A/N: E sono tornata di nuovo, con i
diritti della sola trama. Vorrei dire che è un’alternative universe… ma non ne sono del tutto certa. La canzone “A Day in The
Life” dei Beatles mi ha dato un’idea.
Un commento? Per favore? –love- Desireé
Nightmares
Note
marginali intrecciate tra di loro, note scarabocchiate di sex appeal e pezzi
dei loro cuori scritti a matita.
UC Berkeley
non era ciò che lui si aspettava, ma del resto, lei era stata la sola ragione
per cui aveva scelto di andare all’università, a causa del suo sorriso
appassionato e lunghe ciglia e risata incantevole. Lui resisteva alle tempeste
di progetti e temi e ai boriosi professori a cui non
importava niente del suo talento per il basket; malgrado la sua avversione per
i leccapiedi che pensano che un rigido coprifuoco imposto al dormitorio sia una
buona idea, lui resisteva al cedere al suo femminile compagno di stanza;
ventimila feste e nemmeno un adultero
bacio da semi-ubriaco. Era un santo al college.
Stanford
era tutto ciò che lei voleva, ed anche di più. Sua madre era stata elettrizzata quando era andata a trovarlo poco prima del
Ringraziamento, così avrebbero potuto tornare ad Albuquerque insieme. Il suo
ragazzo, il Principe Azzurro della East High ma un mero essere vivente a
Berkeley e che lei vedeva forse una volta a settimana, raramente gestiva qualsiasi
problema lei avesse al college. Allo stesso tempo lei
aveva ideato un piano, così che ogni volta che non potevano trovare del tempo
da passare insieme, potevano sempre lasciarsi qualcosa dietro che l’altro
avrebbe dovuto trovare.
La
biblioteca non era imponente, con degli scaffali corti ed enciclopedie
rovinate, ma lei l’adorava. Era una macchia schiaffata nel bel mezzo dei
campus, quindi la distanza di guida era pari. “Una biblioteca? Davvero?” chiese
lui scettico quando vi si incontrarono la prima volta.
Era dicembre, e nuvole di pioggia rombavano nel cielo.
Lei
sorrise e si allungò per unire le labbra con lui e le sue dita vagarono lungo
la spalla di lui, mentre il tessuto della camicia si impigliava leggermente. E
poi lei disse: “Devo andare.”
“Cosa? Siamo appena arrivati!”
I pendagli
del suo braccialetto tintinnarono quando lei indicò il
cielo turbolento. Lui protestò rumorosamente, e lei spiegò che aveva lezione
dopo venti minuti, e voleva evitare la pioggia al ritorno. Prima di dargli il
bacio dell’arrivederci, gli sussurrò nell’orecchio: “Of mice and men di John Steinbeck.”
La
confusione si distese sul viso di lui e le strinse per poco la mano prima che
lei gentilmente si staccasse: “Gabriella, per favore, dimmi di cosa stai
parlando!”
Lei agitò
le dita: “Chiamami dopo, Hotshot.” e
scomparve dietro l’angolo, con la coda di capelli color carbone che si agitava
dietro di lei.
Troy
Bolton e le biblioteche non erano mai stati una gran coppia. Lui aveva affinità
con i giornali, i quotidiani, perfino per gli opuscoli… tutto tranne la
profonda agonia di quattrocento pagine e un vocabolario datato. Suo nonno lo
aveva costretto a recitare svariati passaggi di The Grapes of Wrath all’età di nove anni, e a seguito di ciò, aveva
detestato con forza tutto quello che aveva a che fare con la lettura.
La
bibliotecaria al banco era anziana, incurvata, ed aveva un cipiglio scocciato
che lo intimidiva. Troy decise di cercarsi da solo il libro di John Steinbeck,
e di conseguenza passò quaranta minuti a vagabondare su e giù per le corsie prima che uno dei computer fosse libero. Quando
finalmente lo localizzò, con un po’ d’aiuto da parte di un viscido moccioso che
aveva avuto pietà della sua ignoranza, scorse le pagine. Niente.
La copia
era antica, le pagine erano gialle, ed emettevano un preoccupante odore di
naftalina tutte le volte che girava un angolo: “Gesù, Gabriella…” borbottò a
bassa voce, stava per dire qualcosa quando arrivò
all’indice, e vide una scrittura rotonda e fuori luogo.
