Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: whitecoffee    03/09/2017    3 recensioni
❝“Potresti abbassare il volume della tua maledetta musica? Sono almeno quarantacinque minuti che non faccio altro che sentire “A to the G, to the U to the STD”. Per quanto tu sia bravo a rappare, il mio esame è più importante. Grazie”
-W
“N to the O to the GIRL to the KISS MY ASS”
-myg
“Senti, Agust Dick, comincia a calmarti, che non ci metto niente a romperti l’amplificatore e pure la faccia.”
-W❞
rapper/photographer!YoonGi | non-famous!AU | boyxgirl
-
» Storia precedentemente pubblicata sul mio account Wattpad "taewkward"
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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IV.
Little Ray of Sunshine




“Give yourself a break 
Let your imagination run away”

(SiaSunday)



 
  W I N T E R  
 
 

L’unica nota positiva del mio triste quartiere, era il negozio di alimentari alla fine della strada. Bello grande come un supermercato e con gli scaffali pieni di quelle schifezze preconfezionate pronte da infilare al microonde, per un corretto ed istantaneo assassinio della salute fisica.
Da quando mi ero trasferita nella nuova casa, mangiavo male. Molto, molto male. E saltare i pasti non era un avvenimento raro. Diciamo che i miei standards si erano notevolmente abbassati, e con essi, anche le mie pretese. Evenienza che mi aveva condotta in quel negozio alle tre di pomeriggio, ad indugiare su quale confezione di ramen istantaneo dovessi scegliere. Era sempre così. Carne o verdure? Bianco o nero? Perché il mondo andava avanti sulle dicotomie, forzando gli esseri umani a scegliere una delle due strade, escludendo l’altra?
Ci fosse stata mia madre a vedermi, si sarebbe portata una mano alla bocca, inorridita. E mi avrebbe trascinata a casa, mettendomi davanti ad uno dei suoi abbondanti piatti preferiti, strabordanti di proteine, calorie e grassi saturi. Più o meno come il ramen che avrei dovuto prendere. Ma senza l’aggiunta del sapore di chimico offerto dall’industria. Sospirai.
Avrei dovuto mettermi davanti ai tutorials di Joe Bastianich ed imparare a cucinarmi qualcosa di decente. Non potevo andare avanti in quel modo per sempre. Il mio corpo si sarebbe ribellato, punendomi con una qualsiasi carenza di vitamine, che mi avrebbe fatto invecchiare la pelle prima del previsto, o cose del genere. Pensai che sarebbe stato bello trovare qualcuno con cui pranzare. E con “qualcuno” intendevo uomo, avevate capito bene. Di modo che si sarebbe occupato lui della cucina, mentre io mi sarei fatta viziare, o avrei sperimentato nuove forme di seduzione, come in quel film con Penelope Cruz. Avete presente la scena famosissima, dove lei era bendata e lui le passava un peperoncino sulle labbra? Esattamente.
Mi ritrovai a domandarmi se il mio adorato vicino di casa sapesse cucinare. Ma poi, mi venne da ridere. Quel bastardo scroccone non era capace nemmeno di scollarsi dalla mia connessione dati, figuriamoci se potesse essere in grado di prepararsi un pranzo o una cena.
Avevamo trovato un modo piuttosto bizzarro di comunicare, attraverso i post-it appiccicati sulle porte. Le sue risposte arrivavano ad intervalli di ore, ed erano così impertinenti da mettermi voglia di fare irruzione in casa sua e tirargli dietro uno per uno tutti i suoi strumenti di tortura musicale.
Quattro mesi di permanenza e di Min YoonGi avevo imparato a riconoscere solo la calligrafia. Stretta, disordinata e per niente bella da vedere. Tipicamente da uomo. Mi chiedevo spesso come fosse possibile, per la popolazione maschile, non essere capace d’impugnare una penna nel modo corretto. Tutti i più grandi artisti della storia non erano donne, e ciò avrebbe dovuto indicare la loro estrema bravura nel servirsi degli strumenti di scrittura. Com’era dunque possibile, che il settanta percento dei ragazzi che io conoscessi, sembravano avere delle zappe al posto delle dita? E il mio vicino troneggiava su di loro, brandendo lo stendardo della bruttezza calligrafica, sorridendo con un volto di cui io ancora non conoscevo i tratti. Per la verità, non sapevo nemmeno quanti anni avesse. Ma perché ci stavo pensando?
Mi risvegliai, scuotendo la testa. E protesi istintivamente una mano verso la confezione di ramen con carne, ma accadde qualcosa d’inaspettato. Perché le mie dita si scontrarono con quelle di qualcun altro. Sussultai, ritirando immediatamente la mano.
«Scusami» dissi, alzando gli occhi verso lo sconosciuto. Era un ragazzo, chiaramente asiatico. Non molto più alto di me, probabilmente di un paio d’anni più grande. I lisci capelli biondo platino gli ricadevano sugli occhi, nascondendone parzialmente la loro piccola forma felina. Le palpebre inferiori erano pesantemente cerchiate da affossamenti violacei. Wow. Raggio di sole doveva aver bypassato il sonno per qualche secolo o giù di lì. Nonostante quella preoccupante parentesi vampirica, dovevo ammettere che fosse molto bello. Lineamenti delicati, labbra carnose e rosate, volto ovale privo di imperfezione alcuna. Rimasi colpita dal suo incarnato, candido come la neve. Pareva addirittura più bianco di me, che nella comitiva venivo chiamata “fantasmina” anche d’estate, nonostante avessi vissuto in Florida fino a poco tempo prima. Indossava degli abiti piuttosto dimessi, una felpa verde militare con il cappuccio sollevato, una sbrindellata maglietta bianca con delle stampe e degli skinny neri. Era così esile, che sembrava sparire all’interno dei suoi stessi vestiti. Tanto che mi meravigliai come quel contatto inavvertito non gli avesse polverizzato la mano. Come se fosse stato fatto di zucchero.
«Fa nulla. Prendilo tu» mi rispose, in un inglese strascicato dall’accento vagamente orientale. Per qualche strano motivo, la sua voce mi parve familiare in modo preoccupante. Rimasi perplessa per un attimo, fissandolo. Accennò un mezzo sorriso a bocca chiusa, e prese l’altra confezione. Quella con le verdure. Lo guardai allontanarsi in silenzio. Camminava con tutta la tranquillità del mondo, come se il tempo fosse per lui una dimensione mancante. Spalle strette, schiena dritta. Pareva che nulla potesse turbare la sua indolenza, come un bradipo deciso a trasferirsi da un albero all’altro. Che tipo. Probabilmente, abitava nel quartiere cinese. Ecco perché quel posto sarebbe stato la mia Distrazione Numero Uno. Se gli autoctoni fossero stati tutti come Raggio di Sole, mi sarei laureata a quarant’anni. Perdendo tutto il mio tempo a rimanere abbagliata dalla loro bellezza esotica, guardandomeli sfilare davanti come tante bamboline ad una mostra.
Mi resi conto di essere rimasta lì a seguirlo con lo sguardo per almeno cinque minuti e mi coprii il volto con le mani, arrossendo. Ma perché non potevano piacermi i palestrati con il fondotinta e il cervello extra small? Agguantai la tanto agognata confezione di ramen e mi diressi verso le casse con una vaga disperazione dipinta sul volto. Maledetti asiatici.



 

   
 
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