Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: A i r a    03/09/2017    1 recensioni
Uno aveva ucciso la persona più cara che aveva.
L’altro aveva bruciato il proprio futuro.
♦♦♦
Uno provava pateticamente a colmare ciò che ormai non aveva più.
L’altro cercava semplicemente un motivo per andare avanti.
♦♦♦
Uno era la personificazione di una notte d’inverno.
L’altro sembrava più una giornata di Sole con il vento.
♦♦♦
Due soggetti, la cui vita cambiò a causa di un errore, accomunati dal fatto di non sapere che a tutti, prima o poi, è concessa la possibilità di ricominciare.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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♦♦♦
2| numeri non contano
 
*** Ore: 15:57  ***
 
Due.
 
Silenzio.
Per Eren fu come essere colpiti ad un polmone da un proiettile di piombo.
L’aria si fece poca e soprattutto dolorosa da mandare giù. Gli occhi sbarrati e la sua figura immobile erano il chiaro segno del suo shock che, un minuto dopo, si trasformò in rabbia.
Si avvicinò alla scrivania accigliato, con due occhi che esprimevano rancore misto a disperazione; ormai nulla lo frenava nel dire quello che pensava, così, sbattendo le mani sul tavolo, urlò:
«Giuro che ve ne pentirete!» Una pausa, irrigidendo il proprio indice davanti al naso del superiore. «E lei, “signor sopracciglio”, sappia che ho sempre sperato che un giorno si strozzasse con quelle sue dannatissime palline da golf!» sbottò. «Fanculo!»
 
Non era certo la prima volta che si avvicinava ad un numero così basso: i tempi del liceo furono difficili ed indelebili come una cicatrice in pieno volto. Immaginava che prima o poi, nella sua miserabile vita, gli sarebbe successo di nuovo ma mai, mai avrebbe immaginato che il lavoro si trasformasse in un conto alla rovescia.
Si era sempre impegnato al massimo nella vita professionale, dedicava – letteralmente – tutto se stesso al lavoro che lo appassionava; il suo colorito e le sue occhiaie lo provavano. Per lui, il lavoro era più importante della sua salute. La sua dieta era fatta da cibo istantaneo riscaldato nel microonde oppure saltava direttamente i pasti pur di scrivere in tempo un articolo degno del giornale per cui lavorava.
Sacrificio dopo sacrificio, pensava che se si fosse impegnato al massimo nessuno avrebbe mai potuto licenziarlo. Pensava che l’impegno e la costanza fossero l’arma vincente per andare avanti nella vita ma la verità era che non importava quanto impegno, quanto sudore, quante lacrime, quante notti insonni si avesse fatto.
Eren l’aveva appena capito: non importa quanto è alto il proprio castello, perché finché è fatto di carte, basta una misera brezza per buttarlo giù. C’è un limite a quanto una persona possa sopportare una certa situazione ed Eren era appena passato ad un numero prossimo allo zero.
 
Uno.
 
Uscì sbattendo la porta con un nodo alla gola che gli impediva di respirare in modo regolare ma dentro di sé, sapeva di essersi liberato di un peso enorme. Finalmente non avrebbe più dovuto assorbire le cazzate del suo superiore come “offrite il vostro tempo al giornale!” oppure “non lo sentite questo profumo? E’ l’inchiostro che marcherà il vostro futuro!”. Odiava quando strillava nel bel mezzo delle riunioni ordinandogli di andare a prendere un caffè ristretto, freddo e con un ombrellino da cocktail che metteva sempre da parte. A che scopo? Cosa ci faceva con quell'ombrellino, lo usava per la sua segretissima collezione di bambole? Mah. Ora non era più affar suo.
Ritornò a casa con un’andatura che ricordava vagamente quella di uno zombie mentre la lucidità che serviva a mantenere un minimo di razionalità se ne stava poco a poco andando.
Era stanco, lo stomaco continuava ad emanare ruggiti che potevano far invidia a quello di un leone in preda alla fame e, ahimè, gli erano rimasti sette dollari che si doveva far bastare per chissà quanto tempo.
Lo stipendio che il lavoro gli garantiva era basato sul lavoro svolto e, tra i soldi detratti per la macchina fotografica e l’affitto, gli rimanevano circa duecento dollari al mese.
Stava per inserire la chiave nella fessura della porta di casa quando notò una lettera sul pianerottolo del suo appartamento. La raccolse dalle gelide piastrelle di terracotta e vide che sopra c’era scritto il suo nome.
L’aprì, azione di cui si pentì subito dopo averne constatato il contenuto che non fece altro che peggiorare la giornata ormai tragica: avviso di sfratto.
 