Congratulazioni, Hotshot. L’hai
trovato; adesso è il tuo turno. E solo perché tu lo sappia, mi sono sempre
piaciuti i tuoi occhi. Sono di questa magnifica sfumatura di grigio, e
diventano blu pallido ogni volta che indossi dei
vestiti scuri.
Rise, e
non si curò che l’irritabile, vecchia bibliotecaria gli avrebbe agitato contro
un dito, sdegnosa. Troy si alzò in piedi, e con attenzione ripose Of mice and men al suo posto, mentre
considerava quale libro avrebbe vandalizzato in
risposta. Il moccioso apparve di nuovo, chiedendogli con tono nasale se aveva
bisogno di aiuto una seconda volta. Emma di
Jane Austen era convenientemente in mostra, perciò Troy ignorò la domanda e
sottrasse il racconto dal suo espositore.
Ti ho amata da più di quanto possa ricordare.
Questo
divenne una tradizione, rovinare proprietà pubbliche solo nel più piccolo dei
modi. Per tre anni, si romanzarono con i graffiti di infinite storie e
bestseller. Lei lo chiamava con il titolo di un libro, e lui andava a cercarlo,
e viceversa. Avanti ed indietro, divenne la giocosa celia che lui aspettava con
impazienza ogni giorno.
Lei trovò in A
Tale of Two Cities di Charles Dickens: Okay, sarò onesto. In terza media, quando mi hai chiesto se quella camicetta che avevi
appena comprato era trasparente? Ho detto di no, ma lo era. Eri follemente sexy
quel giorno.
La
risposta di lei gli arrivò nella forma di Froth!
The Science of Beer di Mark Denny: Normalmente,
mi sarei arrabbiata con te, ma visto che mi hai chiamata sexy, ci passerò
sopra. P.S. ho pensato che ti sarebbe piaciuto l’argomento di questo libro.
Everything
Ravaged, Everything Burned di Wells Tower: La birra è
buona, ma tu sei meglio.
A
Midsummer Night’s Dream di William
Shakespeare: A volte mi affascini, altre volte
mi scocci, ma non fallisci mai nel farmi sorridere, Wildcat.
The
Catcher in the Rye
di J.D. Salinger: Davvero. Erano secoli
che non usavi quel soprannome.
Stargirl by Jerry Spinelli: Oh, beh, non sai mai quello che hai finchè non
lo perdi. Mi mancava. Hotshot.
Ripensandoci,
Troy ricordò sorridendo, e passando le dita sopra la parola hotshot, l’inchiostro della penna ancora
nuovo e intoccato. Anni dopo, fece un respiro e voltò le spalle alla biblioteca
decrepita e agli scaffali e scaffali di libri, ancora sensibile ai frammenti di
Gabriella dispersi tra di loro, ed iniziò a piangere.
---
La vernice gocciolava lungo il viso
di lei come delle lacrime. Lui non riusciva a vedere i suoi occhi, che erano
coperti da una nebbia bluastra che lo faceva starnutire: “Mi sei mancata!”
cercò di urlare, ma ciò che lui presunse fossero le mani di Dio lo raggiunsero e
smorzarono le sue parole “Brie! Brie! Gabriella!”
Le mani si dissolsero e lei sorrise
e fece scontrare due cembali, un rumoroso bang-bang che quasi gli recò un
attacco cardiaco. La guardò, confuso e mortificato, e lei li fece urtare
ancora, uno sparo nel petto di lui.
Troy
scattò a sedere, respirando pesantemente, la cassa toracica che si alzava e
scendeva, ed il sudore che gli incoronava la testa. La pelle d’oca si formò
sulla sua epidermide, e in quel momento, seppe che non sarebbe stato capace di
riaddormentarsi. La cucina gli faceva cenno di condividere uno spuntino di
mezzanotte, ma non passò il salotto. “Sharpay!” strillò, scontrandosi e poi
sorreggendosi ad una lampada a terra che non ricordava aver lasciato in
quell’angolo “Porca, vacca. Che…cosa…fai…qui?” i nervi
esausti gli ostruivano la trachea.
