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Autore: cosmopolitans xo    17/06/2009    5 recensioni
La radio canticchiava sommessamente una ballata dei Beatles, che era stata la preferita di Troy e Gabriella: “Found my way upstairs and had a smoke, and somebody spoke and I went into a dream.”
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gabriella Montez, Troy Bolton
Note: Traduzione, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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A/N: E sono tornata di nuovo, con i diritti della sola trama

 

A/N: E sono tornata di nuovo, con i diritti della sola trama. Vorrei dire che è un’alternative universe… ma non ne sono del tutto certa. La canzone “A Day in The Life” dei Beatles mi ha dato un’idea.

 

Un commento? Per favore? –love- Desireé

 

 

 

Nightmares

 

Note marginali intrecciate tra di loro, note scarabocchiate di sex appeal e pezzi dei loro cuori scritti a matita.

 

UC Berkeley non era ciò che lui si aspettava, ma del resto, lei era stata la sola ragione per cui aveva scelto di andare all’università, a causa del suo sorriso appassionato e lunghe ciglia e risata incantevole. Lui resisteva alle tempeste di progetti e temi e ai boriosi professori a cui non importava niente del suo talento per il basket; malgrado la sua avversione per i leccapiedi che pensano che un rigido coprifuoco imposto al dormitorio sia una buona idea, lui resisteva al cedere al suo femminile compagno di stanza; ventimila feste e nemmeno un adultero bacio da semi-ubriaco. Era un santo al college.

 

Stanford era tutto ciò che lei voleva, ed anche di più. Sua madre era stata elettrizzata quando era andata a trovarlo poco prima del Ringraziamento, così avrebbero potuto tornare ad Albuquerque insieme. Il suo ragazzo, il Principe Azzurro della East High ma un mero essere vivente a Berkeley e che lei vedeva forse una volta a settimana, raramente gestiva qualsiasi problema lei avesse al college. Allo stesso tempo lei aveva ideato un piano, così che ogni volta che non potevano trovare del tempo da passare insieme, potevano sempre lasciarsi qualcosa dietro che l’altro avrebbe dovuto trovare.

 

La biblioteca non era imponente, con degli scaffali corti ed enciclopedie rovinate, ma lei l’adorava. Era una macchia schiaffata nel bel mezzo dei campus, quindi la distanza di guida era pari. “Una biblioteca? Davvero?” chiese lui scettico quando vi si incontrarono la prima volta. Era dicembre, e nuvole di pioggia rombavano nel cielo.

 

Lei sorrise e si allungò per unire le labbra con lui e le sue dita vagarono lungo la spalla di lui, mentre il tessuto della camicia si impigliava leggermente. E poi lei disse: “Devo andare.

 

Cosa? Siamo appena arrivati!”

 

I pendagli del suo braccialetto tintinnarono quando lei indicò il cielo turbolento. Lui protestò rumorosamente, e lei spiegò che aveva lezione dopo venti minuti, e voleva evitare la pioggia al ritorno. Prima di dargli il bacio dell’arrivederci, gli sussurrò nell’orecchio: “Of mice and men di John Steinbeck.

 

La confusione si distese sul viso di lui e le strinse per poco la mano prima che lei gentilmente si staccasse: “Gabriella, per favore, dimmi di cosa stai parlando!”

 

Lei agitò le dita: “Chiamami dopo, Hotshot. e scomparve dietro l’angolo, con la coda di capelli color carbone che si agitava dietro di lei.

 

Troy Bolton e le biblioteche non erano mai stati una gran coppia. Lui aveva affinità con i giornali, i quotidiani, perfino per gli opuscoli… tutto tranne la profonda agonia di quattrocento pagine e un vocabolario datato. Suo nonno lo aveva costretto a recitare svariati passaggi di The Grapes of Wrath all’età di nove anni, e a seguito di ciò, aveva detestato con forza tutto quello che aveva a che fare con la lettura.

 

La bibliotecaria al banco era anziana, incurvata, ed aveva un cipiglio scocciato che lo intimidiva. Troy decise di cercarsi da solo il libro di John Steinbeck, e di conseguenza passò quaranta minuti a vagabondare su e giù per le corsie prima che uno dei computer fosse libero. Quando finalmente lo localizzò, con un po’ d’aiuto da parte di un viscido moccioso che aveva avuto pietà della sua ignoranza, scorse le pagine. Niente.