Zero.
 
Eren aveva raggiunto il punto definitivo per la seconda volta nella sua vita.
 
Rannicchiato sulla scalinata della stazione, guardava la gente andare e venire. Lui, in tutto quel viavai, era l’unico che non si muoveva dal punto in cui era; i suoi pensieri erano talmente contorti e numerosi che qualunque tentativo di muoversi sarebbe fallito.
Avvolto nella sua sciarpa di lana blu, pensava alla causa di tutto quello che gli successe in quella fottuta giornata senza riuscire a trovarla.
Cos’aveva sbagliato? Dove aveva cominciato a sentire quella vocina interiore che lo assillava? Perché invece di ascoltare Armin e andare alla “Colossal” seguì il consiglio di Mikasa? E perché quei due non rispondevano al telefono?
Armin e Mikasa. Mikasa ed Armin. I suoi amici. Perché lui aveva degli amici. Due.
Un maschio e una femmina. Un biondo e una mora.
E poi c’era lui: bruno.
Un trio colorato che si formò alla tenera età di quindici anni, quando la pubertà era ai suoi massimi livelli e i brufoli sul volto erano più frequenti delle sbronze del sabato sera.
«Oi Jaeger, perché non ti difendi?»
«Ehi frocetto, ti piace farti prendere a calci?»
Sospirando, si portò le mani sul viso, coprendolo. Non ci stava più con la testa.
Aveva fame e aveva bisogno di un posto in cui dormire, così, alzandosi e impugnando la valigia piena di oggetti personali, si guardò intorno e mise le mani nelle calde tasche del giubbotto.
Il freddo vento di febbraio si faceva sentire mentre il Sole lasciava spazio alla Luna calante.
Non sapeva dove andare e le persone cominciavano a diminuire, segno che tra poco sarebbe stata ora di cena. All’improvviso sentì qualcosa nella tasca destra del giubbotto, lo prese fuori e vide il piccolo pezzo di carta stropicciato con sopra l’indirizzo di quella mattina.
Alla prima lettura, l’oggetto gli suscitò rabbia e frustrazione.
Alla seconda, i suoi occhi si sgranarono, i denti si strinsero: quella brezza tanto fredda quanto stronza che gli fece cadere il suo castello di carte con uno sgambetto, fu la stessa che non gli fece pensare a come mettere fine ai suoi giorni.
 