Lei sedeva
sul divano, facendo zapping tra le televendite notturne, i capelli raccolti in uno chignon scomposto e un grande sacchetto di biscotti al
suo fianco: “Chad ti ha visto questa settimana, e ha detto che sembravi
abbastanza nervoso,” rispose semplicemente, senza staccare gli occhi dalla
televisione abbastanza a lungo da incontrare il suo sguardo “E visto che sono
ben conscia di dove tieni la chiave di riserva –che, tra parentesi, è
orribilmente nascosta, insomma, sotto l’estintore, fai sul serio?- ho pensato
che sarei passata per vedere come stavi.” Sharpay si girò finalmente a
guardarlo “Ah, Bolton. Sembri una merda.”
L’orologio
sul muro ridacchiò sotto i baffi mentre ticchettava
avanti e indietro, urlando dolcemente che empia ora fosse.
“La tua
preoccupazione, benchè stranamente attraente, non è necessaria,” replicò lui con voce monotona “Tu e Chad non potete
continuare ad impicciarvi. Sto bene. Mi sento bene, e sto bene.”
Una
collana dall’aspetto scadente comparve sullo schermo e Sharpay sbuffò alle gemme
chintz: “Impicciarvi? Ti senti bene?” domandò, il gridolino di enfasi
che gli bucava le orecchie “Non essere sciocco, giovanotto, la frase è entrata
da un orecchio ed è uscita dall’altro,” terminò,
usando una voce materna. Lo raggiunse per esaminarlo “Ombra delle cinque,
deodorante da drogheria economica, e una maglietta Curiamo la Baia con un buco
nella ascella. Sì, sembri davvero una merda.”
Il candore
ruppe delle ferite ricucite di fresco. Lui fece una smorfia e ripensò a quella
estate, quella dopo il diploma, quando lui tirava avanti solo a causa di quella
dannata Gabriella Montez. Ma la franchezza di lei era classica, piuttosto che
insultante. Se avesse potuto vederlo in quel momento, avrebbe detto che lo preferiva quando si rasava, che il suo nuovo profumo era
interessante, e i vestiti andavano bene. Aveva sempre avuto un gusto semplice.
Gli
insulti ricominciarono: “Alito da caffè, capelli sporchi alla Robert Pattinson,
orribili pipite…”
“Sharpay.”
pregò.
“E hai di
nuovo gli incubi.” terminò secca.
Lui
avrebbe potuto fingere di non sapere di che cosa stesse
parlando, ma una parte di lui stava gridando grazie, grazie, grazie. La maggior parte di tutti gli altri non
faceva domande, ma un Evans non cadeva mai, mai
nella categoria della maggior parte di tutti gli altri.
Lungo la
durata del suo collasso, le persone avevano fatto i turni per tenere un occhio
su di lui. Chad e Sharpay erano quelli che comparivano più spesso, anche quando
c’era stata una ricaduta tra i due vari anni prima, dopo un viaggio d’impulso e
qualche sigaretta. Nonostante le decine di maledizioni e gesti rudi che si
erano tirati addosso, la loro comune ostilità era
invariabilmente insignificante comparata con la Grande Depressione che Troy era
diventato.
Chad
viveva sulla baia, con una moglie trofeo e pareti di vetro che si affacciavano
sul ponte; Sharpay faceva avanti ed indietro tra San Francisco e Manhattan, dilettandosi
nei piaceri della moda e delle PR. La loro realtà di amici non era mai
compromessa dal malumore di Troy, ma lui trovava difficile accettare il fatto
che erano praticamente i suoi babysitter.
“Non era
un incubo,” insistette “Io non ho gli incubi.”
“Per
favore,” gli camminò attorno e disse sarcastica
“Perché io sono, dopotutto, Troy
Bolton, ex stella del basket e ora amato giornalista sportivo del New York Times. Niente potrebbe andarmi
male! Assolutamente niente!”
Lui la
fissò, e pensò di chiamala stronza. Ma poi tutti i
momenti di debolezza precedenti, tra il funerale e la terapia e l’orribile
disastro di testamento che Gabriella aveva lasciato, gli bombardarono la mente.
E durante tutto questo, Chad e Sharpay e il resto del mondo erano rimasti ad
aspettare –e a fare il tifo per- lui. Troy si fermò: “Continuo a
vederla,” rispose infine, incapace di portare la voce
sopra ad un sussurro “Lei arriva e mi schernisce e tutto quello che faccio è
vederla. E non voglio.”