 

La copia era antica, le pagine erano gialle, ed emettevano un preoccupante odore di naftalina tutte le volte che girava un angolo: “Gesù, Gabriella…” borbottò a bassa voce, stava per dire qualcosa quando arrivò all’indice, e vide una scrittura rotonda e fuori luogo.

 

Congratulazioni, Hotshot. L’hai trovato; adesso è il tuo turno. E solo perché tu lo sappia, mi sono sempre piaciuti i tuoi occhi. Sono di questa magnifica sfumatura di grigio, e diventano blu pallido ogni volta che indossi dei vestiti scuri.

 

Rise, e non si curò che l’irritabile, vecchia bibliotecaria gli avrebbe agitato contro un dito, sdegnosa. Troy si alzò in piedi, e con attenzione ripose Of mice and men al suo posto, mentre considerava quale libro avrebbe vandalizzato in risposta. Il moccioso apparve di nuovo, chiedendogli con tono nasale se aveva bisogno di aiuto una seconda volta. Emma di Jane Austen era convenientemente in mostra, perciò Troy ignorò la domanda e sottrasse il racconto dal suo espositore.

 

Ti ho amata da più di quanto possa ricordare.

 

Questo divenne una tradizione, rovinare proprietà pubbliche solo nel più piccolo dei modi. Per tre anni, si romanzarono con i graffiti di infinite storie e bestseller. Lei lo chiamava con il titolo di un libro, e lui andava a cercarlo, e viceversa. Avanti ed indietro, divenne la giocosa celia che lui aspettava con impazienza ogni giorno.

 

Lei trovò in A Tale of Two Cities di Charles Dickens: Okay, sarò onesto. In terza media, quando mi hai chiesto se quella camicetta che avevi appena comprato era trasparente? Ho detto di no, ma lo era. Eri follemente sexy quel giorno.

 

La risposta di lei gli arrivò nella forma di Froth! The Science of Beer di Mark Denny: Normalmente, mi sarei arrabbiata con te, ma visto che mi hai chiamata sexy, ci passerò sopra. P.S. ho pensato che ti sarebbe piaciuto l’argomento di questo libro.

 

Everything Ravaged, Everything Burned di Wells Tower: La birra è buona, ma tu sei meglio.

 

A Midsummer Night’s Dream di William Shakespeare: A volte mi affascini, altre volte mi scocci, ma non fallisci mai nel farmi sorridere, Wildcat.

 

The Catcher in the Rye di J.D. Salinger: Davvero. Erano secoli che non usavi quel soprannome.

 

Stargirl by Jerry Spinelli: Oh, beh, non sai mai quello che hai finchè non lo perdi. Mi mancava. Hotshot.

 

Ripensandoci, Troy ricordò sorridendo, e passando le dita sopra la parola hotshot, l’inchiostro della penna ancora nuovo e intoccato. Anni dopo, fece un respiro e voltò le spalle alla biblioteca decrepita e agli scaffali e scaffali di libri, ancora sensibile ai frammenti di Gabriella dispersi tra di loro, ed iniziò a piangere.

 

 

---

 

 

La vernice gocciolava lungo il viso di lei come delle lacrime. Lui non riusciva a vedere i suoi occhi, che erano coperti da una nebbia bluastra che lo faceva starnutire: “Mi sei mancata!” cercò di urlare, ma ciò che lui presunse fossero le mani di Dio lo raggiunsero e smorzarono le sue parole “Brie! Brie! Gabriella!”

 

Le mani si dissolsero e lei sorrise e fece scontrare due cembali, un rumoroso bang-bang che quasi gli recò un attacco cardiaco. La guardò, confuso e mortificato, e lei li fece urtare ancora, uno sparo nel petto di lui.

 

Troy scattò a sedere, respirando pesantemente, la cassa toracica che si alzava e scendeva, ed il sudore che gli incoronava la testa. La pelle d’oca si formò sulla sua epidermide, e in quel momento, seppe che non sarebbe stato capace di riaddormentarsi. La cucina gli faceva cenno di condividere uno spuntino di mezzanotte, ma non passò il salotto. “Sharpay!” strillò, scontrandosi e poi sorreggendosi ad una lampada a terra che non ricordava aver lasciato in quell’angolo “Porca, vacca. Che…cosa…fai…qui?” i nervi esausti gli ostruivano la trachea.