Prese il primo taxi che andò da lui e non appena salì, una voce a lui familiare lo accolse con allegria.
«Ci si rivede, giornalista da strapazzo!»
Era lo stesso tipo di quella mattina solo che al posto dei capelli tutti arruffati, aveva un’acconciatura più ordinata.
«Ah. Sei tu.» rispose sistemando la valigia di fianco a lui. «Portami al luogo di stamattina.»
Il ragazzo dai capelli color fieno notò lo stato d’animo del cliente. Pensò che probabilmente gli fosse accaduto qualcosa. Si sapeva che i taxisti dovevano intrattenere il cliente come meglio potevano, per non dimenticare il “fattore ficcanaso” che la maggior parte di loro possedeva. Beh, lui non era da meno.
«Che c’è? Articolo venuto male?» provò ad indovinare.
«Mpf, magari.» Un sorriso amaro. «Sono stato licenziato.»
L’atmosfera era cupa nonostante le luci della strada illuminassero parzialmente l’interno del veicolo insieme ai loro volti. Il conducente se ne stette in silenzio per circa un minuto, poi cominciò un vero e proprio dialogo.
«Ahahahah! Ma dai, seriamente!»
«Ehi bastardo, ritira subito quello che hai detto!»
«Ah ma dai, come hai fatto? Cos’è, ti si è rotta la macchina fotografica?»
Un momento di silenzio precedette un patetico “sì”.
«Ahahah, non ci posso credere! Come ti chiami?»
«Vuoi sapere come mi chiamo così che tu possa diffamarmi? No, grazie. Per te sono solo Marco.» Disse il primo nome che gli venne in mente.
«Io sono Jean Pierre, ma puoi chiamarmi Jean.» Eren non poteva vederlo ma sul volto del ragazzo vi era stampato un sorriso divertito. Sembrava si stesse divertendo. «Senti, questo giro lo offro io, giusto per farmi perdonare, okay?» Era serio, sapeva cosa significasse essere licenziato.
Un’altra pausa ma stavolta, a romperla non fu Jean.
«Jean Pierre… sembra un nome da perfettino.»
«Jean!» Ribadì. «E comunque, se lo fossi non sarei qui a guidare uno schifosissimo taxi con una ridicola statuina di un giocatore dell’NBA.»
Al solo guardare quell’oggetto dal sorriso più grande del volto e la testa che si muoveva ad ogni sobbalzo della macchina, Jean impallidiva. Da qualunque parte lo guardasse sembrava che lo fissasse, così gli mise sopra un fazzoletto di carta bianco con sopra lo scarabocchio di un volto da fantasma. Quell’idea lo rese fiero e soddisfatto, oltre che a renderlo più tranquillo nella guida.
Ne seguì uno strano silenzio in cui Eren cercava di pensare a cosa avrebbe fatto dopo che lo avesse portato a destinazione ma in quel momento avrebbe solamente voluto dormire in un letto caldo.
«Siamo arrivati, Marco.» disse girandosi verso di lui che continuava a stare seduto immobile al centro dei sedili posteriori, mani intrecciate, gomiti appoggiati sulle ginocchia e testa abbassata.
«Mi hai sentito?»
«Grazie» disse forzatamente. «Dubito che ce l’avrei fatta a pagare.»
Uno dei pochi aspetti negativi del suo lavoro, oltre a quella ridicola statuina, era il fatto di non poter fare niente per aiutare i clienti abbattuti come Eren. È vero, non era la persona più altruista del mondo, ma sapeva benissimo come ci si sentisse quando nessuno ti aiuta ad affrontare il mondo.
«Se hai bisogno, questo è il mio biglietto da visita, sai, ho anche io dei clienti affezionati.» Si vantò mentre il giovane uscì dal veicolo assieme alla valigia.
Era abbastanza insolito che un tipo come lui, con la patente da solo due settimane e con una guida da far ritorcere le budella persino ad un campione di rally avesse già dei “clienti affezionati”, ma a Eren, questo, poco importava.
 
Chiuse la portiera salutando con un cenno, dopodiché, davanti a lui, si presentò una via illuminata da vari lampioni e piccole lanterne affissi sulle entrate delle case. Sembrava il tipico quartiere urbano benestante.
Si ricordava più o meno l’edificio in cui quei due ragazzi uscirono e, guardando meglio sulla casella postale, l’indirizzo era quello.
Entrò con un grandissimo colpo di fortuna e, non sapendo come quell’uomo si chiamasse, andò a sentimento.
I nomi incisi nelle targhette d'ottone vicino ad ogni campanello avevano per lui la massima importanza.
Salì le scale, raggiungendo il primo piano.
«Nac Tius.» lesse ad alta voce guardandosi intorno e scrutando dentro lo spioncino.
Si sentiva sporco come un ladro, tanto da sudare più del normale ma doveva farlo. Doveva trovare il colpevole del suo licenziamento perciò, affrontare l’ansia di essere scoperto da qualcuno era il minimo.
Proseguì leggendo nomi come “Thomas Wagner” e “Luke Siss” ma nessuno di loro gli ispirava l’uomo che vide quel mattino.
Salì al secondo piano leggendo il nome di “Dot Pixis”. Guardò dallo spioncino e giurò di aver visto un vecchietto grattarsi il fondoschiena e voltarsi verso la porta d’ingresso. Possibile che lo avesse sentito?
Due secondi dopo, vide la maniglia dell’appartamento di un certo “Marco Bodt” abbassarsi, creando un attimo di panico che lo fece nascondere sulla rampa di scale che portava al terzo piano. Si affacciò quanto bastava per non farsi vedere: quel ragazzo dall’aria gentile non era l’uomo che stava cercando.
Salì al piano successivo e anche l’ultimo.
Non appena mise piede sull’ultimo gradino, dal corridoio sentì un impreco che attirò la sua attenzione.
A sinistra, una porta con affianco una targhetta con su scritti i nomi di “Sasha Blouse e Connie Springer”, mentre quella voce proveniva dall’appartamento a destra. Si avvicinò per leggere il nome inciso sulla targhetta: “Levi Ackerman”. Era abbastanza certo che quell’imprecazione appartenesse allo stesso uomo che incontrò quella mattina; quella sicurezza lo fece bussare alla porta. Quando essa si aprì, la figura che gli si presentò davanti apparteneva ad un uomo accigliato con le pantofole ai piedi.
 