Le rughe
del sorriso sul suo viso erano poche e poco profonde, e lei tracciò mentalmente
le pieghe di stress e trauma attorno agli zigomi: “Va bene sentire la sua
mancanza, sai,” rispose “Non c’è limite all’addolorarsi.”
“Non
farlo.” disse, con la voce che si spezzava, proprio
come avrebbe fatto lui in pochi minuti.
“Essere andata non è uguale ad essere dimenticata, Troy.”
“Fermati,
Sharpay. Non ho bisogno…” ma lui non sapeva come
finire quella frase, perché in verità, Troy Bolton non funzionava da solo.
Tutta la sua vita era girata attorno a non
c’è un ‘io’ nella ‘squadra’, o la famiglia che vive insieme sta insieme.
Era, al momento, non ciò di cui aveva bisogno, ma ciò che voleva.
L’appartamento,
nel suo vuoto stato d’animo, il tipo che lui amava di più, divenne sempre più
rumoroso finchè lui non gridò perché smettesse. Una sinfonia di clacson delle
auto da sotto, una sveglia sul piano sopra di loro, un udibile in modo
imbarazzante atto sessuale dai vicini in fondo al corridoio. Il rumore lo stava
soffocando, e lui cadde sul pavimento, una frazione dell’uomo che Gabriella
Montez aveva sempre insistito che fosse.
The Wonderful Wizard of Ozz di L. Frank Baum: Mi piace pensare a te come al mio Tuttofare.
Puoi fare qualunque cosa.
Sharpay
andò a sedersi accanto a lui, e gli appoggiò una mano sulla schiena: “Ti è
permesso sentire la sua mancanza,” disse, con una voce
abbastanza calma perché lui la sentisse davvero “Io sento la sua mancanza, ed
anche tu puoi.”
Lui odiava
che Sharpay potesse vederlo così. Troy non piangeva mai. E quando aveva
trovato Gabriella, sanguinante su tutto il pavimento del bagno, una persona
completamente diversa dall’adorabile ragazza nello chalet a Capodanno, aveva
pensato che, forse, non sarebbe caduto in pezzi. Lei non avrebbe voluto che lui
stesse così.
E quindi
ora, cinque anni più tardi mentre Sharpay Evans fingeva che ciò era tutto
normale e finalmente lui si lasciava andare, gli incubi cominciarono a
circolare, guardando e aspettando e ridendo.
---
Lei stava camminando lungo il
marciapiede, con un vestito corto e dei sandali, mentre diluviava, e agitava i
fianchi e si alzava ogni tanto sulle punte, come danzando tra le gocce di
pioggia. Lui corse dietro di lei, finchè cadde in una pozzanghera crudele, solo
più larga e profonda di qualche centimetro di quanto si possa
immaginare.
“Gabriella!” urlò, muovendo
freneticamente le mani “Gabriella!”
Qualunque cosa fosse
–colpa, compassione, noia- che decise che lei si sarebbe girata e si sarebbe
unita a lui, ne era grato. Lei nascose un’alzata d’occhi e cadde accanto a lui
con indifferenza, nella pozzanghera così ambiguamente mostruosa che lui iniziò
a confonderla con un oceano.
I suoi vestiti iniziavano a
diventare pesanti, boccheggiò, tenendosi a galla. Troy calciava più forte che
poteva per evitare di affogare. Al suo fianco, Gabriella galleggiava
allegramente, i capelli raccolti da una fascia dorata, ciuffi di nero
arricciati in cima. Gli ricordava una dea.
“Sei piuttosto carino
quando sei vulnerabile.” gli disse con tono
pratico.
“Gesù, non riesco…” lui inghiottì
una disgustosa boccata di acqua nera e tossì “Gabriella, che sta
succedendo?”
“Svegliati, Hotshot,” gli rispose, allargando le braccia attorno a lei per un
momento “Deve finire. Non hai tempo per rimuginare su di me.” scivolò sotto la superficie, e Troy aspettò, finchè lei non
lo tirò per le gambe e lui affondò con lei.
---
Il giugno
del suo ultimo anno di college era stato un triste periodo per Troy. Era
rimasto impotente mentre riceveva il suo diploma, e
sentiva gli applausi dei suoi genitori e degli altri parenti tra il pubblico:
“Siamo così fieri di te!” gli aveva
poi detto Lucille Bolton, stringendolo tra le braccia.