 

Lei sedeva sul divano, facendo zapping tra le televendite notturne, i capelli raccolti in uno chignon scomposto e un grande sacchetto di biscotti al suo fianco: “Chad ti ha visto questa settimana, e ha detto che sembravi abbastanza nervoso,” rispose semplicemente, senza staccare gli occhi dalla televisione abbastanza a lungo da incontrare il suo sguardo “E visto che sono ben conscia di dove tieni la chiave di riserva –che, tra parentesi, è orribilmente nascosta, insomma, sotto l’estintore, fai sul serio?- ho pensato che sarei passata per vedere come stavi.” Sharpay si girò finalmente a guardarlo “Ah, Bolton. Sembri una merda.

 

L’orologio sul muro ridacchiò sotto i baffi mentre ticchettava avanti e indietro, urlando dolcemente che empia ora fosse.

 

“La tua preoccupazione, benchè stranamente attraente, non è necessaria,” replicò lui con voce monotona “Tu e Chad non potete continuare ad impicciarvi. Sto bene. Mi sento bene, e sto bene.”

 

Una collana dall’aspetto scadente comparve sullo schermo e Sharpay sbuffò alle gemme chintz: “Impicciarvi? Ti senti bene?” domandò, il gridolino di enfasi che gli bucava le orecchie “Non essere sciocco, giovanotto, la frase è entrata da un orecchio ed è uscita dall’altro,” terminò, usando una voce materna. Lo raggiunse per esaminarlo “Ombra delle cinque, deodorante da drogheria economica, e una maglietta Curiamo la Baia con un buco nella ascella. Sì, sembri davvero una merda.

 

Il candore ruppe delle ferite ricucite di fresco. Lui fece una smorfia e ripensò a quella estate, quella dopo il diploma, quando lui tirava avanti solo a causa di quella dannata Gabriella Montez. Ma la franchezza di lei era classica, piuttosto che insultante. Se avesse potuto vederlo in quel momento, avrebbe detto che lo preferiva quando si rasava, che il suo nuovo profumo era interessante, e i vestiti andavano bene. Aveva sempre avuto un gusto semplice.

 

Gli insulti ricominciarono: “Alito da caffè, capelli sporchi alla Robert Pattinson, orribili pipite…”

 

“Sharpay.” pregò.

 

“E hai di nuovo gli incubi.” terminò secca.

 

Lui avrebbe potuto fingere di non sapere di che cosa stesse parlando, ma una parte di lui stava gridando grazie, grazie, grazie. La maggior parte di tutti gli altri non faceva domande, ma un Evans non cadeva mai, mai nella categoria della maggior parte di tutti gli altri.

 

Lungo la durata del suo collasso, le persone avevano fatto i turni per tenere un occhio su di lui. Chad e Sharpay erano quelli che comparivano più spesso, anche quando c’era stata una ricaduta tra i due vari anni prima, dopo un viaggio d’impulso e qualche sigaretta. Nonostante le decine di maledizioni e gesti rudi che si erano tirati addosso, la loro comune ostilità era invariabilmente insignificante comparata con la Grande Depressione che Troy era diventato.

 

Chad viveva sulla baia, con una moglie trofeo e pareti di vetro che si affacciavano sul ponte; Sharpay faceva avanti ed indietro tra San Francisco e Manhattan, dilettandosi nei piaceri della moda e delle PR. La loro realtà di amici non era mai compromessa dal malumore di Troy, ma lui trovava difficile accettare il fatto che erano praticamente i suoi babysitter.  

 

“Non era un incubo,” insistette “Io non ho gli incubi.”

 

“Per favore,” gli camminò attorno e disse sarcastica “Perché io sono, dopotutto, Troy Bolton, ex stella del basket e ora amato giornalista sportivo del New York Times. Niente potrebbe andarmi male! Assolutamente niente!”

 

Lui la fissò, e pensò di chiamala stronza. Ma poi tutti i momenti di debolezza precedenti, tra il funerale e la terapia e l’orribile disastro di testamento che Gabriella aveva lasciato, gli bombardarono la mente. E durante tutto questo, Chad e Sharpay e il resto del mondo erano rimasti ad aspettare –e a fare il tifo per- lui. Troy si fermò: “Continuo a vederla,” rispose infine, incapace di portare la voce sopra ad un sussurro “Lei arriva e mi schernisce e tutto quello che faccio è vederla. E non voglio.”