Bingo.
 
La rabbia gli alzò la pressione sanguigna ma la disperazione e la delusione gliel’abbassarono, creando un equilibrio di depressione che caratterizzò l’espressione del più giovane, indecifrabile per l’uomo dai capelli neri come l’umore di Eren.
Davanti a lui si concentrò un metro e sessanta di gelido menefreghismo, ma questo non lo poteva sapere. Voleva insultarlo. Voleva dirgli che aveva buttato giù il suo alto castello di carte ma, effettivamente, non avrebbe capito la metafora. L’istinto di prenderlo a calci si arrestò grazie al buon senso che, per fortuna, prese in mano la situazione.
Il calcio si tramutò in un gesto impulsivo: un indice rigido e accusatorio che puntò verso il viso irritato del più vecchio, sperando di far uscire tutto il risentimento che aveva verso di lui.
«Assumiti le tue responsabilità!»
Silenzio.
E una sonora porta in faccia. Ecco cosa aveva guadagnato da tutta la fatica che aveva fatto.
Aveva trovato la causa del suo licenziamento ed era proprio lì, dietro ad una semplicissima porta blindata di un quintale, in cemento armato, rivestito di piombo e più inespugnabile della cassaforte della banca nazionale.
O almeno era così che Eren la vedeva.
Come poteva quella situazione finire prima di cominciare? Eren questo non lo avrebbe permesso.
Voleva almeno parlargli e così, invece di bussare, suonò il campanello una volta, due volte, cinque, dieci, venti, tantissime volte. Troppe.
La porta si aprì mentre l’ultimo tintinnio finì di riecheggiare nell’appartamento.
«Oi, si può sapere che vuole un moccioso alle nove di sera?»
In un qualche modo ad Eren, la parola “moccioso” detto da un uomo che sarà stato una decina di centimetri più basso di lui, risultò leggermente ridicolo. Si indignò.
«Il moccioso,» fece il segno delle virgolette con le dita. Marcò molto quelle virgolette, ci teneva. «Ha perso il suo lavoro per colpa del tuo sgambetto. È colpa tua se mi si è rotta la macchina fotografica ed è colpa tua se sono stato licenziato!» si sfogò con le mani che tremavano dalla rabbia.
No! Non era lo sguardo intimidatorio e l’assurda capacità nel guardarlo dall’alto in basso di questo Levi a farlo tremare, era la rabbia. La rabbia!
L’uomo appoggiò la spalla sulla soglia della porta con le braccia incrociate e un’espressione tipica di chi non fregava nulla di quello che gli era stato appena detto.
«E cosa vuoi che faccia? Ti devo far da babysitter finché non trovi un nuovo lavoro? Fammi capire.»
In effetti non aveva pensato a cosa potesse fare per aiutarlo.
«Ho perso tutto. Quantomeno vorrei dei soldi come risarcimento.» affermò accigliato mentre la faccia di chi gli stava davanti era palesemente irritata. Molto.
«Un favore…» riformulò meno convinto.
Un sopracciglio alzato lo intimidì nuovamente.
«Un consiglio per andare avanti?»
«Vai a casa, fatti una bella dormita e cercati un lavoro in cui non devi fotografare qualcuno.»
Casa, era questo il punto.
Increspò le labbra amaramente ma senza abbassare lo sguardo. «Non posso.»
Levi notò la valigia alle spalle del giovane e sbuffò chiudendo gli occhi, portando pollice e indice su quest’ultimi, massaggiandoli. Era sfinito, voleva andare a letto e invece gli toccava sorbire i problemi di un ragazzo dall’aspetto simile a quello di un randagio senza casa, salute e lavoro. Pensò che se proprio doveva espiare la sua colpa – perché lui aveva sbagliato e lo sapeva – poteva pensare a qualcosa che potesse avere un vantaggio anche per lui così, con fare meno delicato possibile, gli fece la fatidica domanda.
«Sai spolverare?»







 Schizzo Time 
Bene bene bene. 
Ok, forse non tanto, visto che Eren è stato anche sfrattato.
Oltre al danno pure la beffa. E Levi. 
Anche se Levi... eheh... tante cose.
Mi scuso per la lunghezza del capitolo, forse è un po' troppo lungo, ma ho introdotto Levi ora cosicché il terzo capitolo iniziasse con un giorno nuovo :)
Grazie mille a chi ha messo tra le seguite/recensito/letto la mia ff  T___T davvero.
Un abbraccio ♥
Aira.
  
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