Le loro lauree
erano state adiacenti, quella di lei pochi giorni dopo quella
di lui. E mentre il rettore a Stanford stava sul podio, chiamando studente dopo
studente, e saltando il triste nome Montez, lui aveva distrutto le lacrime che
minacciavano la sua mascolinità di fronte a perfetti sconosciuti che avevano
presunto che lui fosse stato solo un altro ospite, seduto in fondo, testimone
della cerimonia.
Quella
notte era ritornato a casa, con le chiavi lanciate sul pavimento e la cravatta
appesa come un cappio attorno al collo. Non aveva notato questa scura
coincidenza nelle ombre del suo appartamento vuoto. A mezzanotte, era svenuto
con una moltitudine di bottiglie di birra sul divano, e quella era stata la
prima volta in cui era arrivato un incubo.
“Wildcat, Wildcat, can’t be bought! Run, run, run and
make your shot!” cantò Gabriella, e scosse i ponpon, rossi e bianchi come i
colori della East High. I cori erano sempre stati stupidi.
Lui si appoggiò al muro di mattoni,
e inclinò una bottiglia di birra contro le sue labbra. Si trovavano in un vicolo:
“Ah,” ruttò “Non sei mai stata una cheerleader, Brie.”
“Oh?” lei si girò e sorrise
civettuola “Ma così, sono come tutti gli altri.”
La birra finì e lui lasciò cadere
la bottiglia. Il vetro s’infranse al contatto con il suolo: “Cosa? No, no, tu
non sei come tutti gli altri. Tu sei diversa.”
“Provalo!” gridò, e corse a fare
una ruota. Le mani schizzarono nelle pozzanghere, e i palmi si ritrovarono
sporchi. Lo sporco presto divenne del sangue e lei incominciò a ridere “W-I-L-D: Wildcats! Go-o-o-o
team!”
Lui corse dietro di lei, le sue
mani che le stringevano il torso come una cintura di sicurezza. Lei si liberò
divincolandosi e sorrise alla deserta fine del vicolo: ““Oh, baby, baby, you make me feel so alive.”
---
Nei suoi
vecchi diari del college, Sharpay Evans aveva scritto quanto sentisse
molto la mancanza di Chad Danforth. Descriveva ogni suo aspetto, dalla testa ai
piedi, in dettaglio, con espliciti aggettivi che sapeva avrebbero fatto
arrossire i suoi genitori conservativi. Per un weekend nell’aprile dell’ultimo
anno, il sabato del suo compleanno, lei e il signor Danforth si erano riuniti.
Il loro sesso riparatore era stato emozionante, passionale, ardente e di cuore.
La notte in cui avrebbe dovuto festeggiare ventidue anni dietro di lei, e molti
altri davanti, aveva ricevuto una terrificante telefonata da suo fratello.
“Ryan!”
aveva detto allegra, singhiozzando mentre la bocca di
Chad si muoveva attraverso il suo corpo. Ridacchiò ed esclamò “Buon compleanno,
fratello gemello!”
“Sharpay,” aveva tentato lui all’inizio, ma lei non lo stava ancora
ascoltando.
“Ventidue!
Riesci a crederci? Possiamo bere ed essere brilli! Oh, sì, possiamo fare quello
che vogliamo!”
Lui aveva
ricominciato: “Sharpay, aspetta…”
“Chad!
Smettila!” aveva riso, e poi “Ooops. Non penso che avresti
dovuto sentirlo, gemello. Oh beh! È il nostro compleanno! Chi diavolo se
ne frega?”
“Sharpay.”
Allora lei
aveva sbattuto le palpebre e si era messa a sedere, e Chad si era irritato perché
la chiusura del reggiseno era sfuggita dalla sua presa. Sharpay aveva guardato
l’orologio: erano da poco passate le undici. A New York, sarebbero dovute
essere le due del mattino: “Ryan, perché sei in piedi così tardi? Tu… stai
festeggiando?” aveva domandato, sperando per una dolce risposta. Il suo tono l’aveva
spaventata.
“No, non è
per questo che ti sto chiamando,” aveva risposto
paziente lui, e lei aveva increspato le labbra “Vorrei poterlo dire in una…
maniera meno brusca, ma c’è stato un incidente. Beh, no, non è stato poi un
incidente, ma non è una buona cosa, Sharpay.”