 

Le rughe del sorriso sul suo viso erano poche e poco profonde, e lei tracciò mentalmente le pieghe di stress e trauma attorno agli zigomi: “Va bene sentire la sua mancanza, sai,” rispose “Non c’è limite all’addolorarsi.”

 

“Non farlo.” disse, con la voce che si spezzava, proprio come avrebbe fatto lui in pochi minuti.

 

“Essere andata non è uguale ad essere dimenticata, Troy.

 

“Fermati, Sharpay. Non ho bisogno…” ma lui non sapeva come finire quella frase, perché in verità, Troy Bolton non funzionava da solo. Tutta la sua vita era girata attorno a non c’è unio’ nella ‘squadra’, o la famiglia che vive insieme sta insieme. Era, al momento, non ciò di cui aveva bisogno, ma ciò che voleva.

 

L’appartamento, nel suo vuoto stato d’animo, il tipo che lui amava di più, divenne sempre più rumoroso finchè lui non gridò perché smettesse. Una sinfonia di clacson delle auto da sotto, una sveglia sul piano sopra di loro, un udibile in modo imbarazzante atto sessuale dai vicini in fondo al corridoio. Il rumore lo stava soffocando, e lui cadde sul pavimento, una frazione dell’uomo che Gabriella Montez aveva sempre insistito che fosse.

 

The Wonderful Wizard of Ozz di L. Frank Baum: Mi piace pensare a te come al mio Tuttofare. Puoi fare qualunque cosa.

 

Sharpay andò a sedersi accanto a lui, e gli appoggiò una mano sulla schiena: “Ti è permesso sentire la sua mancanza,” disse, con una voce abbastanza calma perché lui la sentisse davvero “Io sento la sua mancanza, ed anche tu puoi.”

 

Lui odiava che Sharpay potesse vederlo così. Troy non piangeva mai. E quando aveva trovato Gabriella, sanguinante su tutto il pavimento del bagno, una persona completamente diversa dall’adorabile ragazza nello chalet a Capodanno, aveva pensato che, forse, non sarebbe caduto in pezzi. Lei non avrebbe voluto che lui stesse così.

 

E quindi ora, cinque anni più tardi mentre Sharpay Evans fingeva che ciò era tutto normale e finalmente lui si lasciava andare, gli incubi cominciarono a circolare, guardando e aspettando e ridendo.

 

 

---

 

 

Lei stava camminando lungo il marciapiede, con un vestito corto e dei sandali, mentre diluviava, e agitava i fianchi e si alzava ogni tanto sulle punte, come danzando tra le gocce di pioggia. Lui corse dietro di lei, finchè cadde in una pozzanghera crudele, solo più larga e profonda di qualche centimetro di quanto si possa immaginare.

 

“Gabriella!” urlò, muovendo freneticamente le mani “Gabriella!”

 

Qualunque cosa fosse –colpa, compassione, noia- che decise che lei si sarebbe girata e si sarebbe unita a lui, ne era grato. Lei nascose un’alzata d’occhi e cadde accanto a lui con indifferenza, nella pozzanghera così ambiguamente mostruosa che lui iniziò a confonderla con un oceano.

 

I suoi vestiti iniziavano a diventare pesanti, boccheggiò, tenendosi a galla. Troy calciava più forte che poteva per evitare di affogare. Al suo fianco, Gabriella galleggiava allegramente, i capelli raccolti da una fascia dorata, ciuffi di nero arricciati in cima. Gli ricordava una dea.

 

“Sei piuttosto carino quando sei vulnerabile.” gli disse con tono pratico.

 

“Gesù, non riesco…” lui inghiottì una disgustosa boccata di acqua nera e tossì “Gabriella, che sta succedendo?”

 

“Svegliati, Hotshot,” gli rispose, allargando le braccia attorno a lei per un momento “Deve finire. Non hai tempo per rimuginare su di me.” scivolò sotto la superficie, e Troy aspettò, finchè lei non lo tirò per le gambe e lui affondò con lei.

