabbassò lo sguardo sui fogli e scosse il capo: “Non posso... Non credo di potere... Si tratta di cose dello Stato di Sua Signoria, non tutti possono...”

“Sono vostro cognato!” esclamò Simone, alzandosi e allargando le braccia: “Se non potete fidarvi nemmeno di me, allora si è messi davvero male!”

Il Governatore si appoggiò allo schienale della sedia e fece un profondo sospiro: “Si tratta di conti complicati. Il bilancio di Imola è tutto fuorché semplice. E in più da quando la Contessa non ha più voluto un Governatore stabile a Forlì, spesso mi arrivano anche i conti della corte da controllare...”

“Vi posso assicurare – fece Ridolfi, mettendosi una mano sul cuore in un gesto plateale – che far di conto è una delle pochissime cose che so fare.”

Vinto dalla stanchezza e dalla solitudine, Tommaso non disse nulla, ma allungò uno dei libri contabili al cognato.

I due uomini continuarono la revisione fin quasi all'alba. In realtà, il Feo si addormentò dopo un paio d'ore, stremato, mentre Simone, più si addentrava in quelle carte, più si rendeva conto di come il cognato avesse trascurato troppi dettagli, negli ultimi mesi.

Prese molti appunti a parte, scoprendo piccoli buchi nel bilancio che, sommandosi, davano origine a un ammanco tutt'altro che trascurabile.

Con il fischio del vento nelle orecchie, Ridolfi, gli occhi pesanti e la schiena dolorante, si accorse che le candele erano ormai quasi tutte finite. Riscosse Tommaso con qualche colpetto sulla spalla e poi gli consegnò i suoi appunti.

Il Governatore, sbadigliando, li lesse e poi sgranò gli occhi: “Ne siete sicuro?”

Simone annuì e poi suggerì: “Cominciate ad arrestare questo – e indicò uno dei nomi che aveva vergato più spesso accanto alle cifre fatte sparire – è il debitore più forte, con quasi tremila ducati totali di ammanco. Dategli una pena esemplare e intimate agli altri di versare ciò che hanno rubato, sotto minaccia di subire il medesimo trattamento del primo.”

Tommaso annuì e lo ringraziò: “Il vostro aiuto è stato prezioso.”

“A buon rendere.” sorrise Simone, e, finalmente, si ritirò per dormire un paio d'ore.

 
   
 
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