E così,
quando avrebbe dovuto soffiare sulle candeline e ballare le canzoni di Lady
Gaga e pomiciare con Chad Danforth, Sharpay Evans aveva scoperto che i due
amanti che erano destinati a stare insieme erano stati spezzati da un
proiettile preso a prestito ed una sorprendente spirale di depressione che
sarebbe dovuta arrivare prima sul resto del mondo che su questa innocente
coppia di anime gemelle.
“Il
funerale è sabato.”
Quando
aveva sentito ciò, era stato come uno scoppio sonico nella sua testa, e tutti
avevano cominciato a correre in direzioni diverse.
The Curious Case of Benjamin Button
di F. Scott Fitzgerald: Sei come un fulmine. Sparito in un momento, ma, dopo,
arriva il tuono, e tutti noi ricordiamo che sei ancora qui.
---
Ciò che lo
infastidiva di più, all’età di ventisei anni, era che lei non aveva nemmeno
pensato di dire addio. Le loro ultime parole, se le ricordava specificatamente,
erano state “Chiamami dopo, bellissimo diavolo” e “Certo,
ragazza sexy.”
Niente di
simile a “Ti amo” o “Significhi il mondo per me” o
“Non è colpa tua.”
Avrebbe
potuto sistemarlo, ma la responsabilità che aveva come ragazzo e migliore amico
era stata annientata.
Ci viveva,
ogni giorno.
E tutti
gli altri gli dicevano altrimenti. I suoi genitori, quando andavano a trovarlo,
seguivano una formula. A cena, chiacchierano un poco, prima che Lucille si tuffi nel mondo di Gabriella, e Troy dica che non gli
importa, che è andato avanti, e Jack si trattiene dall’alzare gli occhi al cielo
e fissa il vuoto mentre sua moglie, che sia benedetta, continua a divagare e
peggiorare le cose.
Sharpay
gli aveva spiegato che Gabriella non era felice, e benchè lo amasse moltissimo,
a volte l’Hotshot non poteva fare tutto.
Chad gli
aveva passato una birra e detto che non sarebbe stato un male se si fossero
ubriacati. Tutti hanno il proprio metodo di essere in lutto.
Quattro
anni: il giorno lo aveva raggiunto di soppiatto, nel bel mezzo della settimana
lavorativa, mentre era a pranzo con un cliente. Si fermò all’improvviso, mentre
l’uomo d’affari blaterava, e il respiro gli si fermò in gola, come se il suo
subconscio stesse costruendo un muro e negasse il passaggio delle sue emozioni.
“Mi scusi,” disse, e si alzò in piedi, lanciando il
tovagliolo sopra il cibo toccato a malapena “E’ un emergenza… dovremo posporre
l’appuntamento.”
Mentre
abbandonava il ristorante, sentì le gambe che quasi cedevano, ma raggiunse
l’aria fresca in tempo. Troy si chiese se Gabriella lo
stesse seguendo, parlandogli dolcemente nell’orecchio come aveva sempre fatto.
---
Questa volta, lei parlava solo con
i rumori del telefono. “Dio, dannazione”, disse bruscamente, rivolto allo
spazio dietro di lei, rifiutando di guardare nei suoi occhi “Gabriella, sono
davvero stanco di questi giochi. Sono troppo vecchio per giocarvi.”
Le sue labbra si aprirono; tre
squilli, ad alto volume, prima di una coppia leggera di bip.
“Non ti capisco, ma tu stai
cercando di parlarmi. Non funziona. Non può funzionare.”
aprì i pugni, calmando la sua rabbia “Non so quello
che stai dicendo. O componendo. Come vuoi.”
Dei toni medi caddero dalla sua
bocca e lei sorrise, portandosi la mano al viso. Il pollice e il mignolo si
sollevarono, e la mano sembrò un telefono. “Chiamarti?” chiese lui, sull’orlo
della disperazione. Una nota.
Infine, lei parlò nella lingua di
lui: “Qualunque cosa pensi tu ti possa aggrappare, deve essere lasciata andare.
Ed inizia raccogliendo i pezzi che hai rotto quattro anni fa. Wildcat, sei
sempre stato così stupendo. Mi manchi, bellissimo diavolo.”