 

 

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Il giugno del suo ultimo anno di college era stato un triste periodo per Troy. Era rimasto impotente mentre riceveva il suo diploma, e sentiva gli applausi dei suoi genitori e degli altri parenti tra il pubblico: “Siamo così fieri di te!” gli aveva poi detto Lucille Bolton, stringendolo tra le braccia.

 

Le loro lauree erano state adiacenti, quella di lei pochi giorni dopo quella di lui. E mentre il rettore a Stanford stava sul podio, chiamando studente dopo studente, e saltando il triste nome Montez, lui aveva distrutto le lacrime che minacciavano la sua mascolinità di fronte a perfetti sconosciuti che avevano presunto che lui fosse stato solo un altro ospite, seduto in fondo, testimone della cerimonia.

 

Quella notte era ritornato a casa, con le chiavi lanciate sul pavimento e la cravatta appesa come un cappio attorno al collo. Non aveva notato questa scura coincidenza nelle ombre del suo appartamento vuoto. A mezzanotte, era svenuto con una moltitudine di bottiglie di birra sul divano, e quella era stata la prima volta in cui era arrivato un incubo.

 

“Wildcat, Wildcat, can’t be bought! Run, run, run and make your shot!” cantò Gabriella, e scosse i ponpon, rossi e bianchi come i colori della East High. I cori erano sempre stati stupidi.

 

Lui si appoggiò al muro di mattoni, e inclinò una bottiglia di birra contro le sue labbra. Si trovavano in un vicolo: “Ah,” ruttò “Non sei mai stata una cheerleader, Brie.”

 

“Oh?” lei si girò e sorrise civettuola “Ma così, sono come tutti gli altri.”

 

La birra finì e lui lasciò cadere la bottiglia. Il vetro s’infranse al contatto con il suolo: “Cosa? No, no, tu non sei come tutti gli altri. Tu sei diversa.”

 

“Provalo!” gridò, e corse a fare una ruota. Le mani schizzarono nelle pozzanghere, e i palmi si ritrovarono sporchi. Lo sporco presto divenne del sangue e lei incominciò a ridere “W-I-L-D: Wildcats! Go-o-o-o team!”

 

Lui corse dietro di lei, le sue mani che le stringevano il torso come una cintura di sicurezza. Lei si liberò divincolandosi e sorrise alla deserta fine del vicolo: Oh, baby, baby, you make me feel so alive.”

 

 

---

 

 

Nei suoi vecchi diari del college, Sharpay Evans aveva scritto quanto sentisse molto la mancanza di Chad Danforth. Descriveva ogni suo aspetto, dalla testa ai piedi, in dettaglio, con espliciti aggettivi che sapeva avrebbero fatto arrossire i suoi genitori conservativi. Per un weekend nell’aprile dell’ultimo anno, il sabato del suo compleanno, lei e il signor Danforth si erano riuniti. Il loro sesso riparatore era stato emozionante, passionale, ardente e di cuore. La notte in cui avrebbe dovuto festeggiare ventidue anni dietro di lei, e molti altri davanti, aveva ricevuto una terrificante telefonata da suo fratello.

 

“Ryan!” aveva detto allegra, singhiozzando mentre la bocca di Chad si muoveva attraverso il suo corpo. Ridacchiò ed esclamò “Buon compleanno, fratello gemello!”

 

“Sharpay,” aveva tentato lui all’inizio, ma lei non lo stava ancora ascoltando.

 

“Ventidue! Riesci a crederci? Possiamo bere ed essere brilli! Oh, sì, possiamo fare quello che vogliamo!”

 

Lui aveva ricominciato: “Sharpay, aspetta…”

 

“Chad! Smettila!” aveva riso, e poi “Ooops. Non penso che avresti dovuto sentirlo, gemello. Oh beh! È il nostro compleanno! Chi diavolo se ne frega?”

 

Sharpay.”

 

Allora lei aveva sbattuto le palpebre e si era messa a sedere, e Chad si era irritato perché la chiusura del reggiseno era sfuggita dalla sua presa. Sharpay aveva guardato l’orologio: erano da poco passate le undici. A New York, sarebbero dovute essere le due del mattino: “Ryan, perché sei in piedi così tardi? Tu… stai festeggiando?” aveva domandato, sperando per una dolce risposta. Il suo tono l’aveva spaventata.

 

“No, non è per questo che ti sto chiamando,” aveva risposto paziente lui, e lei aveva increspato le labbra “Vorrei poterlo dire in una… maniera meno brusca, ma c’è stato un incidente. Beh, no, non è stato poi un incidente, ma non è una buona cosa, Sharpay.

 

E così, quando avrebbe dovuto soffiare sulle candeline e ballare le canzoni di Lady Gaga e pomiciare con Chad Danforth, Sharpay Evans aveva scoperto che i due amanti che erano destinati a stare insieme erano stati spezzati da un proiettile preso a prestito ed una sorprendente spirale di depressione che sarebbe dovuta arrivare prima sul resto del mondo che su questa innocente coppia di anime gemelle.

 

“Il funerale è sabato.”

 

Quando aveva sentito ciò, era stato come uno scoppio sonico nella sua testa, e tutti avevano cominciato a correre in direzioni diverse.

 

The Curious Case of Benjamin Button di F. Scott Fitzgerald: Sei come un fulmine. Sparito in un momento, ma, dopo, arriva il tuono, e tutti noi ricordiamo che sei ancora qui.

 

 

---

 

Ciò che lo infastidiva di più, all’età di ventisei anni, era che lei non aveva nemmeno pensato di dire addio. Le loro ultime parole, se le ricordava specificatamente, erano state “Chiamami dopo, bellissimo diavolo” e “Certo, ragazza sexy.”

 

Niente di simile a “Ti amo” o “Significhi il mondo per me” o “Non è colpa tua.”

 

Avrebbe potuto sistemarlo, ma la responsabilità che aveva come ragazzo e migliore amico era stata annientata.

 

Ci viveva, ogni giorno.

 

E tutti gli altri gli dicevano altrimenti. I suoi genitori, quando andavano a trovarlo, seguivano una formula. A cena, chiacchierano un poco, prima che Lucille si tuffi nel mondo di Gabriella, e Troy dica che non gli importa, che è andato avanti, e Jack si trattiene dall’alzare gli occhi al cielo e fissa il vuoto mentre sua moglie, che sia benedetta, continua a divagare e peggiorare le cose.

 

Sharpay gli aveva spiegato che Gabriella non era felice, e benchè lo amasse moltissimo, a volte l’Hotshot non poteva fare tutto.

 

Chad gli aveva passato una birra e detto che non sarebbe stato un male se si fossero ubriacati. Tutti hanno il proprio metodo di essere in lutto.

 

Quattro anni: il giorno lo aveva raggiunto di soppiatto, nel bel mezzo della settimana lavorativa, mentre era a pranzo con un cliente. Si fermò all’improvviso, mentre l’uomo d’affari blaterava, e il respiro gli si fermò in gola, come se il suo subconscio stesse costruendo un muro e negasse il passaggio delle sue emozioni. “Mi scusi,” disse, e si alzò in piedi, lanciando il tovagliolo sopra il cibo toccato a malapena “E’ un emergenza… dovremo posporre l’appuntamento.”

 

Mentre abbandonava il ristorante, sentì le gambe che quasi cedevano, ma raggiunse l’aria fresca in tempo. Troy si chiese se Gabriella lo stesse seguendo, parlandogli dolcemente nell’orecchio come aveva sempre fatto.

 

 

---

 

 

Questa volta, lei parlava solo con i rumori del telefono. “Dio, dannazione”, disse bruscamente, rivolto allo spazio dietro di lei, rifiutando di guardare nei suoi occhi “Gabriella, sono davvero stanco di questi giochi. Sono troppo vecchio per giocarvi.

 

Le sue labbra si aprirono; tre squilli, ad alto volume, prima di una coppia leggera di bip.

 

“Non ti capisco, ma tu stai cercando di parlarmi. Non funziona. Non può funzionare. aprì i pugni, calmando la sua rabbia “Non so quello che stai dicendo. O componendo. Come vuoi.”

 

Dei toni medi caddero dalla sua bocca e lei sorrise, portandosi la mano al viso. Il pollice e il mignolo si sollevarono, e la mano sembrò un telefono. “Chiamarti?” chiese lui, sull’orlo della disperazione. Una nota.