Aprì gli
occhi prima di poterla chiamare ragazza
sexy. Era l’alba, e la penombra stava appena iniziando a bussare alla
finestra. L’appartamento profumava come d’estate, e lui respirò profondamente.
Il telefono vicino al letto squillò, e lui lasciò che andasse in segreteria: “Ciao, siamo Troy e Gabriella. Adesso non
siamo disponibili, quindi lasciateci un messaggio, e vi richiameremo!”
I suoi
genitori erano entrambi d’accordo che avrebbe dovuto cancellarlo. Chad pensava
che fosse strano, ma comprensibile tenerlo. Sharpay gli
aveva dato dei colpi tristi sulla spalla mentre lui
saltava l’ennesimo messaggio pubblicitario, che avrebbe per sempre ignorato che
la ragazza gentile sulla registrazione era morta, e quindi non avrebbe potuto richiamarli.
Un giorno,
il messaggio della segreteria telefonica sarebbe stato cancellato, o lui
sarebbe stato costretto a comprare un nuovo telefono, un altro pezzo di
Gabriella rimosso, obliterato, raschiato via. Ogni volta che era obbligato a
realizzare ciò, andava a frugare nel suo armadio per la scatola di ricordi che
lei aveva così sfacciatamente creato nelle settimane prima
che lui la trovasse, sanguinante su tutto il bagno.
Il
testamento era seppellito sul fondo. Era infilato sotto la nappa dal suo
cappello del diploma, la prima A su tema d’inglese del
liceo, il braccialetto da tennis che aveva ereditato da una lontana zia che non
aveva mai indossato, e una Polaroid di loro due al Ballo. Benchè lui volesse essere nostalgico, ignorò i gingilli e infine prese
fuori quello che stava cercando.
Era
scritto in modo goffo, quasi di fretta e un po’ falso. Nonostante ciò,
affermava conciso e diretto che Troy aveva diritto ad ognuna e tutte le sue
proprietà, se e quando lei avrebbe avuto bisogno di un beneficiario. Lui
sospirò e accartocciò il foglio tra le mani, prima di sibilare: “Merda!” sottovoce e lisciarlo
attentamente.
Il retro
non era mai stato osservato, semplicemente perché non c’era mai stata ragione
di farlo. Ma lui vide qualcosa che subito sperò di aver visto anni prima, un
tratto di matita dolce e una grafia familiare: All the King’s Men di
Robert Penn Warren.
La
biblioteca era, come sempre, una macchia schiaffata nel mezzo di Berkeley e
Stanford, trentadue virgola sette miglia tagliate a metà. Lui guidava e le
strade cominciavano a diventare trafficate, il giorno iniziava per il resto
della civiltà. Realizzò, troppo tardi, che la biblioteca non avrebbe aperto
così presto. Alla porta, spiò dentro al vetro, e notò una donna al bancone.
Non era la
bibliotecaria che era anziana, incurvata, con un cipiglio scocciato ed
intimidante. Questo rimpiazzo era più giovane, più magra, stava dritta, e in
qualche modo sembrava amichevole. Bussò piano sul vetro e lei guardò in su, e alzò un sopracciglio. Arrivata alla porta, la aprì
con cautela: “Posso aiutarla?” chiese.
Troy fece
un respiro profondo: “Mi stavo chiedendo se avete All the King’s Men di
Robert Penn Warren. Io… io ne ho bisogno. Mi piacerebbe darci un’occhiata.”
La donna
sorrise: “Oh. Beh, non apriamo fino alle otto…”
“Lo so,” la interruppe “Senta, mi dispiace davvero, sono appena le
sette, ma non può aspettare. Io non
posso aspettare. Per favore?”
Lei
riflettè per un momento. Lui avrebbe potuto essere un freddo assassino
spietato, che era anche un bravo bugiardo. Avrebbe potuto essere un ladro, che
era così insignificante da svuotare il registratore di cassa sotto il banco che
conteneva non più di venti dollari per la multa della consegna in ritardo dei
libri. Oppure, avrebbe potuto essere qualcuno che non era mai stato a contatto
con la letteratura, ma alla fine aveva trovato una ragione per riconsiderarla.
La giovane
bibliotecaria scelse l’ultima opzione, e lo lasciò entrare.