 

Infine, lei parlò nella lingua di lui: “Qualunque cosa pensi tu ti possa aggrappare, deve essere lasciata andare. Ed inizia raccogliendo i pezzi che hai rotto quattro anni fa. Wildcat, sei sempre stato così stupendo. Mi manchi, bellissimo diavolo.

 

Aprì gli occhi prima di poterla chiamare ragazza sexy. Era l’alba, e la penombra stava appena iniziando a bussare alla finestra. L’appartamento profumava come d’estate, e lui respirò profondamente. Il telefono vicino al letto squillò, e lui lasciò che andasse in segreteria: “Ciao, siamo Troy e Gabriella. Adesso non siamo disponibili, quindi lasciateci un messaggio, e vi richiameremo!”

 

I suoi genitori erano entrambi d’accordo che avrebbe dovuto cancellarlo. Chad pensava che fosse strano, ma comprensibile tenerlo. Sharpay gli aveva dato dei colpi tristi sulla spalla mentre lui saltava l’ennesimo messaggio pubblicitario, che avrebbe per sempre ignorato che la ragazza gentile sulla registrazione era morta, e quindi non avrebbe potuto richiamarli.

 

Un giorno, il messaggio della segreteria telefonica sarebbe stato cancellato, o lui sarebbe stato costretto a comprare un nuovo telefono, un altro pezzo di Gabriella rimosso, obliterato, raschiato via. Ogni volta che era obbligato a realizzare ciò, andava a frugare nel suo armadio per la scatola di ricordi che lei aveva così sfacciatamente creato nelle settimane prima che lui la trovasse, sanguinante su tutto il bagno.

 

Il testamento era seppellito sul fondo. Era infilato sotto la nappa dal suo cappello del diploma, la prima A su tema d’inglese del liceo, il braccialetto da tennis che aveva ereditato da una lontana zia che non aveva mai indossato, e una Polaroid di loro due al Ballo. Benchè lui volesse essere nostalgico, ignorò i gingilli e infine prese fuori quello che stava cercando.

 

Era scritto in modo goffo, quasi di fretta e un po’ falso. Nonostante ciò, affermava conciso e diretto che Troy aveva diritto ad ognuna e tutte le sue proprietà, se e quando lei avrebbe avuto bisogno di un beneficiario. Lui sospirò e accartocciò il foglio tra le mani, prima di sibilare: “Merda!” sottovoce e lisciarlo attentamente.

 

Il retro non era mai stato osservato, semplicemente perché non c’era mai stata ragione di farlo. Ma lui vide qualcosa che subito sperò di aver visto anni prima, un tratto di matita dolce e una grafia familiare: All the King’s Men di Robert Penn Warren.

 

La biblioteca era, come sempre, una macchia schiaffata nel mezzo di Berkeley e Stanford, trentadue virgola sette miglia tagliate a metà. Lui guidava e le strade cominciavano a diventare trafficate, il giorno iniziava per il resto della civiltà. Realizzò, troppo tardi, che la biblioteca non avrebbe aperto così presto. Alla porta, spiò dentro al vetro, e notò una donna al bancone.

 

Non era la bibliotecaria che era anziana, incurvata, con un cipiglio scocciato ed intimidante. Questo rimpiazzo era più giovane, più magra, stava dritta, e in qualche modo sembrava amichevole. Bussò piano sul vetro e lei guardò in su, e alzò un sopracciglio. Arrivata alla porta, la aprì con cautela: “Posso aiutarla?” chiese.

 

Troy fece un respiro profondo: “Mi stavo chiedendo se avete All the King’s Men di Robert Penn Warren. Io… io ne ho bisogno. Mi piacerebbe darci un’occhiata.

 

La donna sorrise: “Oh. Beh, non apriamo fino alle otto…”

 

“Lo so,” la interruppe “Senta, mi dispiace davvero, sono appena le sette, ma non può aspettare. Io non posso aspettare. Per favore?”

 

Lei riflettè per un momento. Lui avrebbe potuto essere un freddo assassino spietato, che era anche un bravo bugiardo. Avrebbe potuto essere un ladro, che era così insignificante da svuotare il registratore di cassa sotto il banco che conteneva non più di venti dollari per la multa della consegna in ritardo dei libri. Oppure, avrebbe potuto essere qualcuno che non era mai stato a contatto con la letteratura, ma alla fine aveva trovato una ragione per riconsiderarla.

 

La giovane bibliotecaria scelse l’ultima opzione, e lo lasciò entrare.

 

All the King’s Men fu facile da trovare. Troy si era ricordato di raffinare le sue capacità di trovare un libro, dopo così tante note passate avanti e indietro. Prese la sola copia sullo scaffale e la soppesò tra le mani: più pesante di quanto si aspettasse, probabilmente una fantastica storia da leggere un giorno. Ma in quel momento, non gli importava. Si mosse tra le pagine, sopra e sotto, da una parte e dall’altra nella speranza di trovare quel corsivo che gli mancava parecchio.

 

Quando leggerai questo, se mai lo leggerai, suppongo che all’inizio sarai arrabbiato con me, e infelice delle circostanze.

 

Si pietrificò, e i suoi occhi rubarono la prima frase, derubandola della sua riservatezza. Lei conosceva la linea temporale. Aveva capito che non ci sarebbe stata quando alla fine lui avrebbe letto ciò.

 

Ma ho bisogno che tu sappia che hai reso la mia vita davvero molto migliore di quanto avrebbe mai potuto essere, nel passato, presente o futuro.

 

Lacrime traballarono sulle sue ciglia. Tremò e la giovane bibliotecaria a pochi passi di distanza decise di lasciarlo da solo.

 

So che sei forte.

 

Lui replicò: “Per una volta, avevi torto.

 

Per favore, non ti punire. Non sprecare il tuo tempo con me, perché so che hai tanto per cui vivere, ed io sarò con te, ad ogni tuo passo, lo prometto.

 

“Le promesse sono fatte per essere mantenute. disse spiccio, e le sue mani tremarono attorno alle pagine. All the King’s Men probabilmente era un libro triste; doveva esserlo.

 

L’universo aveva dato loro tutto; erano stati porti l’uno all’altra su un piatto d’argento, una coppia di microfoni e qualche miserabile produzione teatrale del liceo. Ma l’universo li aveva persi di vista, come aveva perso di vista Brad e Jennifer, Leo e Gisele, e Ryan e Rachel. Due bambini irreprensibili cadevano tra le crepe e il risultato era oltre il tragico.

 

Sarò sempre lì, Hotshot. E tu puoi crescere forte. Hai ancora una chance. Ho sempre saputo che eri il migliore ragazzo di cui innamorarsi, ed il migliore ragazzo da cui essere riamata.

 

Gli incubi erano il suo modo di parlargli, di dirgli di andare avanti, finchè avrebbe potuto vedere quest’ultimo messaggio, la parola d’onore che pensava non avrebbe mai udito. Mentre la giovane bibliotecaria chiudeva un occhio e trafficava al suo banco, lui scrisse nello stesso libro, qualcosa che non aveva mai fatto prima, lentamente, per assaporare il momento mentre si prendeva in giro credendo che stesse parlando davvero con Gabriella, e che lei stesse ascoltando davvero.

 

All the King’s Men di Robert Penn Warren: Sono un disastro senza di te. Non so che fare, ed ogni volta che qualcuno cerca di organizzarmi un incontro al buio, mi piacerebbe strangolarlo. Sono passati quattro anni e ancora mi sento come se fosse solo ieri. Ancora non ho capito perché te ne sei andata, e dubito che lo farò mai. Voglio pensare che avrei potuto salvarti. Ma Sharpay dice che a volte l’Hotshot non può fare tutto. Mi manca sentirti che mi chiami Hotshot.

 

Gli incubi non lo seguirono a casa, e nel sedile del passeggero del suo pick-up, la immaginò seduta, il vento che le agitava i capelli mentre abbassava il finestrino e le note marginali intrecciate tra di loro, le stesse note scarabocchiate di sex appeal e pezzi dei loro cuori scritti a matita. “Il mio Wildcat,” la sognava dire con voce musicale “Il mio angelo, il mio incubo, il mio Wildcat.”

 

La radio canticchiava sommessamente una ballata dei Beatles, che era stata la loro preferita: “Found my way upstairs and had a smoke, and somebody spoke and I went into a dream. la canzone collegava il presente e la vita nell’aldilà, e la canzone continuò, un processo di guarigione mentre Gabriella continuava a parlargli dolcemente nell’orecchio come aveva sempre fatto.

 

I’d love to turn you on…

 

  
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