All the King’s Men fu facile da trovare. Troy si
era ricordato di raffinare le sue capacità di trovare un libro, dopo così tante
note passate avanti e indietro. Prese la sola copia sullo scaffale e la soppesò
tra le mani: più pesante di quanto si aspettasse, probabilmente una fantastica
storia da leggere un giorno. Ma in quel momento, non gli importava. Si mosse
tra le pagine, sopra e sotto, da una parte e dall’altra nella speranza di
trovare quel corsivo che gli mancava parecchio.
Quando leggerai questo, se mai lo
leggerai, suppongo che all’inizio sarai arrabbiato con me, e infelice delle
circostanze.
Si
pietrificò, e i suoi occhi rubarono la prima frase, derubandola della sua
riservatezza. Lei conosceva la linea temporale. Aveva capito che non ci sarebbe
stata quando alla fine lui avrebbe letto ciò.
Ma ho bisogno che tu sappia che hai reso la mia vita davvero molto migliore di
quanto avrebbe mai potuto essere, nel passato, presente o futuro.
Lacrime traballarono
sulle sue ciglia. Tremò e la giovane bibliotecaria a pochi passi di distanza
decise di lasciarlo da solo.
So che sei forte.
Lui
replicò: “Per una volta, avevi torto.”
Per favore, non ti punire. Non
sprecare il tuo tempo con me, perché so che hai tanto per cui
vivere, ed io sarò con te, ad ogni tuo passo, lo prometto.
“Le
promesse sono fatte per essere mantenute.” disse spiccio, e le sue mani tremarono attorno alle pagine. All
the King’s Men probabilmente era
un libro triste; doveva esserlo.
L’universo
aveva dato loro tutto; erano stati porti l’uno all’altra su un piatto
d’argento, una coppia di microfoni e qualche miserabile produzione teatrale del
liceo. Ma l’universo li aveva persi di vista, come aveva perso di vista Brad e
Jennifer, Leo e Gisele, e Ryan e Rachel. Due bambini irreprensibili cadevano
tra le crepe e il risultato era oltre il tragico.
Sarò sempre lì, Hotshot. E tu puoi
crescere forte. Hai ancora una chance. Ho sempre saputo che eri il migliore
ragazzo di cui innamorarsi, ed il migliore ragazzo da cui essere riamata.
Gli incubi
erano il suo modo di parlargli, di dirgli di andare avanti, finchè avrebbe
potuto vedere quest’ultimo messaggio, la parola d’onore che pensava non avrebbe
mai udito. Mentre la giovane bibliotecaria chiudeva un occhio e trafficava al
suo banco, lui scrisse nello stesso libro, qualcosa che non aveva mai fatto
prima, lentamente, per assaporare il momento mentre si
prendeva in giro credendo che stesse parlando davvero con Gabriella, e che lei
stesse ascoltando davvero.
All the
King’s Men di Robert Penn Warren: Sono un disastro senza di
te. Non so che fare, ed ogni volta che qualcuno cerca di organizzarmi un
incontro al buio, mi piacerebbe strangolarlo. Sono passati quattro anni e
ancora mi sento come se fosse solo ieri. Ancora non ho capito perché te ne sei
andata, e dubito che lo farò mai. Voglio pensare che avrei
potuto salvarti. Ma Sharpay dice che a volte l’Hotshot non può fare
tutto. Mi manca sentirti che mi chiami Hotshot.
Gli incubi non lo seguirono a casa, e nel sedile del passeggero del suo
pick-up, la immaginò seduta, il vento che le agitava i capelli
mentre abbassava il finestrino e le note marginali intrecciate tra di loro, le stesse note
scarabocchiate di sex appeal e pezzi dei loro cuori scritti a matita. “Il mio
Wildcat,” la sognava dire con voce musicale “Il mio
angelo, il mio incubo, il mio Wildcat.”
La radio
canticchiava sommessamente una ballata dei Beatles, che era stata la loro
preferita: “Found my way upstairs and had a smoke, and somebody spoke and I
went into a dream.” la canzone
collegava il presente e la vita nell’aldilà, e la canzone continuò, un processo
di guarigione mentre Gabriella continuava a parlargli dolcemente nell’orecchio
come aveva sempre fatto.
I’d love to
turn you on…